rivista anarchica
anno 33 n. 288
marzo 2003


ricordando Giorgio Gaber

La sua coscienza non ha perso
di Mauro Macario

 

Un libertario “super partes” che ha sempre rifiutato l’etichetta di una militanza dichiarata.

Luigi Tenco... Fabrizio De André... Umberto Bindi... e ora Giorgio Gaber. La mia generazione ha perso, è vero, ma soprattutto continua a perdere, come un’emorragia inarrestabile, i suoi cantori più significativi, quelli che per talento innovativo e doppio salto mor-tale nell’utopia hanno scavalcato il dato anagrafico della loro nascita artistica traghettando nei cambi generazionali successivi, indenni dalle mode, eterni negli afflati tematici.
Essere testimoni di queste scomparse è come scomparire un po’ anche noi e, al contempo, afferrare la fiaccola del sogno proprio quando è la perdita del sogno a timbrare il nostro tempo, per contrastare con una disperata resistenza umanistica la cataratta cerebrale che chiudendosi come una palpebraghigliottina rende cieca di acriticismo demenziale la maggioranza silenziosa. Una fiaccola, quella del sogno, sempre più flebile e tremante come un crisantemo epocale che sigla la fine della poesia – ma la sua ciclica risurrezione è sempre in agguato – in un passaggio di mano di tedofori smembrati lungo la corsa verso l’utopico. Poesia così necessaria alla nostra sopravvivenza universale e minimale malgrado le moltitudini talpesche, in questa era tecnogiurassica, che non ne avvertono neanche la mancanza. Eppure i poeti in musica, veri aedi contemporanei, hanno fertilizzato la nostra crescita sia nel privato che nel sociale, dall’adolescenza alla maturità. Ci hanno allertato sugli eventi politici che intorno a noi, via via, tessevano la loro bavosa tela di ragno, hanno reso la nostra vista “radiografica” sulle trame planetarie a discapito delle popolazioni povere e delle minoranze in via di estinzione, sulle trappole della falsa democrazia e della vera reazione, sulle dittature che insanguinavano e insanguinano la terra depredata. Ci hanno indicato la via della solidarietà, dell’appartenenza alla controcultura e alla controinformazione. Ci hanno parlato dei sentimenti slegati dal concetto cattolico del possesso e dell’eternità valutando l’istante, unico e irripetibile, all’insegna dell’emozione che come un falò può accendersi, bruciare e spegnersi senza perdere la sua valenza selvatica, il suo diritto di esistere al di fuori degli insegnamenti dottrinali travasati nelle famiglie di stampo borghese. Insomma, da tempi lontani, ci sono sempre stati vicini e anche ora, in modo parallelo, sentiamo tutta la loro fraterna presenza.


Solipsismo manicomiale

È la poesia che da epoche remote non parlava più alle folle e che, attraverso il mezzo emozionale della musica, è tornata nelle strade sotto forma di linguaggio unificante, una sorta di esperanto lirico. Per i poeti italiani odierni, i poeti letterari, il ponte di comunicazione è crollato nella pozza stagnante del sublime e dell’astratto. Hanno perso il dialogo con la piazza, hanno subito lo scippo della poesiacronaca, della versificazione che affonda nella Storia, hanno rifiutato il linguaggio diretto, la chiarezza optando per obsoleti ermetismi sempre più criptici. Parlano a se stessi in un solipsismo manicomiale e vittimistico che non rivolge più lo sguardo all’esterno ma a una zona imperscrutabile lontana dal contesto reale e collettivo. Acrobati in bilico su metafore cadenti e decadenti, chiusi in un’aura elitaria e aristocratica. Certo, l’epoca della comunicazione di massa privilegia il video, l’immagine, il concertoevento, la canzonetta, la TV, il DVD, il computer. Ma è proprio con questi sbarramenti che i poeti dovrebbero erigere le loro barricate e tornare al fuoco, alla granata verbale, sensibilizzandosi a quelle tematiche che agitano il tes-suto sociale prima fra tutte, appunto, la perdita del sogno e il suo possibile recupero. Ma il mondo accademico così bolso, immobilista e cattolico, non ha mai metabolizzato questo scacco disciplinare, arroccato com’è nella difesa euclidea della cultura primaria, verticistica, oracolare. Luigi Tenco... Fabrizio De André... Umberto Bindi... e ora Giorgio Gaber. Tenco, il pavesiano Tenco, introverso e fragile, precursore della canzone impegnata e della rivalutazione del patrimonio etnico, del folk popolare, in un’epoca sanremese e democristiana. Tenco isolato, incompreso, censurato, e osteggiato dall’industria discografica d’allora. Fabrizio De André, artista umile, colto, raffinato, rigoroso, che non ha mai ceduto ai massmedia, alle mode musicali, all’inquinamento di sé stesso e che “per via naturale” ci è stato derubato da quel tiranno biologico cui nessun anarchico può opporsi. Bindi, grande musicista che scoprì i concerti segreti dell’anima e della solitudine, emarginato per la sua omosessualità detta anche “diversità” secondo un ipocrita vocabolo borghese e razzista. E Giorgio Gaber. L’uomo senza scudo, senza maschera, senza clan. Come Fabrizio, non solo un cantore, non solo un poeta, ma un vero e proprio “maître à penser”. Uno spirito libero amato da molti e che a tutti dava fastidio. Un veggente della sociologia “in divenire” come il Pasolini profetico che dell’Italia seppe anticipare il destino politico e una visione più ampia in seno alla mondialità degli eventi e delle mutazioni. Solitamente nel nostro paese assistiamo alla nascita di un artista che da subito si presenta con le credenziali di un “genere” preciso al quale sarà fedele per tutta la sua carriera. Gaber, giovanissimo, cominciò nel mondo canzonettistico ufficiale, ma bisogna pur dire che all’alba dei cantautori non esisteva un ambiente di nicchia, uno spazio alternativo e quindi le personalità “diverse” dovevano necessariamente inserirsi nei canali discografici e televisivi. Gaber è l’unico caso di metamorfosi progressiva di un artista che pur operando, ai suoi esordi, in ambiti tradizionali ha saputo evolversi lungo il corso del tempo, in più profonde e originali dimensioni creative. Ripensando al signor G. quando era il ragazzino G. è da ricordare la scelta iniziale del rock, quel rock che era considerato dalla Chiesa, la musica del diavolo. In un’Italia canora, melensa e melodrammatica, la valanga americana travolse il pubblico piccolo borghese. Militò alcuni anni in questo genere musicale, poi lentamente le sue canzoni assunsero dei toni e dei caratteri intimisti, di grande delicatezza, dove per delicatezza s’intende il rispetto dell’adolescenza, dei suoi umori, delle sue scoperte, delle sue emozioni. Stati d’animo biopoetici che neanche in famiglia erano facilmente compresi, anzi!


Non sciacalli, ma cigni

L’universo timido e tenero di Gaber si stabilizzò per un certo tempo all’interno di questo clima, poi rientrò in un ambiente più metropolitano, allo scoperto, privilegiando la periferia, le storie minimali di quartiere, i personaggi dell’osteria e del popolo. Qualcosa in lui mutava, qualcosa che lo avrebbe portato nel 1970 all’invenzione strepitosa del teatro canzone, dove il brano cantato si prolungava nel monologo e viceversa e soprattutto dove una coscienza critica rispetto al proprio tempo, poteva esprimersi liberamente, con spietatezza, senza vincoli commerciali. Una coscienza che via via spiava le evoluzioni e le involuzioni degli italiani, dei suoi governi, della sua morale pubblica, dell’uomo di potere, della religione e della Chiesa come, ad esempio, in “Io se fossi Dio” fino ad augurare ai ministri del culto, nell’ultimo suo album, di “sprofondare con tutti i giubilei”. Poiché gli anarchici non sono sciacalli metropolitani ma cigni dell’altrove, non reclameremo necessariamente Gaber nelle nostre file abbiamo troppo rispetto per lui. Ma non possiamo neanche essere sordi al grido di Dario Fo sulla stampa nazionale: Gaber non era un qualunquista, era un anarchico! E anche Fernanda Pivano non ha esitato a definire Gaber un anarchico pacifista.
L’anarchia è solare e mimetica, diretta e sotterranea, consapevole e inconscia, acquisita e viscerale. Certo, Gaber ha sempre rifiutato l’etichetta di una militanza dichiarata, certo proveniva da una autentica matrice di sinistra, ma da anni, secondo me, era approdato molto vicino alle nostre spiagge, forse era un libertario “super partes”, oltre l’anarchismo stesso. Anche una figura leggendaria come Léo Ferré scrisse: les drapeaux noirs sont encore des drapeaux! (le bandiere nere sono ancora delle bandiere!) eppure la sua totale appartenenza al movimento è inconfutabile a tal punto che ogni anno dedicava un “recital” ai compagni francesi per devolvere loro l’incasso della serata.
E anche Gaber, molti non lo sanno, versò un suo contributo di sostegno alle casse della nostra stampa. Quando lo conobbi nel suo camerino del teatro Politeama genovese, pochi anni fa, gli diedi il mio libro su Ferré Il cantore dell’immaginario pubblicato da Elèuthera e lui mi rispose: “Ferré! Il mio maestro!”. Gaber fu “solo contro tutti” un po’ come certi eroi della frontiera americana ma dalla parte degli indiani e con il viso tatuato. Quegli indiani solitari votati all’estremo sacrificio quando, prima di un massacro ad opera dei soldati bianchi americani, si schieravano con archi e frecce a difendere la via di fuga delle donne, dei vecchi e dei bambini, ben sapendo di avere davanti una potente e mostruosa macchina da guerra. Il signor G. cioè Geronimo Gaber, assediato da ogni parte ha, nel contempo, assediato tutti inchiodandoli alle loro responsabilità etiche tradite, mistificate, trapiantate negli orti avvelenati dall’inseminazione transgenica delle coscienze “miste” dove l’identità ideologica si mischia con la controparte. Il bersaglio più sofferto e odiato è stato senza dubbio quello della maggioranza e delle sue scelte che attraverso l’urna democratica (urna funeraria) prescelgono la via reazionaria e della sudditanza all’autorità delegata, la maggioranza e lo scandalo antropologico della sua facile manipolabilità tramite i mezzi mediatici, clonatori e clonati dell’immobilismo, del sottosviluppo mentale collettivo, la maggioranza abilmente condotta per mano fin dentro l’imbuto sordomuto di una indifferenza virtuale e contagiosa.


Disumanizzazione graduale

Gaber sfogliava in scena, con divertita disperazione, una corona di spine dolenti germogliata dalla sua coscienza annichilita che rifletteva nello specchio in frantumi di un’intera società allo sbando, senza più riferimenti etici, un fallimento globale dalle proporzioni apocalittiche astutamente mimetizzato dietro storie minimaliste, da fumetto grottesco, dove un popolo di nani nascondeva o confessava le proprie oscure manie, le nevrosi più pietose e le più impietose meschinità, i livori dei frustrati, le piccole furbizie delle virtù italiche, la mediocrità della sottocultura nazional-popolare, i guasti nefandi del libero mercato, la catastrofe incombente della globalizzazione, gli ideali evirati dal pragmatismo partitico, la litania mortuaria degli appelli insurrezionali del decennio ’60-’70, l’individuo sempre più chiuso in un egoismo autistico, introflesso nei propri interessi che escludono gli altri, che deridono il concetto stesso di solidarietà, che determinano la nuova, anzi vecchia, intolleranza. È a causa di questa disumanizzazione graduale e incurabile giunta a un punto estremo di degrado che le aspettative di Gaber, aspettative morali, ideologiche o puramente relazionali, subiscono nella sua ottica ipercritica e totalizzante, continue metamorfosi: dalla speranza generazionale di cambiamento a un’increspata rabbia per la resa altrui, dalle invettive ironiche che non risparmiavano nessuno alla malinconia crepuscolare per il senso perduto di tutte le cose, fino a irrigidirsi nella mestizia d’una misantropia forzata e, come diceva Dario Fo, in un pessimismo cosmico. Il traguardo esistenziale di Gaber è un fantastico campo di rovine, dove tra i fumi della sera, dopo una battaglia durata una vita, solo un canto possibile si leva, quello dell’amore. Un semplice richiamo che pare invece così difficile! Ed è questa l’eredità finale che ci lascia, eredità verificabile nella sua opera postuma dal titolo “Io non mi sento italiano” un titolo più che significativo, un titolo che pesa e peserà sulle incoscienze di molti politici. Forse di tutti.
Al suo funerale, organizzato come un set televisivo, la sinistra era pressoché assente. Gli altri no. Gli altri erano lì. Poteva essere una beffarda canzone di Gaber, invece era realtà. Qualcuno voleva, mediaticamente, impossessarsi della salma. Della sua coscienza no. La sua coscienza non ha perso. E anch’io non mi sento italiano.

Mauro Macario

Foto di Reinhold "Deny" Kohl