rivista anarchica
anno 33 n. 288
marzo 2003


 

Bakunin e gli altri

Il linguaggio epistolare, per definizione, è un linguaggio che avvicina all’intimità di chi scrive perché colui che scrive vuole innanzi tutto avvicinarsi all’intimità di chi legge. Una lettera offre sempre una lettura della realtà descritta che sfugge all’impersonalità, dal momento che è la persona ad essere vettore e filtro dell’azione che si vuole comunicare, mettere in comune, con il destinatario della missiva, l’altra persona.
Il libro di Arthur Lehning, Bakunin e gli altri. Ritratti contemporanei di un rivoluzionario (Zero in condotta, Milano 2002, pp. 376, €16,50) recentemente tradotto magno cum amore da Vincenzo Papa per la casa editrice Zero in condotta è un’opera che – sotto questo profilo – è affascinante e strega, in quanto offre al lettore l’opportunità di entrare in contatto con l’immaginario storico-figurativo del XIX secolo attraverso i ritratti che Mikail Bakunin dà dei suoi contemporanei e che questi ultimi offrono della sua persona. Infatti, a volte pare non di sfogliare un libro, quanto piuttosto un album fotografico in cui si è sorpresi nel constatare i cambiamenti che il tempo e le situazioni hanno segnato sui volti familiari dei personaggi storici che sono tratteggiati nei 211 documenti qui raccolti (in gran parte lettere, memorie, articoli di Aleksandr Herzen, Vissarion Belinskij, Ivan Turgenev, Richard Wagner, Von Masoch, Friedrich Engels, Karl Marx, Arnold Ruge, George Sand, Pierre-Joseph Proudhon, Elisée Reclus, Jules Michelet, Errico Malatesta).
In tal modo non è soltanto il ritratto del noto rivoluzionario russo ad essere via via ricostruito attraverso le impressioni, le emozioni ed i sentimenti riportati nelle missive e negli articoli scritti dai suoi contemporanei, ma ugualmente sono i ritratti degli stessi coevi che appaiono delinearsi specularmente dalle loro osservazioni e dai loro commenti su Bakunin. Quasi che l’impatto con la sua figura imponente ed imperiosa (sia per la stazza fisica, sia per la “linfa vitale” che da essa sprigionava e che uno scrittore russo ha chiamato una perpetua primavera – p. 341) fosse così travolgente da segnare e condizionare il comportamento di chi gli stava attorno anche solo per breve tempo.
Più volte si è affermato quanto l’opinione dei contemporanei e un’aurea leggendaria costruita attorno alla figura di Bakunin abbiano lasciato un segno indelebile nella storia; tanto è vero che nella «rappresentazione iconografica della rivoluzione – come osserva Comidad nella nota introduttiva all’edizione italiana – Bakunin ha assunto il ruolo di una figura antagonista ma complementare rispetto a Marx». Sennonché, è proprio quella sua “parte” di rivoluzionario scapestrato e arruffone che lo ha salvato dal divenire un’immagine sacra e santificata dal movimento rivoluzionario. Non perché – e forse più di altri, sicuramente più di Marx – non avesse la stoffa dell’eroe, ma perché dell’eroe non ha avuto necessità di apparire, in quanto che il suo ascendente «emanava, vorrei dire, da tutto il suo essere» (Bauler, p. 327).
Un “aspetto leonino”, una “barricata in movimento”, una “aurora boreale” un “dio del tuono” un “vecchio abete gigante” sono soltanto alcuni degli epiteti che si possono frequentemente annotare fra la corrispondenza dei suoi contemporanei; e anche quando si passa alle calunnie, come quella – orchestrata ad arte dai seguaci di Marx – d’essere “agente segreto” al servizio dell’impero russo, o quella di essere un “demagogo di professione” – come recita l’atto della sua condanna a morte – ugualmente si può intuire la forza che la sua possente figura emanava. Una forza contagiosa e straripante che assicurava al suo pensiero, alle sue idee, di poter contare su di una personalità naif – per usare a prestito le parole del naturalista tedesco Carl Vogt – «incapace di una vigliaccata, fremente d’indignazione di fronte a delle ignominie sociali, che adora, allo stesso modo, la rivoluzione e le donne, che ama poco gli uomini di spada e disprezza gli uomini avidi di denaro.» (p. 95)
Che poi, in quanto a disprezzare il denaro, «Il senso olfattivo nei cani da caccia che scoprono le tracce della selvaggina è un senso grossolano e del tutto embrionale, se paragonato al fiuto di Bakunin quando si trattava di scovare denaro.» (Arnould, p. 307), la dice assai lunga a proposito di una vita spesa interamente per la rivoluzione. Infatti, sebbene fosse nato da una ricca famiglia nobile russa, e il padre – racconta Bakunin nelle sue memorie, scritte negli ultimi anni di vita – fosse «padrone di circa 2000 schiavi maschi e femmine, con il diritto di venderli, di picchiarli, di farli trasportare in Siberia, di consegnarli all’esercito come reclute e soprattutto di sfruttarli senza pietà o, più semplicemente, di depredarli e di vivere del loro lavoro forzato» (p. 26), condusse la maggior parte della sua esistenza «sprovvisto di mezzi di sussistenza, [sopravvivendo] grazie alle risorse che gli fornivano i suoi amici più prossimi; [vivendo] più che modestamente, utilizzando la maggior parte della sua magra disponibilità in denaro per pagare l’affrancatura della sua voluminosa corrispondenza.» (Ralli, p. 265).
Già, la sua “voluminosa corrispondenza”. Doveva sembrare fatto tanto ovvio e naturale incontrare Bakunin ai piedi di una barricata durante una delle tante rivolte scoppiate a Berlino, Dresda, Lione fra il 1848 e il 1870, che appare davvero difficile poterlo immaginare tranquillamente seduto a scrivere quella copiosa corrispondenza spedita ai quattro angoli del mondo. Pure, a leggere le sue lettere e quelle dei suoi contemporanei, vien proprio da affermare che se non lo si trovava sulla barricata è perché era scappato un attimo a casa, giusto il tempo per rispondere ad alcune lettere, stilare qualche segreto organigramma ed intrattenersi in allegra compagnia.
Scriveva, scriveva sempre. Non libri, lettere. I libri – quei pochi libri pubblicati nel corso della sua vita, perché occasionalmente aveva trovato i soldi per farlo – non erano altro che la continuazione di lunghe lettere, e di queste possedevano lo stile volitivo e l’impeto battagliero di un’esortazione a “fare presto”. Racconta Vyrubov, l’esecutore testamentario di Aleksandr Herzen: «Cominciava di solito con una lettera a uno dei suoi neofiti; a poco a poco la lettera raggiungeva la lunghezza di un articolo da rivista, il quale articolo prendeva visibilmente l’ampiezza di un opuscolo. Talvolta il suo pensiero errabondo non riusciva a fissarsi e ne usciva un volume più o meno spesso; i primi fogli erano composti e corretti da molto tempo quando si scopriva, a manoscritto concluso, che mancava il denaro per pubblicarlo; le prove di stampa venivano allora sistemate su di una mensola, aspettando circostanze più favorevoli.» (p. 243).
Ma è appunto quest’estesa corrispondenza destinata a fortificare i timidi, a destare gli assopiti, a tracciare piani di propaganda o di rivolta, che può forse aiutarci a comprendere la prodigiosa azione di Bakunin avuta nell’organizzazione del movimento rivoluzionario ai tempi della Prima Internazionale dei Lavoratori. Non sarà allora questo il motivo che avrà forse spinto la casa editrice Zero in Condotta a redigere il presente volume (impreziosito dai disegni a china di Gianna Papa tratti da fotografie dell’epoca), nella speranza che la rilettura delle epistole bakuniane possano ancora suscitare simili “cattivi pensieri”?

Benjamin Atman

Ma D’Annunzio era no-global?

La vivace ricostruzione dell’impresa di D’Annunzio a Fiume di Claudia Salaris (Alla festa della rivoluzione, artisti e libertari con D’Annunzio a Fiume. Edizioni Il Mulino, Bologna, 2002, € 17,00) si apre significativamente con il telegramma che il Club Dada berlinese inviò al «Corriere della Sera» per celebrare la «conquista grandiosa impresa dadaista». I firmatari del messaggio, Huelsenbeck, Baader e Grosz, dichiarano che l’atlante mondiale dadaistico DADAKO (editore Kurt Woff, Lipsia) riconosce Fiume già come città italiana.
È questo il registro che la Salaris sceglie per parlarci della rivolta fiumana, la chiave di lettura privilegia il binomio arte-vita, che a Fiume ed altrove si combina con l’azione politica diventando una miscela esplosiva dove la politica viene fatta con le armi dell’ironia e dell’immaginazione, dove l’azione provocatoria si combina con i movimenti controculturali e creativi, dove il memorabile «disobbedisco» dannunziano precorre il «proibito proibire» sessantottesco, le azioni dei provos olandesi, l’estetica situazionista che usa il binomio arte-politica per costruire un’estetica della rivoluzione. L’uso politico dell’ironia, ricorrente nel futurismo, nel dadaismo e nel surrealismo, scrive l’autrice, è uno dei fenomeni destinati a restare nel patrimonio genetico delle rivolte del XX secolo, fino a riaffiorare nei movimenti giovanili del dopoguerra.
Già Hakim Bey, peraltro, nel suo T.A.Z. Zone temporaneamente autonome, aveva ricostruito una sua storia delle comunità alternative e libertarie che ponevano al centro della loro azione la conquista di zone liberate ed egualitarie, partendo dall’esempio dei pirati della Tortuga, protagonisti di una proto TAZ libera ed illegale dispersa fra isole e nascondigli, ricordando La Comune di Parigi ed inserendo la repubblica di Fiume come una delle ultime «utopie pirate» o addirittura prima TAZ della modernità.
Il 12 settembre 1919, il poeta Gabriele D’Annunzio, parte da Ronchi alla testa di un manipolo di arditi e di disertori per occupare Fiume e annetterla al Regno di Italia: erano in molti a pensare che, negli accordi che si andavano facendo dopo la fine della Grande Guerra, la città dovesse comparire nell’elenco delle città redente. L’azione di D’Annunzio sfrutta l’impeto e l’adrenalina che la guerra aveva acceso in molti combattenti e arriva a sorpresa con un effetto altamente mediatico: quella che ci si appresta a recitare, per ben sedici mesi, nella città occupata è veramente la festa spettacolare della rivoluzione cui si allude nel titolo. Fra i documenti trattati per la ricostruzione ci sono i testi scritti da poeti, letterati e artisti che a fianco del poeta vissero questa breve ed esaltante avventura: le memorie di Giovanni Comisso, Léon Kochnitzky, Mario Carli ma anche le trasposizioni narrative che a quell’evento si ispirarono come gli Arabeschi fiumani e il romanzo Trillirì sempre di Carli, Il Porto dell’amore di Comisso. Il risultato è una ricostruzione che intreccia personale e politico in un affresco molto vivace anche dal punto di vista espositivo.
Fra gli argomenti trattati il difficile e conflittuale rapporto con Marinetti e i futuristi, fra i primi a rispondere all’appello in un momento in cui il Futurismo è attraversato dal dibattito sugli sbocchi politici che molti artisti sentono di dover dare alla loro esperienza estetica; la frattura che si viene a creare fra futuristi e fascisti dopo il secondo congresso fascista che porta alle dimissioni di Marinetti e di Carli; i legami che intercorrono con altre forze insurrezionaliste: Randolfo Vella di «Umanità Nova» è il primo dei giornalisti sovversivi ad arrivare a Fiume per studiare il fenomeno fiumano. In novembre Marinetti, Carli, Somenzi e Cerati invieranno due telegrammi a nome della direzione del movimento futurista e di un Club futurista milanese al ministero degli Interni per protestare contro l’incarcerazione di Errico Malatesta e in segno di protesta per la reclusione di tutti i detenuti politici. I tormentati rapporti fra futuristi e anarchici, analizzati in un bel libro di Alberto Ciampi dell’89 – Futuristi e Anarchici, quali rapporti? – e di recente in una tesi di laurea da Laura Iotti – Futuristi e anarchici, dal primo manifesto di Marinetti all’entrata in guerra dell’Italia (1909-1915) –, naufragarono com’è ovvio sulle posizioni militariste e nazionaliste di quella parte del movimento futurista che poi convergerà nel partito fascista, ma anche su una visione della violenza che per gli anarchici aveva valore di necessità e di progettualità politica mentre per i futuristi rivestiva un valore soprattutto estetico.
In realtà a Fiume convivono con notevoli difficoltà due anime una fortemente tradizionalista e nazionalista e una giovane trasgressiva e immaginifica che solo l’autorevolezza e il carisma di D’Annunzio riescono a tenere insieme.
La città occupata diventa un laboratorio per sperimentare nuove forme di governo, di vita, militari.
La sopravvivenza economica dei rivoltosi, persa la speranza in un aiuto istituzionale, si avvale di donazioni di ricchi mecenati e ammiratori del poeta; finanziamenti sostanziosi, nei primi tempi, arrivano anche dalla massoneria, ma soprattutto l’economia fiumana è una «economia pirata» che vive di spettacolari “espropri” ai danni di navi e piroscafi che vengono dirottate a Fiume e i cui carichi vanno a far parte del bottino di una guerra che si combatte in difesa di tutti i popoli che combattono contro nazionalismi, capitalismo, militarismo. Nell’ottobre del 1919 sul piroscafo Persia, appartenente ai Lloyd di Trieste, carico di munizioni e di viveri destinate a Vladivostok si imbarcano, clandestinamente, tre «fiduciari» fiumani, e convincono l’equipaggio della nave a sbarcare «volontariamente» a Fiume. «I mezzi che dovevano servire a combattere la libertà e la redenzione del popolo russo serviranno per la libertà e per la redenzione del popolo fiumano» si legge nel comunicato che il capitano Giulietti fa stampare per far luce sull’episodio e smentire le versioni tendenziose e inesatte della stampa ufficiale.
Sotto il governo di un poeta-guerriero la città diventa il crocevia di sperimentazioni trasgressive come l’«economia pirata» per la sopravvivenza comunitaria, si fissano nuove regole che definiscano il rapporto fra l’esercito e il suo comandante che è di tipo fiduciario, le divise stesse diventano oggetti da reinventare: si vedono donne vestire «alla maschietta» con casacche grigioverdi e pantaloni militari, gli uomini de «La disperata», una delle compagnie più colorate e originali, reclutati dall’aviatore Guido Keller fra i legionari più giovani e trasgressivi, marciano per la città a torso nudo e in pantaloncini corti; Guido Keller, uno dei personaggi più stravaganti dell’impresa fiumana è un cultore del naturismo e si distingue per alcune imprese pittoresche e beffarde fra queste famosa quella in cui in un’escursione aerea getta su Montecitorio un pitale pieno di carote e di rape e progetta, ad un certo punto, di rapire il presidente del consiglio Giolitti, idea abbandonata perché troppo rischiosa. A Fiume viene praticato il libero amore e le donne stesse ottengono il diritto a manifestare col voto il loro parere, partecipano alle manifestazione collettive e alle parate anche se il mondo fiumano rimane comunque essenzialmente maschile ed è diffuso il rapporto omosessuale che Marinetti stesso aveva definito «gusto rispettabilissimo» e che viene considerato un modo per opporsi alla morale bigotta e «passatista». Nella città occupata si incontrano nazionalisti e internazionalisti, monarchici e repubblicani, conservatori e sindacalisti, clericali e anarchici, imperialisti e comunisti.
La Costituzione dello Stato Libero del Carnaro, redatta da D’Annunzio e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, riconosce «la sovranità di tutti i cittadini senza divario di sesso, di stirpe, di lingua, di classe, di religione», viene sottolineata l’uguaglianza fra i sessi e l’affrancamento della donna rispetto all’autorità «maritale», viene introdotta la pratica del divorzio e il diritto di voto e di lavoro per la donna. Nella Carta del Carnaro si sottolinea l’importanza delle libertà di stampa, di riunione e associazione e della garanzia di un «salario minimo» per tutti i cittadini.
Regole e convenzioni vengono stravolte, comizi e cortei si formano istantaneamente, composti da donne e da uomini, mulinello di gioventù, di patriottismo, che grida, che salta, che turbina, ricorda Carli, trascinando con sé i pochi tiepidi o i vecchi che vorrebbero far da spettatori, bambini di quattro cinque anni tengono comizi sulla scalinata di casa che si chiudono con il fatidico «Eja, eja, eja! Alalà». Il Comandante stesso comizia quotidianamente la popolazione fiumana, dando il via a quella spettacolarizzazione della politica che poi il regime fascista metterà a punto di lì a qualche anno, riprendendone i riti, le parate, la pulsione a capovolgere l’ordine costituito, gli slogan come i famosi «me ne frego!», «Chi non è con me è contro di me!», l’Alalà di saluto persino «Giovinezza!Giovinezza!» canzone nata ai tempi della guerra del Piave diventa oggetto di riappropriazione e viene riproposta nella kermesse fascista.
L’interminabile festa fiumana finisce dopo sedici lunghi e indimenticabili mesi nel «Natale di sangue» del 1920 quando l’esercito governativo sconfigge rapidamente l’esercito di ribelli.
L’avvento del fascismo getterà sulla lettura di quell’episodio, che preannuncia indiscutibilmente la marcia su Roma e l’avvento del regime fascista, una luce torbida e nera.
Con la condanna del regime negli anni successivi alla Liberazione si cancellerà con un colpo di spugna il ricordo imbarazzante dell’episodio fiumano, buttando così con l’acqua sporca del regime fascista tutto quello che aveva avuto legami ideali o formali con la dittatura, senza porsi il problema di analizzare le varie componenti che caratterizzarono quell’evento. La stessa sorte toccò al movimento futurista, uno dei più vivaci movimenti di avanguardia del Novecento, che non a caso ebbe molta più risonanza all’estero che non Italia, dove solo di recente è stato rivalutato dal punto di vista della notevole spinta trasgressiva e rivoluzionaria che ebbe nell’elaborazione di un pensiero estetico autenticamente innovativo e di portata internazionale.
La lettura di Claudia Salaris della provocazione fiumana tende a porsi essa stessa come atto provocatorio, come un détournement di marca situazionista, o uno spiazzamento recuperato dalla pedagogia buddista, proprio per la caparbietà e la sottigliezza con cui l’autrice cerca di mettere in contraddizione e aprire nuovi spiragli interpretativi su un episodio per lungo tempo travisato e interpretato strumentalmente da una certa critica del Novecento.
Come in altri testi della Salaris anche qui si cerca di ricondurre il futurismo all’interno di una interpretazione più ampia ricostruendo una sorta di fil rouge della trasgressione e della rivolta che si può rintracciare, ad esempio, nella contestazione sessantottina e a maggior ragione nel movimento del Settantasette, anche in questo caso l’interpretazione di un periodo, quello passato alla storia come «gli anni di piombo», creò il paradigma di lettura di quell’evento che fu cancellato dal diritto di memoria: vae victis.

Carla Pagliero

 

Il grande orecchio

È appena uscito in libreria Il mondo sotto sorveglianza di Duncan Campbell (Elèuthera). Ecco alcuni brani tratti dal libro.

Questo libro intende dimostrare come le organizzazioni addette allo spionaggio elettronico (sigint – Signals Intelligence) da oltre ottant’anni si siano attivate per avere accesso a gran parte delle comunicazioni internazionali. Le loro attività comprendono l’intercettazione illegale dei satelliti commerciali, delle telecomunicazioni attraverso lo spazio, di quelle attraverso i cavi sottomarini e di quelle su Internet. Oggi oltre duecento sistemi spaziali o satellitari sono contemporaneamente in funzione e raccolgono dati per l’intelligence.
Lo spionaggio elettronico è un’attività che implica l’intercettazione su larga scala e l’elaborazione di ogni tipo di telecomunicazioni con un volume che raggiunge i miliardi di messaggi ogni giorno. Il lavoro svolto dalle organizzazioni di questo genere è stato rappresentato in modo oleografico dal cinema hollywoodiano e raccontato nei memoriali degli specialisti che in tempo di guerra si sono adoperati per decrittare i cifrari in codice giapponesi, tedeschi e sovietici. Ma in nessuno dei due casi è stata offerta un’immagine precisa delle attuali organizzazioni di intelligence che, a causa della sempre maggiore dipendenza della società dalle informazioni elettroniche, sembrano possedere più che mai «la capacità [...] di creare una tirannia totalitaria».
Echelon è un sistema utilizzato dalla National Security Agency americana (nsa) per intercettare ed elaborare le comunicazioni internazionali che passano attraverso i satelliti delle telecomunicazioni. Esso fa parte di un sistema globale di sorveglianza che prevede anche sistemi finalizzati a intercettare i messaggi provenienti da Internet, dai cavi sottomarini, dalle trasmissioni radio, dalle apparecchiature segrete installate all’interno delle ambasciate, e che utilizza i satelliti in orbita per attuare un controllo continuo di tutti i segnali lanciati sull’intera superficie terrestre. L’apparato comprende stazioni operative in Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda, oltre a quelle operanti negli Stati Uniti.
Il sistema di sorveglianza elettronica più segreto del mondo è prima di tutto un frutto della seconda guerra mondiale. In senso più lato, però, possiamo rintracciarne le origini nell’invenzione stessa della radio e nelle caratteristiche intrinseche delle telecomunicazioni. La radio ha fatto sì che tanto gli Stati quanto altri soggetti potessero inviare messaggi da un continente all’altro. L’altra faccia della medaglia, però, era che chiunque sarebbe stato in grado di riceverli e ascoltarli. Prima i messaggi scritti erano fisicamente protetti (a meno che il corriere che li trasmetteva non cadesse in un’imboscata o una spia non ne rivelasse il contenuto). L’invenzione della radio ridiede così importanza alla crittografia, ovvero all’arte e alla scienza di creare codici segreti, e fece nascere un nuovo business e un’arte nuova: lo spionaggio elettronico, che ormai è un’attività su scala industriale.
Nel corso del ventesimo secolo i governi si sono sempre più resi conto dell’importanza di codici segreti efficaci, che invece spesso erano tutt’altro che sicuri. Durante la seconda guerra mondiale, negli Stati Uniti e in Gran Bretagna esistevano gigantesche strutture di decrittazione dei codici, che analizzavano e leggevano centinaia di segnali provenienti dalla Germania e dal Giappone. Quello che facevano e come lo facevano è rimasto un segreto gelosamente custodito nei decenni successivi. Nel frattempo, le organizzazioni sigint americana e inglese, la nsa e la gchq (Government Communications Headquarters) hanno costruito una rete d’ascolto mondiale.
Nel dopoguerra, in base a un accordo segreto, i principali Paesi anglofoni decisero di esercitare insieme un’opera di controllo e sorveglianza in diverse parti del mondo. Negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra e poi per un quarto di secolo ci sono stati pochi indizi visibili dei raffinati sistemi messi in atto. Gran parte delle telecomunicazioni (civili, militari e diplomatiche) erano effettuate via radio su canali ad alta frequenza. La nsa e i suoi collaboratori tenevano in funzione centinaia di centri di intercettazione a distanza intorno all’Unione Sovietica e alla Cina, ma anche sparsi in ogni zona del mondo. Dentro edifici senza finestre, le squadre di intercettazione passavano a turno ore e ore ascoltando il silenzio, inframmezzato da periodi di attività frenetica. Per le basi di ascolto, in prima linea nella Guerra Fredda, il monitoraggio delle radiotrasmissioni militari comportava un notevole stress. Gli operatori ricordano come molti colleghi avessero spesso dei crolli nervosi dovuti alla tensione, magari con corse al gabinetto dopo aver creduto di avere intercettato un messaggio che segnava l’inizio di una guerra globale termonucleare.
Echelon è la componente principale del sistema globale di sorveglianza gestito dall’alleanza dei Paesi anglofoni. Il compito delle sue stazioni è di intercettare e di elaborare le comunicazioni che passano attraverso la rete dei satelliti commerciali. Altre componenti del sistema si occupano dell’intercettazione dei messaggi che provengono da Internet, dai cavi sottomarini, dalle trasmissioni radio, dalle apparecchiature segrete installate nelle ambasciate, oppure si servono di satelliti in orbita per monitorare i segnali su tutta la superficie terrestre. Echelon comprende stazioni al suolo gestite dalla Gran Bretagna, dal Canada, dall’Australia e dalla Nuova Zelanda, oltre a quelle degli Stati Uniti. Alcune delle stazioni australiane e britanniche fanno lo stesso lavoro dei siti Echelon americani, ma non sono necessariamente denominate stazioni Echelon. Comunque fanno tutte parte della stessa rete globale integrata che utilizza le stesse apparecchiature e gli stessi metodi per estrapolare in modo illecito, ogni giorno e in tutto il mondo, informazioni e dati dai messaggi privati.
Fin dall’inizio degli anni Novanta si sono sviluppati sistemi comint rapidi e sofisticati per raccogliere, filtrare e analizzare i tipi di comunicazione digitale utilizzati su Internet. Poiché gran parte del potenziale della rete si trova negli Stati Uniti o è collegato con gli Stati Uniti, molte comunicazioni del «cyberspazio» passano attraverso siti intermedi che si trovano in territorio americano. In genere le comunicazioni tra Europa, Asia, Oceania, Africa o Sud America passano dagli Stati Uniti.
I messaggi Internet standard sono composti da «pacchetti» digitali chiamati datagram. Questi contengono numeri che si riferiscono alla loro origine e destinazione chiamati «indirizzi ip». Ogni computer collegato a Internet ne ha uno proprio. Per questo sono sostanzialmente facili da individuare come siti di origine o di destinazione. La gestione, la selezione e l’inoltro di milioni di questi pacchetti al secondo è un’attività fondamentale per qualsiasi centro Internet. In parte è lo stesso processo a rendere facile l’estrazione di dati ai fini dello spionaggio informatico.
Il percorso che segue ogni pacchetto o datagram su Internet dipende dall’origine e dalla destinazione dei dati, dai sistemi che servono per entrare e uscire da Internet e da una miriade di altri fattori, non escluso l’orario d’invio. Per questo i routers che operano sulla costa occidentale degli Stati Uniti sono al minimo di attività quando il traffico in Europa centrale è più congestionato. È così possibile (e ragionevole) che alcuni messaggi, i quali dovrebbero percorrere una breve distanza geografica su una rete europea sovraccarica, seguano invece una strada che li porta prima, per esempio, in California. Ne deriva che una grossa percentuale delle comunicazioni internazionali su Internet, per le caratteristiche del sistema, transiti dagli Stati Uniti e sia così accessibile al monitoraggio della nsa.
Invece lo spionaggio microeconomico e l’intelligence competitiva si occupano di informazioni sui particolari delle gare d’appalto e/o delle aziende e possono far sì che alcune società si avvantaggino in un particolare mercato grazie a maggiori conoscenze sulle transazioni e sugli acquirenti. Queste attività possono anche ottenere informazioni specifiche e utilizzabili sulle attività di marketing e, soprattutto, sulle offerte della concorrenza. Lo spionaggio microeconomico è particolarmente utile in due casi:

• reperire informazioni preliminari su appalti o gare che stanno per essere lanciate, come le richieste di offerte nella fase iniziale di una trattativa commerciale;
• reperire informazioni specifiche sulle offerte della concorrenza alla chiusura di una gara, nella fase di «offerta migliore e definitiva».

I due tipi di spionaggio microeconomico sono possibili con il ricorso sistematico alle intercettazioni comsat.
Lo spionaggio sia macroeconomico sia microeconomico può facilmente venire a sovrapporsi ad altre forme di raccolta occulta di informazioni. Carpire notizie sulle posizioni che in una trattativa multilaterale assumeranno i governi stranieri è utile tanto per la diplomazia quanto per gli interessi commerciali. Per quanto riguarda la Difesa, si possono raccogliere informazioni sul commercio internazionale di armi per ragioni militari, ma è probabile che, per loro natura, le stesse informazioni siano di grande valore sul piano macroeconomico nei principali Paesi produttori di armamenti. D’altro canto, spesso il principale obiettivo delle attività comint riguarda il commercio di certe materie prime come l’oro o il petrolio, ma si tratta di informazioni che difficilmente servono a sostenere il commercio estero. Quando gli obiettivi dello spionaggio sono i cosiddetti «Stati canaglia», come la Corea del Nord o l’Iraq, sono molti i dati microeconomici che vengono raccolti e analizzati: lo si fa per avere un quadro particolareggiato delle condizioni economiche, per valutare quanto sia stabile la situazione politica interna, e non per avere un qualche vantaggio commerciale. Ne deriva che non ci sono e non ci possono essere nette linee di demarcazione tra lo spionaggio diplomatico e quello militare, politico ed economico.

Duncan Campbell

elèuthera

Duncan Campbell

Il mondo sotto sorveglianza
e lo spionaggio elettronico globale
192 pp. / € 13,50

L’AUTORE

Duncan Campbell, scozzese, è giornalista, scrittore e produttore televisivo. Specializzato sui temi delle libertà civili, da più di vent’anni si occupa dei moderni sistemi di intercettazione e sorveglianza. È stato lui a rendere pubblica, nel 1988, con un articolo sul "New Statesman", l'esistenza del progetto Echelon.

 

 

L’ecologia nell’anarchismo iberico

L’anarchismo iberico ha, almeno nella vulgata militante, il suo principale punto di forza nell’attuazione pratica della critica allo Stato attraverso l’esperienza delle collettività comuniste libertarie del periodo della guerra civile. Questo volume (Eduard Masjuan, La ecología humana en el anarquismo ibérico. Urbanismo “organico” o ecológico, neo malthusianismo y naturismo social, prologo de Joan Martinez Alier, Barcelona, Icaria Antrazyt, 2000, pp. 504) invece si ripropone di indagare le idee degli anarchici in merito ai problemi demografici e a quelli dell’uso del territorio. Anche alla luce dell’attuale dibattito ecologista la ricerca rappresenta un inedito ed interessante supporto di documentazione storica incentrato sugli aspetti del neomalthusianismo e dell’urbanismo organico. Una prima conclusione dello studio è che su ambedue le questioni gli anarchici hanno profuso idee di grande rilevanza rispetto ai successivi sviluppi di mentalità ed alle acquisizioni scientifiche degli ultimi due secoli. Questo nonostante il perdurante silenzio delle culture dominanti o di quelle che hanno fatto man bassa, certo reinterpretandole, di quelle istanze. In seconda battuta si può constatare come, nella pratica, le idee di urbanismo ecologico siano state sonoramente sconfitte, ma che, al contrario, i principi di limitazione delle nascite, di autodeterminazione della donna si siano fatti strada. Manca la certezza che il neomalthusianismo anarchico militante abbia influito praticamente nella transizione demografica. In ogni caso sarebbe assurdo considerare quest’ultimo fenomeno come una sorta di meccanismo avulso dall’ambiente socioculturale circostante. Da questo punto di vista si deve sottolineare la dimensione internazionale del movimento e, insieme, la sua specificità iberica, anzi catalana. Il libro non si occupa soltanto di riferire sulla diffusione delle pratiche di limitazione delle nascite in quell’ambito, bensì analizza idee e mentalità che si formano in loco con il contributo di quelle venute da fuori. Una società ‘aperta’ e pervasa da fermenti e inquietudini, da forti tensioni ideali e da una grande sensibilità sociale verso il nuovo, è capace sia di adottare contraccettivi d’importazione sia d’inventarne di nuovi.
Allo stesso modo nascono in Barcellona il cosiddetto urbanismo organico e le proposte di Città Giardino scollegate dalle metropoli. Ciò per far fronte a ciò che Patrick Geddes ha chiamato conurbazioni e che, cinquant’anni dopo a Los Angeles, William Whyte definirà urban sprawl, qui tradotto in mancha de aceite. Al contrario, quello che si era ‘inventato’ nella capitale catalana era l’urbanismo illimitato con la cuadrícula de Cerdá. Ma già nel 1897 le aggregazioni forzate dei municipi minori del circondario barcellonese avevano trovato una ferma opposizione da parte dei gruppi anarchici. Ebbene l’autore individua una coerente ed omogenea linea di rifiuto a quel progetto, un filone teorico robusto che potrà essere considerato definitivamente sconfitto soltanto nel 1937, ossia in concomitanza delle note tragiche vicende politiche che si consumano nello scenario cittadino. All’accusa infamante di “borghesi” rivolta a suo tempo da Francesc Roca, la replica è che, piuttosto, le connotazioni del progetto libertario, de-centralizzatore ed ecologico, sono rivoluzionarie mentre è la sinistra marxista a confermare la sua vocazione per l’urbanismo illimitato. Nella Mosca degli anni Trenta si verifica la sconfitta strepitosa delle velleitarie proposte di ‘disurbanizzazione’, ridicolizzate da Le Corbusier, affossate da Stalin. Il disprezzo della natura da parte dei ceti dirigenti industriali, seguaci dello sviluppo senza regole e senza ostacoli, le esortazioni a crescere e a moltiplicarsi delle autorità ecclesiastiche fanno del neomalthusianismo come dell’urbanismo organico due autentici movimenti di resistenza contro chi teorizza, e pratica, la selvaggia violazione dei limiti per fini propri. Così l’anarchismo iberico è stato un movimento sociale anticipatore della sensibilità naturalista, di un ecologismo inteso non come lusso per i ricchi ma come necessità per l’umanità. Correnti politiche opposte fra di loro hanno condiviso l’adesione di massima, salvo piccole divergenze, alla troika modernizzatrice del XX secolo: Ford - Taylor - Le Corbusier, ciò disprezzando ogni preoccupazione per la salvaguardia per l’ambiente e le fondate critiche del neomalthusianismo popolare. Queste forze sociali egemoniche con le loro idee di dominio sulla natura e di un urbanismo industriale espansivo hanno messo la mordacchia alla dissidenza. A Barcellona, capitale anarchica, dopo la repressione stalinista del 1937, dopo quarant’anni di franchismo e oltre venti anni di transizione politica le idee libertarie su questi temi così pregnanti (ecologia e trasformazione sociale) sembrano riprendere quota nel milieu scientifico. Nella prospettiva storica qui analizzata, le classi popolari si dimostrano capaci di elaborare proprie strategie in modo originale ed autonomo dai governi e dai poteri economici.

Giorgio Sacchetti

 

La cuoca di Durruti

“Siamo andati all’assalto, cantando, tra i fiori e i venti profumati dell’estate, adesso, stiamo assistendo, impotenti, alla fine… Natale è alle porte, abbiamo deciso di preparare un po’ di frittelle. È l’ultima volta che cuciniamo, e molte di noi le impastano di lacrime. Domani si parte per una missione di sangue e di speranza, stanotte, invece, ci sporcheremo le mani di farina, di zucchero, di cannella e d’amore. 26 gennaio 1939, Barcellona è caduta…”
Nadine è la “cuoca di Durruti”, giovane studentessa di medicina e guerrigliera della CNT-FAI negli anni dell’ultima resistenza campale al franchismo. Il libro (Anonimo, La cuoca di Buenaventura Durruti. La cucina spagnola al tempo della “guerra civile”. Ricette e ricordi, prefazione di Luigi Veronelli, Roma, Derive Approdi 2002, pp. 208, € 16,00) trae origine dal ritrovamento casuale di un manoscritto, nel 1970, all’interno di un lotto di pubblicazioni sulla guerra di Spagna in vendita alla mitica libreria Pinkus di Zurigo. Il corpus eterogeneo del materiale si compone di un brogliaccio di cucina accompagnato da racconti sintetici di episodi, oltre un centinaio di fogli dattiloscritti non ordinati, foto e ritagli di giornali.
Luigi Veronelli, maestro di anarchia applicata, ci fa rivivere le passioni di una donna travolta dalla tragedia e dalla sconfitta del progetto rivoluzionario, e che pure sa inventare ogni volta “nuove resistenze”. Le speranze di Nadine e gli spaccati di vita quotidiana sono, nelle intenzioni del curatore, la risposta esaustiva “ad una domanda che le giovani generazioni da sempre si pongono: come si vive quando il negativo scende nelle strade?”. Il volume, alla stregua di un menu, si divide in entrate, piatti di mezzo e dessert. Dietro al nome accattivante di ogni portata (ne abbiamo contate 86!) c’è la concretezza di chi ha deciso di fondere la propria vita con gli ideali in cui crede. L’uguaglianza e la libertà sono i canoni di una sovversione che è sempre costruttiva. Così la socialità intima di un convivio può essere anche l’incipit per la rinascita e per nuovi sogni. E per un brindisi, nonostante tutto.
“…Infine, preparammo una sangria, se ne incaricò Estrella che, da ragazzina, ha lavorato in una ‘bodega’ di Maiorca. Per un litro di vino rosso, callet, tempranillo o manto negro, sono i migliori, perché sono fruttati, ci spiegò Estrella, ci vogliono un’arancia, un limone, due pesche bianche e mezzo melone. Separate le scorze dagli agrumi, tagliandole a spirale. Mettetele nel vino, aggiungeteci questi tagliati a fettine per il largo, le pesche, senza il nocciolo, tagliate a spicchi, il melone tagliato a fettine sottili. Versate nel vino due o tre cucchiai di zucchero, un bicchierino di brandy, un chiodo di garofano. Aggiungete un bicchiere di acqua e ghiaccio, agitate con cura e servite…”
Interessante anche il corredo fotografico. C’è un primo piano di un pneumatico militare sovietico “più pericoloso dei commissari politici russi”. E in copertina Nadjeta, detta Nadine mentre innesca un ordigno incendiario.

Giorgio Sacchetti