rivista anarchica
anno 34 n. 301
estate 2004


canzone d’autore

a cura di Alessio Lega

 

La provocazione permanente di Serge Gainsbourg

Seconda parte – Dottor Gainsbourg/mister Gainsbarre (1979-1991)


Un sottile equilibrio ha tenuto inchiodato Gainsbourg per i primi vent’anni della sua carriera a un ruolo di notorietà laterale: conosciuto, ma non celebre; ammirato, ma non idolatrato; apprezzato e vicino allo star system, per cui scriveva canzoni di enorme successo, dimostrandone al contempo il vuoto assoluto, non era però entrato a far parte di questo star system in prima persona.
Per se stesso, come abbiamo visto, si riservava il ruolo di ricercatore di forme nuove, di esploratore dei rapporti del linguaggio col vuoto concentrico del continuo fluire delle mode. Per una serie di eventi, dal 1978 al 1991, anno della sua morte, Gainsbourg assurge al ruolo di star, forse l’unico idolo fra i grandi autori francesi, certamente l’unico della sua generazione, l’unico di cui tutt’oggi si trovino i poster offerti dai venditori ambulanti, sui marciapiedi e nelle stazioni dei metro, accanto a quelli delle star autolesioniste della storia del rock (Jim Morrison, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, ecc.).
Quasi dovesse tener fede, per una sorta di coerenza con se stesso, con la sua dimostrazione per assurdo del nulla con cui identifica la società dell’immagine o lo spettacolo della società, Gainsbourg si assume questo ruolo sulla sua persona fino in fondo creandosi un alter ego: Gainsbarre.
Gainsbarre è la parodia di come Gainsbourg viene rappresentato dai mezzi di comunicazione, una laida macchietta dell’erotomane sempre ubriaco, incontrollabile e pericolosamente goffo, del pigmalione depravato che crea ninfette inconsistenti (l’ultima delle quali sarà Vanessa Paradis, per cui scriverà un bellissimo album). Gainsbarre sarà in quegli anni eternamente presente in televisione, intervistato tutti i giorni su tutte le questioni possibili, e, alla fine, imprigionerà Gainsbourg in un abisso di degradazione evidente, fino alla morte.

E già, sono io, Gainsbarre
Mi si trova per caso
Nei night-club e gli american-
Bar, un po’ bonnard.
Ecce Homo
Lo si riconosce, Gainsbarre
Per i Jeans, per la bar =
Ba di tre notti, per il fumo
E per la sua disperazione.
Ecce Homo
Bizzarro questo Gainsbarre
È cool, si direbbe
Che di tutto non gliene
freghi niente, insomma…può darsi
Ecce Homo
E sì, inchiodato Gainsbarre
Al monte Golgota
È un reggae-ilare
Il cuore trafitto da parte a parte
Ecce Homo.
(Ecce Homo, 1981).

L’enorme successo personale per Gainsbourg interprete di se stesso, arriva appunto con quella che sarà la più pericolosa provocazione della sua carriera: nel 1978, appena scoperta una nuova forma musicale, vola a Kingston, e, primo fra tutti i musicisti europei, incide un album totalmente reggae. Il brano cui è affidata la promozione del disco è un incredibile versione dell’inno nazionale, La Marseillese, le cui strofe sono eseguite per intero, ma il cui ritornello ripete solo, beffardamente, “Aux armes, et coetera…” (“Armatevi, eccetera…”) tutto ovviamente con tanto di coriste giamaicane e col gruppo di Peter Tosh alle spalle. Il risultato è irresistibile. Nella patriottica Francia la cosa è accolta come un affronto intollerabile, le associazioni di paracadutisti ed ex combattenti, gli antichi torturatori fascisti delle guerre d’Indocina e d’Algeria, insorgono, e si presentano ai concerti (che Gainsbourg tornava a dare quell’anno, dopo diciotto di assenza dalle scene), tanto che quello di Strasburgo deve essere annullato perché il palazzo in cui si doveva tenere viene minato col plastico. Gainsbourg, pallidissimo, appare solo sul palco e con un filo di voce ringhia “io sono un rivoluzionario, che cantando su una musica rivoluzionaria, ha ridato alla marsigliese il suo senso originale!” e la intona con un incredibile trasporto (e con un coraggio non indifferente) davanti ai parà in mimetica e armati.
Due anni dopo, nel suo secondo disco reggae, con più sarcasmo, dedicherà a quell’episodio la terribile Che nostalgia, camerata!

Che cosa ti ha preso, cazzo, per spaccare la capanna
Di questo baluba poi sguainare il coltello
Aprire la pancia al primitivo
Che sbaraccava dalla sua savana
Che nostalgia, camerata!
Che cosa t’ha fatto afferrare quella ragazza diafana
Fuori dalle grazie e sotto le sue unghie
Hai rimpianti? Rispondi: “negativo”
O meglio, ridacchi…
Che nostalgia, camerata!
(Che nostalgia camerata, 1981).

Quando dico che Gainsbourg divenne famoso nel ’78 ovviamente tengo conto dell’enorme successo commerciale di dieci anni prima con Je t’aime, moi non plus, ma in quell’occasione Serge si eclissò dietro il personaggio del “signor Jane Birkin”, che, anche in qualità d’attrice, impersonava la star; i due furono una celeberrima coppia mediatica, ma lei riuscì a fare da paravento, proteggendo così la fragilità reale del marito. Con la dissoluzione di questa coppia (ma Serge continuò fino all’ultimo a scrivere per lei), lui si trovò ad affrontare da solo il rapporto suicida con i mass media, dando come abbiamo visto vita a Gainsbarre.

Depressione al disotto del giardino
La tua espressione di tristezza
Mi hai lasciato la mano
Come se niente fosse
Stato, che l’estate fosse finita
I fiori hanno perso il loro profumo
Che porta via uno a uno
Il tempo assassino.
(Depression au dessous du jardin, 1980).

Gainsbarre fece il diavolo a quattro… Per protestare contro la pressione fiscale bruciò in diretta televisiva un biglietto da 500 franchi (e bruciare titoli di Stato è un reato). Invitato in una trasmissione con Withney Huston che, secondo la migliore tradizione americana, si presentò discinta e provocante nei modi, ma anche assolutamente puritana nelle espressioni, lui, completamente ubriaco, la scioccò (e gelò il povero conduttore ignaro) rivolgendole un molto prosaico “Baby, i want fuck you” (ragazza, voglio fotterti).
Alla fine tutte queste gaffe, divertenti all’apparenza, viste di seguito rivelano la profonda disperazione, il clichè ripetuto alla nausea di un uomo che spinge sempre un po’ più in là il suo disagio di esistere e che continua a osare, quasi volesse capire dove lo lasceranno arrivare; la stessa ossessione erotica che lo anima e che contrasta con un fisico decisamente ingrato, se lo si svuota del suo carisma, appare l’esplicita aggressione di un essere che vive molto male nella sua pelle, e che, non avendo niente, rilancia per prendersi tutto.
Ma quest’esistenza rappresenterebbe ancora solo una riflessione sul tema del divismo, ardita ma non unica, se non fosse che, con Gainsbarre occupato a fare il personaggio pubblico, Gainsbourg, dall’interno, continua a creare opere, rivoluzionarie per linguaggio e temi, e a distillare illuminazioni di poesia purissima.

I dessous chics
È un niente a svelare il tutto
È dirsi che quando si arriva al fondo
È tabù
I dessous chics
È una giarrettiera che sbatte
Nella testa come un tip-tap
I dessous chics
È il pudore dei sentimenti
Truccato oltraggiosamente
Rosso sangue
I dessous chics
È conservarsi sul proprio fondo
Fragili come una calza di seta
I dessous chics
Sono trine e merletti
Di amarezza su un paravento
Desolante
I dessous chics
Sarebbe come il tacco a punta
Che attraversasse il cuore delle ragazze.
(Les dessous chics, 1983).

I suoi ultimi dischi, ancora e sempre all’avanguardia, sono suonati dai musicisti di Micheal Jackson e in filigrana, fra le solite tonnellate di perfidia e cinismo, lasciano intravedere la tenerezza dell’uomo, si prenda ad esempio I’m the boy, sull’omosessualità: “Il ragazzo che ha il dono dell’invisibilità./Ombra fra le ombre dei notturni torridi/mi perdo nel numero /per giungere al sordido./Maschera fra le maschere/di tragedia o amarezza/cuoio nero e caschi/che scintillano alla luna./Anima fra le anime/febbrile nell’angoscia/quando brilla la lama/o scintilla lo sguardo./Uomo fra gli uomini/nel nero o in avorio/ricercando i sintomi/di un orgasmo illusorio./Puttana fra le puttane/m’infogno nel fango/dove s’abbracciano i bruti/e si insanguinano gli angeli”. In questa canzone, paradigmatica dei due lavori pubblicati rispettivamente nell’85 e nell’88, un montaggio serrato di immagini, che cortocircuita stereotipi e accostamenti arditi, fa contrasto con una perfezione formale che tiene in equilibrio la lirica, facendola assomigliare a una statua della classicità ellenica, come il Lacoonte che viene sostenuto dagli stessi serpenti che lo stanno strangolando; in questa, come nelle altre canzoni di questo periodo (e si pensi già solo alla controversa Incesto al limone, cantata in duo con la figlia Charlotte), tutto resta sospeso in una rappresentazione che non conosce relazioni morali fra le cose, ma solo una grande estetica dell’esistente in cui con-vivono (o forse muoiono assieme) sordido e sublime.
Ma sono gli ultimi fuochi. Quasi insopportabilmente stravolto dagli eccessi di Gainsbarre, Gainsbourg fu folgorato dall’ennesima crisi cardiaca il 2 marzo del 1991.

Alessio Lega
alessio.lega@fastwebnet.it