rivista anarchica
anno 34 n. 301
estate 2004


pedagogia

L’utopia di Reggio
di Filippo Trasatti

 

Se è possibile creare una scuola amabile...

 

Niente ti prepara davvero a quel che vedi, girando per gli spazi della scuola La Villetta della Rete dei nidi e delle scuole d’infanzia di Reggio Emilia. Sai che sono ormai famose in tutto il mondo, hai letto magari articoli, visto una mostra, ne hai sentito parlare con ammirazione o invidia. Ma quando Paola, la pedagogista che mi fa da guida, mi porta a girare per gli spazi dove i bambini stanno lavorando, quando ti soffermi a vedere che cosa si può progettare e immaginare dai tre ai cinque anni (questa l’età delle scuole d’infanzia), allora quasi ti vien da piangere a pensare quel che c’è fuori.
La maestra che sento urlare fin dal mattino dalla mia finestra che dà sul cortile della scuola elementare non la riconoscerebbe come scuola. Intanto è una villa con giardino, occupata nel 1969 fa da un gruppo di donne per insediarvi una scuola autogestita, e che poco dopo diventa scuola comunale.
Entri e c’è una cucina con due cuoche e dei bambini che trotterellano intorno per aiutarle ad apparecchiare. L’atrio, con un’ampia vetrata che dà sul giardino, con un bel pergolato di glicine, diventa la sala comune in cui si mangia. E già da questo primo approccio ti rendi conto di entrare in un mondo progettato per i bambini.
Lo diceva Malaguzzi, il papà delle scuole di Reggio, in una bellissima intervista nel libro I Cento linguaggi dei bambini (1): in ogni scuola c'è “un atrio di ingresso che informa, documenta, anticipa le forme organizzative della scuola”. Da lì si raggiungono i diversi spazi della scuola collocati su più piani. Qui vivono circa un’ottantina di bambini, divisi in tre classi per età (3, 4, 5 anni). Ciascuna classe ha due insegnanti, e in più c’è la figura dell’atelierista che qui ha un ruolo fondamentale: “l'atelier come luogo di lavoro, manipolazione, sperimentazione e fusione dei linguaggi grafici, visivi, pittorici, disgiunti e connessi con quelli verbali e simbolici” (2).

Piccoli geni?

Già di per sé le bambine e i bambini di quest’età sono così sorprendenti che staresti ad osservali per ore. Ma quando li senti discutere di come costruire un tunnel per le talpe, come arredarlo in modo che sia confortevole, e poi li vedi armeggiare insieme all’atelierista con un tubo di acetato lungo due metri, mettendoci dentro una lunga striscia piena di cose disegnate che è la strada della talpa, con tanto di soste riposo e piccoli stagni per lavarsi; quando li vedi a tre anni formulare teorie su come costruire un ponticello sul laghetto che sta in cortile che permetta ai gatti di passarci sopra senza sfondarlo, e molto altro ancora ti chiedi: ma da dove vengono questi bambini? Hanno forse qualcosa di speciale, oppure siamo noi che siamo ormai abituati a considerare i bambini secondo l’etimologia (bambaino in greco rimbambire, balbettare; se ne conserva traccia nel nostro “bamba”), piccoli idioti, carini, magari sì, ma in fondo decisamente selvaggi e stupidi? Magari dovrebbe farsi un giro qui il prof. Bertagna, coordinatore della commissione dei nuovi programmi morattiani che per difendere la scelta di non parlare dell’evoluzionismo sostiene che “per i primi otto anni è necessario riflettere sulla esperienza, perché la scienza non è immaginazione ma verifica delle teorie. E solo dopo i primi otto anni è possibile affrontare in modo adeguato le teorie sull'evoluzione della specie umana, solo allora i giovani sono in grado di apprendere con una complessità e comparazione diverse”.
Il fatto è che qui ai bambini si dà ascolto per davvero, come se stessero facendo la cosa più importante del mondo: apprendere.
Ti rendi conto, girando per gli spazi della scuola, di come le insegnanti abbiano un'attenzione davvero speciale per i bambini, non finta e caramellosa, ma come se stessero effettivamente imparando qualcosa anche loro. Sarà un'impressione, ma ho parlato con persone che lavorano lì da più di trent'anni e mi sembrano entusiaste come il primo giorno. Ora, per chi frequenta le scuole normali, dove la demotivazione è una nebbia fitta che si taglia con il coltello, già questo è un miracolo. E siccome non ci credo, chiedevo: ma come fate? Voglio dire, certo, ci saranno i giorni sì, e quelli no; avremo tutti la luna girata dei giorni, ci saranno bambini più tristi, faranno pure loro i capricci, ci saranno le difficoltà del vivere quotidiano. Sì certo, ma tutto questo poi diventa secondario quando davvero ti occupi dei bambini che ti coinvolgono in modo quasi totale nei loro progetti e nei loro mondi fantastici.
Entro nella classe dei tre anni, al piano terra (la classe dei 4 è al primo piano, la classe dei 5 al secondo piano: si cresce e si sale), uno spazio molto ampio suddiviso in aree dove gruppi di bambini stanno lavorando: c'è un miniatelier dove si lavora la creta, un'area di costruzioni, tavoli su cui i bambini stanno disegnando, spazi per isolarsi.
L'attività viene decisa dai bambini nelle riunioni che si tengono al mattino: molti scelgono di continuare i progetti che, immagino, nel corso del tempo saranno di maggiore durata.
Le due insegnanti volteggiano tra un gruppo e l'altro con il loro blocco di appunti e osservano i bambini al lavoro, interagiscono con loro. Ma quando le senti parlare tra loro di quello che han fatto i bambini, senti davvero la meraviglia, che è esattamente ciò che ti permette di continuare a fare il tuo lavoro con piacere, sopportando le inevitabili difficoltà. La meraviglia nasce però quando non è tutto programmato, quando lavori, come dice Malaguzzi, con un terzo di certezza e due terzi di incertezza. Ma come si fa a sostenere tanta incertezza?

Pedagogia e dintorni

Quando Loris Malaguzzi, il papà dei Reggio Children, ha cominciato a mettere in piedi questo progetto ci credevano in pochi e ancora adesso forse è guardato da molti come una sorta di museo, bello sì ma separato dal mondo, mentre è una realtà vivacissima che propone un altro modo di vivere e di pensare, scomodo per i più, ma non meno reale. Giovanni che fa l'atelierista multimediale ed è lì da trent'anni mi racconta di come sia essenziale il contesto di Reggio, la realtà cooperativa che sta intorno, certo anche il contesto politico e sociale che fa di Reggio qualcosa di diverso da Milano. E questa è una delle ragioni per cui quel modello non si può esportare.
Ma Malaguzzi ha avuto il merito indubbio di intrecciare percorsi, mettere in comunicazione persone, pratiche, culture, teorie per dar vita e senso a un progetto estremamente complesso anche dal punto di vista pedagogico, e che è cresciuto nel corso degli anni grazie alla collaborazione di tutti gli insegnanti, le famiglie, gli educatori, ma che ha anche avuto sempre un'attenzione alle nuove teorie psicopedagogiche, senza farsi intimidire dal principio d'autorità.
“La pedagogia, dice Malaguzzi, quando gode di libertà sufficienti e ancora di buona sorte può correre tra adozioni e restauri, sopportare errori e ritardi e azzardare intuizioni e scelte di qualche originalità. Importante è da parte sua non essere prigioniera di grandi o troppe certezze, così da essere sempre pronta a rendersi conto della relatività dei suoi poteri, delle estreme difficoltà di tradurre in pratica le formulazioni ideali” (3).
Per Reggio sono transitati, tra l'altro, Bruno Ciari, Gianni Rodari, Lamberto Borghi, Francesco De Bartolomeis, insomma con il meglio della pedagogia italiana e ciascuno ha forse in qualche modo lasciato una traccia nel progetto generale.

Attività costruttiviste

Se si dovesse definire in termini generali l'approccio delle scuole di Reggio, si potrebbe usare il termine “costruttivismo”, che è ormai un'etichetta usata per cose ormai molto diverse, ma nella quale si comprendono teorie, euristiche, epistemologie che convergono tutte almeno su un principio: conoscere la realtà significa costruirla attivamente e non rappresentarla specularmente (4).
Nella versione che troviamo anche a Reggio, possiamo vedere in atto questi principi:
• la conoscenza è il prodotto di una costruzione attiva del soggetto;
• ha carattere situato, ancorato cioè nel contesto concreto;
• si svolge attraverso particolari forme di collaborazione e negoziazione sociale (5).

Tutto questo porta a rifiutare una scuola trasmissiva, a mettere davvero al centro dell'educazione i soggetti dell'apprendimento, a considerare essenziale all'apprendimento la cooperazione. È quell'insieme di valori che Malaguzzi chiamava “pedagogia della relazione”: “le connotazioni interattive-costruttiviste, l'intensità della relazione tra gli attori, lo spirito del cooperare, lo sforzo della ricerca individuale e collettiva, l'attenzione per i contesti, i consolidamenti affettivi, l'apprendimento dei processi bi-direzionali delle comunicazioni…” (6).
La cooperazione si estende all'esterno della scuola, attraverso il coinvolgimento delle famiglie che partecipano alla gestione della scuola, non nella forma di altre scuole libertarie, ma in modo abbastanza massiccio. Ci sono tutte le varie istituzioni, Consiglio di gestione, Consulta, Consigli di sezione, riunioni a vario livello, che secondo i dati raggiungono una partecipazione superiore al 60%. Ciò che nel mondo appare un’inutile scocciatura, al più un rito inutile, qui diventa parte integrante del progetto educativo. I genitori hanno aiutato nel passato a costruire una parte della scuola; ora collaborano ai progetti dei bambini. Ci sarà l’idraulico che li aiuta a costruire il luna park per gli uccellini e un microsistema di fontane; l’ingegnere che fornisce consulenza di robotica, e così via.

La creatività non è un lusso

Ma forse la cosa davvero più straordinaria che si vede a Reggio è la creatività dei bambini all'opera.
Reggio insegna che la creatività non è un lusso per pochi, ma una pratica quotidiana per cambiare il mondo intorno a sé. Nelle loro classi, negli atelier i bambini sviluppano progetti che mettono insieme idee, linguaggi diversi, creta con fil di ferro, informatica musicale, teatrini delle ombre, fotografia e mille altre cose ancora. Due in particolare mi hanno colpito. I bambini, come sempre fanno, sono partiti da una domanda: ci sono strade nel cielo come in terra? Da lì hanno cominciato a sviluppare ipotesi, a creare modelli, a fare domande e ricerche, a vedere video, a chiedere ai bambini di altre scuole. Da lì sono arrivati all'astronomia (ma in modo del tutto empirico), alla cosmologia e, al punto in cui erano arrivati, stavano costruendo dei micromondi di molti materiali sospesi con fili di nylon. Mi ricordavano in piccolo le scatole di Cornell cui parla William Gibson in Giù nel cyberspazio. In tanti altri lavori si trova forte la presenza di qualcosa che ci ricorda l'arte contemporanea, non perché gli insegnanti parlino ai bambini degli ultimi artisti d'avanguardia, ma forse perché i bambini hanno davvero dei potenziali di creatività artistica quasi del tutto inesplorati.
L'estetica qui è hard, non ci sono oleografie, quadretti stucchevoli, corretti dalle maestrine dal pennello rosso, ci sono progetti e opere dei bambini, con la loro durezza e ingenuità, la loro complessità e la loro bellezza.
L'altro progetto, ancor più complesso, riguardava l'adozione da parte delle classi di luoghi della città. Per farla breve i bambini di una classe avevano adottato una certa strada in cui c'era un negozio di calzature. Da lì è partito il progetto delle scarpe fantastiche che hanno realizzato in creta, ma hanno anche realizzato un CD con i rumori della via, ecc.
Mi fermo qui. Come forse si intuisce, le scuole di Reggio mi hanno affascinato. Non saranno forse come titolava Newsweek nel 1992 le scuole più belle del mondo, ma certo sono qualcosa che si avvicina molto a una comunità libertaria creativa, dove ogni termine ha un suo peso specifico e necessario: una comunità di liberi, che in relazione tra loro sviluppano i mezzi più creativi per migliorare la convivenza, per costruire insieme.
Certo, direte, ci sei stato poche ore, accompagnato e i problemi non sono certo esposti in vetrina. Ma sapere che una scuola simile dura da più di trent'anni e si sviluppa ancora, rende felici.

Filippo Trasatti

1. AA.VV, I Cento linguaggi dei bambini, Ed. Junior, Bergamo 1995.
2. Idem, p. 75.
3. Idem, p.62.
4. Detto questo ci sono correnti tra loro assai divergenti: il costruttivismo radicale di von Glasersfeld, il costruzionismo sociale di Clifford Geerz e ancora altri teorici come Moscovici, Schutz, Garfinkel, Berger, Maturana e Varela e tanti altri.
5. Si vedano in proposito i libri di A. Calvani, Elementi di didattica, Carocci, Roma 2003 e di Salvatore Lazzara, Conoscenza condivisa, Manifesto libri, Roma 2003.
6. I Cento linguaggi, cit. p. 69.