rivista anarchica
anno 34 n. 298
aprile 2004


kapital

I manigoldi sono manigoldi
di Antonio Cardella

 

Bisogna impedire loro di peggiorare, a danno dei cittadini onesti, le condizioni di iniquità e di sofferenza già insite nel sistema.

Con il mio articolo sul caso Parmalat apparso sul numero precedente di questa rivista, temo di aver dato un segnale sbagliato se l’ing. Jimmy Moglia (vedere box a parte, NdR), da Portland (Oregon), dopo lusinghieri apprezzamenti sulle mie argomentazioni (di cui gli sono grato), scrive testualmente: «Bello il tuo articolo – però la tua conclusione mi ha lasciato perplesso (quando affermi testualmente che) è questa società che non regge ed è fuorviante addossarne le colpe, tutte le colpe, a chi ne accentua i difetti. Vuoi suggerire che quei manigoldi che hanno rubato a dritta e a manca dovrebbero essere magari perdonati perché hanno soltanto accentuato i difetti di una società che ne incoraggia il crimine?»
Ebbene, non è questo che volevo affermare: anche per me i manigoldi sono manigoldi, qualunque sia la struttura economico-sociale nella quale vivono. Pertanto debbono essere perseguiti perché gli sia impedito di peggiorare, a danno dei cittadini onesti, le condizioni di iniquità e di sofferenza già insite nel sistema. Quindi nessuna formula assolutoria per i Tanzi, i Cragnotti e via dicendo. Il problema vero, però, è quello che lo stesso mio cortese interlocutore rileva proseguendo nel suo scritto: «Quello che tu dici è purtroppo vero. E te lo dice uno che vive negli Stati Uniti. ... Affari tipo Parmalat... sono così tanti qui che spesso non vengono nemmeno riportati sui giornali (i quali)... invece di bollare questi delinquenti..., quasi li lodano come coraggiosi cervelli finanziari».
L’esaltazione dell’imprenditore d’assalto che rispetta le regole che gli convengono e ignora le altre è tipica di una società che vive in un contesto in cui le norme che regolano i rapporti economici e sociali non sono uguali per tutti; nel quale l’espediente è la norma, indispensabile per farsi largo e non soccombere.
Quello che ho cercato di dimostrare – nei limiti imposti dallo spazio che una rivista può concedere ad un singolo articolo – è che la dinamica economica del capitalismo reale, in Italia e altrove, provoca naturalmente le deviazioni, le operazioni truffaldine, le collusioni delittuose che, magari in forma esasperata, ci si trova a rilevare nel caso Parmalat e nei tanti altri casi simili verificatisi in Italia e in tutto il resto del mondo industrializzato.

Finanziarizzazione dell’economia

All’origine dei molti guasti del sistema – lo abbiamo rilevato più volte – c’è la finanziarizzazione dell’economia, che progressivamente sta distruggendo l’attività d’impresa, cioè la produzione di beni e servizi necessari, anzi, indispensabili al benessere e, spesso, alla mera sopravvivenza delle comunità.
Per ripetere con altre parole un concetto che ho già espresso quando mi sono occupato, per esempio, della vicenda Enron , la discrasia tra l’entità (e i tempi) di remunerazione del capitale investito nelle attività peculiarmente finanziarie e l’entità (e i tempi) dei capitali destinati alla produzione di beni e servizi è tanto sbilanciata a favore delle attività finanziarie che è ormai difficile trovare sul mercato investitori puri disposti a rischiare nell’attività d’impresa.
Gli espedienti che si sono tentati per superare queste difficoltà sono stati diversi. Si è ricorsi alla deterritorializzazione, si sono cercati, cioè, contesti più vantaggiosi che consentissero all’impresa di abbattere certi costi: quello della mano d’opera, per esempio, o quelli derivanti dai vantaggi fiscali e di impianto offerti da paesi in via di sviluppo, assai ben disposti verso gli investimenti esteri.
Si sono accelerati i processi di concentrazione per tentare di raggiungere quote di mercato sempre più consistenti e per realizzare economie di scala con la centralizzazione dei servizi, la razionalizzazione delle reti distributive e via dicendo.
Ma anche questi accorgimenti hanno i loro limiti. Produrre in un paese straniero per ottenere i vantaggi sperati significa il più delle volte dover scegliere tra i contesti economici meno progrediti, che non hanno infrastrutture adeguate, sono spesso politicamente instabili e non danno sufficienti garanzie per iniziative imprenditoriali di un certo respiro.
Difficoltà di diversa natura insorgono per le concentrazioni. Intanto, operare in regime di multinazionalità significa modificare strutturalmente l’organico dirigenziale e amministrativo, con la necessità di presidiare i contesti nazionali nei quali si vuole operare con personale specializzato e management di alto profilo che va adeguatamente retribuito. Poi, i problemi connessi alla diversità delle legislazioni nazionali, che impongono la presenza a tempo pieno di uffici legali esperti in diritto internazionale che coordinino analoghi uffici periferici.
Infine, la necessità – per esempio per le industrie alimentari – di dover diversificare i prodotti in modo che siano compatibili con le diverse consuetudini locali.
Un discorso a parte va fatto per l’impatto con la politica. Sia nel caso della deterritorializzazione che in quello della concentrazione il costo da pagare per tutelare i propri investimenti è di norma altissimo. Tutti i governi che hanno reso instabili gli equilibri politici del pianeta sono stati sovvenzionati con contratti commerciali che con le leggi del mercato avevano assai poco a che vedere. L’esempio casalingo che possiamo citare per la comprensione del problema è l’affare Telekom/Milosevic oggi tanto strumentalmente contestato da chi fa finta di non conoscere la realtà. Contratti di tal natura, dove gli opportunismi politici sono gli unici a condizionarne i contenuti, se ne stipulano a decine ogni giorno e in ogni angolo del mondo.
Guardate poi a quella che è la realtà americana del tutto esplicita. Pensate alle cifre astronomiche che le grandi concentrazioni economiche debbono sborsare per essere tutelate da una rappresentanza politica affidabile, che, in barba a qualunque legge di mercato, si ricordi, al momento opportuno, di assegnare gli appalti più lucrosi a chi si è mostrato più generoso nel sovvenzionare le campagne elettorali. In proporzione questo avviene sotto ogni latitudine e altera strutturalmente il sistema, bruciando risorse immense e rendendo sempre più inique le condizioni di vita della gente comune.

Sottrazione di risorse

Se gli stati fossero aziende, i tribunali dovrebbero costruire hangar enormi per allocarvi i libri contabili che ne certificano il fallimento. Se non falliscono è perché, quando sono alle strette, ricorrono al consueto espediente di sottrarre risorse ai propri amministrati, di norma alle fasce più deboli della popolazione, sia in termini di tasse che di contrazione dei servizi sociali. Così, da noi, si moltiplicano i tributi, si innalzano le tariffe amministrate, si penalizzano sanità ed istruzione, si riducono le risorse per gli altri servizi necessari alla comunità (trasporti, asili nido, presidi sanitari e via dicendo). In compenso si tutelano i redditi più alti con tassazioni non progressive, si incentivano consumi non necessari e qualche volta addirittura paralizzanti (la famosa rottamazione, per esempio, che induce a buttare alle ortiche veicoli ancora efficienti, congestionare ulteriormente un traffico urbano già paralizzato e tutto per salvare dal fallimento industrie automobilistiche decotte, che certamente non contribuiscono a migliorare la condizione complessiva del paese). Ci sono poi le missioni di guerra da finanziare e gli aiuti economici alle nazioni povere che condividono con noi il campo dello schieramento dei buoni da opporre all’omologo dei nemici (pro tempore), e così via.
Per tornare all’obiezione dell’ing. Moglia: come è evidente, con buona o cattiva coscienza peschiamo tutti in acque inquinate e la quantità di fango che imbarchiamo è direttamente proporzionale alla quantità del pescato.
Ci saranno pure i delinquenti (e certamente ci sono), ma essi infieriscono su piaghe già aperte. Sono quelle che dobbiamo soprattutto badare a curare.

Antonio Cardella

Ps – Ringrazio Monica Giorgi: anche da lei parole di apprezzamento che ho molto gradito. (Vedi CP 17120 del numero scorso, NdR)

Disprezzo per i parassiti

Caro Antonio,
Pensa che sono arrivato alla rivista e al tuo articolo sulla Parmalat per caso. Stavo ricercando notizie storiche sui Dolciniani e «un link tira l’altro».
Bello il tuo articolo – però la tua conclusione mi ha lasciato un po’ perplesso, «... Ma è questa società che non regge, ed è fuorviante addossarne le colpe, tutte le colpe a chi ne accentua i difetti.»
Vuoi suggerire che quei manigoldi che hanno rubato a dritta e a manca dovrebbero essere magari «perdonati» perché hanno ‘soltanto’ accentuato i difetti di una società che ne incoraggia il crimine?
Quello che dici è purtroppo vero. E te lo dice uno che vive negli Stati Uniti da molto tempo. Ci sono anche qui molti che si oppongono a un sistema che favorisce sempre di più i vari figli di puttana a cui il prossimo frega meno di niente, (vedi per esempio Ralph Nader che è il più articolato accusatore del sistema che giustamente deploriamo).
Affari tipo Parmalat, anche se (quantitativamente) in misura ridotta, sono così tanti qui che spesso non vengono nemmeno riportati sui giornali. E quando vengono riportati, i mezzi di comunicazione, invece di bollare questi delinquenti come delinquenti, quasi il lodano come coraggiosi cervelli finanziari. Che è come dire che un bandito che assalta la banca è un esempio di intelligenza coraggiosa (che ci riesca o no).
Io non ho soluzioni specifiche per cambiare il sistema. Un primo passo – direi – sarebbe incoraggiare il disprezzo, non l’ammirazione o (come nel caso specifico, quasi un perdono), per questi eminenti parassiti che producono niente altro che se stessi.
Il disprezzo non è in sé costruttivo ma in questo caso per costruire bisogna cominciare a distruggere – il disprezzo del delinquente può essere un primo passo per cambiare la forma mentis della società. Sottolineo «disprezzo» e non «odio».
Cordiali saluti,

Ing. Jimmy Moglia
(Portland – Oregon – USA)