rivista anarchica
anno 34 n. 301
estate 2004


 

Lettura di
Michail Aleksandrovic
Bakunin

 

Il pensiero di Bakunin è sembrato, ai critici e agli studiosi che si sono interessati ad esso, inseparabile dalla sua attività pratica rivoluzionaria.
Effettivamente pensiero ed azione sono, in Bakunin, la stessa cosa.
Abbiamo voluto però, di proposito, operare artificialmente una separazione fra essi allo scopo di mettere in risalto il pensiero, che è stato finora considerato in modo subalterno all’azione.
Quest’ultima è apparsa assai più “appariscente” tanto da offuscarlo rendendo più ardua e problematica la sua “lettura”. Pochi pensatori infatti sono stati così mal compresi e sottovalutati come Bakunin.
Lasciamo da parte ovviamente gli anarchici ed i libertari in genere, sebbene anche questi ultimi abbiano trascurato a volte aspetti e contenuti fondamentali della sua dottrina; in genere però possiamo osservare che fino a pochi anni fa nessuno aveva iniziato uno studio sistematico del suo pensiero.
È vero che esso riveste nell’aspetto formale un carattere non sistematico, a volte confuso (mai contraddittorio), e che solo una lettura attenta di tutta la sua opera può far emergere uno sviluppo logico e una sostanziale unità.
Lo stesso Nettlau, il più grande biografo di Bakunin, scrive “…Bakunin ha pubblicato, in varie fasi della sua vita, delle opere spesso di un carattere transitorio ma di cui l’insieme, studiato secondo l’ordine cronologico, permette una esposizione, particolarmente caratteristica, dello svolgimento delle idee libertarie, idee che svolgendosi naturalmente, hanno costruito il pensiero anarchico… Bakunin non è mai arrivato, non solamente a pubblicare ma nemmeno ad esporre in maniera definitiva, l’insieme delle sue idee; egli non ha costruito il suo sistema, se vogliamo servirci di questo termine che si adatta a delle interpretazioni, o a delle non-interpretazioni, così diverse. A che cosa dobbiamo attribuire questo carattere incompleto delle opere bakuniniane? Bakunin quando non si trattava di questioni di attualità, non conosceva l’arte della composizione. Se si leggono i suoi manoscritti, si vede come da una lettera egli arriva ad una bozza, da una bozza ad un volume. Egli fa le sue premesse, suddivide il soggetto e arriva raramente a trattare più di uno o due punti che si era imposto di svolgere…”.
Questa mancanza di compiutezza formale ha fatto scrivere a moltissimi critici di diversa estrazione ideologica, che il pensiero di Bakunin è un pensiero impressionistico, episodico, sostanzialmente poco originale. Egli sarebbe stato in ultima analisi un grande assimilatore con poca originalità. I critici francesi lo vogliono pedissequamente copiatore di Proudhon, quelli italiani di Pisacane, quelli russi di Herzen, e tutto questo, accompagnato da una lettura superficiale, ha fatto del pensiero bakuniniano uno scempio difficilmente eguagliabile.
Dobbiamo tener presente inoltre che tutte le calunnie, infamie, falsità sparse sul suo conto da banditi di varia estrazione, hanno contribuito in modo determinante ad “influenzare” negativamente la lettura delle sue opere. Ma si sa che questi tentativi goffi e nani, nella loro luce sinistra, non hanno fatto altro che mettere maggiormente in risalto, agli occhi di tutti i sinceri rivoluzionari, la statura intellettuale, morale e politica, già straordinariamente gigantesca, di Bakunin.
Per ovvie ragioni di spazio abbiamo preferito mettere in questa piccola antologia dei brani raggruppati secondo temi comuni anche se essi appartengono a opere diverse. Questo perché ci permette di cogliere il carattere di stupefacente attualità che è presente in tali brani. Liberati in questo modo dalle motivazioni storico-contingenti che li videro sorgere, essi ci possono indicare oggi più che mai la traccia teorica per sciogliere alcuni nodi riguardanti la comprensione della natura e della funzione di ogni società di sfruttamento.
Vogliamo così abbozzare una sintesi del pensiero bakuniniano senza avere la pretesa di ricomporre interamente la sua unità, anche perché pensiamo che se essa è mancata, come giustamente ha rilevato il Nettlau, ciò nulla toglie al suo valore teorico.
Questa mancanza di sistematicità rappresenta, a nostro avviso, proprio tutti i limiti ma anche tutta la grandezza del suo pensiero: grazie ad essa Bakunin infatti ha elaborato alcune delle sue intuizioni più folgoranti e geniali.
I brani che abbiamo scelto si riferiscono all’ultimo periodo della sua evoluzione teorica, questo perché ci permette di cogliere più completamente i caratteri di essa.
Per inciso possiamo dire che questa evoluzione si divide grosso modo in due periodi. Il primo comprende gli anni della sua formazione hegeliana in Germania, la conoscenza del socialismo francese e di Proudhon, e si conclude, dopo la prigionia, nel 1861; il secondo, che si può dividere in due parti, comprende gli anni dal 1861 alla morte. La prima parte va dal 1861 al 1867, periodo in cui Bakunin passa rapidamente dalle posizioni democratiche rivoluzionarie, che però avevano sempre avuto venature libertarie, alle posizioni socialiste anarchiche; la seconda parte va da queste posizioni alla formulazione della sua dottrina specificatamente anarchica.
Abbiamo detto che i brani scelti appartengono all’ultimo periodo dell’evoluzione di Bakunin. Ora però vogliamo aggiungere che essi si riferiscono ai temi propriamente specifici della sua dottrina. Cercheremo quindi di sintetizzarli brevemente.
Innanzi tutto lo Stato, che per Bakunin rappresenta il nemico numero uno degli sfruttati. Lo Stato occupa nel pensiero bakuniniano il posto centrale, nel senso che qualsiasi discorso strategico per la liberazione degli oppressi, passa inevitabilmente per la sua immediata distruzione.
Bakunin comprese e spiegò che questa macchina di sfruttamento ha una propria autonomia e che la sua costituzione, sotto qualsiasi nuova forma, ricomporrà inevitabilmente la disuguaglianza sociale. Lo Stato è per natura, dice Bakunin, una struttura gerarchica che sviluppa necessariamente l’esercizio del governo da parte di una minoranza sulla massa del popolo. Ma “sfruttare e governare”, dice Bakunin in Dio e lo Stato, sono la stessa cosa.
Inoltre l’esistenza di esso genera una ideologia che lo giustifica sul piano storico. Per lo Stato borghese, essa è stata la religione cristiana e la sua chiesa, per lo “Stato popolare” sarà una nuova “teologia politica” a sorreggere la costituzione dei nuovi privilegi. Cambierà l’oggetto di tale religione, non la sua funzione.
Sviluppando tale prospettiva Bakunin arriva così a formulare alcune intuizioni sulla funzione dello Stato in rapporto alla “lotta di classe”. Se infatti la “lotta di classe” non si estende a tutte le masse sfruttate, essa porta alla formazione di una élite, che finirà con l’utilizzare l’energia proveniente “dal basso”, convogliandola per i propri scopi, che da quel momento diverranno diversi ed opposti a quelli degli sfruttati. In questo modo Bakunin anticiperà con cento anni la formazione della nuova classe dominante tecnoburocratica nata appunto dalla “testa” del movimento operaio e che, in nome di esso, si impadronirà della macchina statale e delle sue funzioni dominanti. Alla religione cristiana verrà sostituita la nuova “teologia politica” giustificante il nuovo Stato e il nuovo dominio: il marxismo.
Bakunin, a differenza dei marxisti, non parlerà mai di “lotta di classe”, ma di lotta popolare. Tale linguaggio spiega per l’appunto un altro tema caro alla sua dottrina: l’alleanza operai-contadini. Possiamo anzi dire che esso sia stato uno dei punti in cui Bakunin ha espresso con maggior vigore la sua strategia di lotta. Mentre per i marxisti le masse contadine dovevano seguire la strategia della classe operaia, per Bakunin esse erano e dovevano restare in una posizione di parità. E questo per due motivi. Il primo si riferiva al fatto che la lotta della classe operaia separata da quella contadina, avrebbe favorito la logica del capitalismo industriale aumentando il divario città-campagna, isolando maggiormente il movimento operaio dalla lotta generale degli sfruttati. Il secondo era che tale lotta non doveva perdere il carattere storico che gli sfruttati gli avevano assegnato: la lotta sociale. Il termine “lotta sociale” era diventato necessario nel linguaggio bakuniniano; esso comprendeva anche il senso rivoluzionario di lotta politica.
La differenza di linguaggio rispetto ai marxisti nascondeva dunque una questione di fondo. Essa riguardava non solo la diversa interpretazione del significato storico della Prima Internazionale, ma il significato, la funzione e il fine della lotta generale di tutti gli sfruttati. Perché tale lotta non costituisse trampolino di lancio di una nuova classe per la conquista del potere, cambiando solamente la forma dello sfruttamento, occorreva una lotta generale portata avanti contemporaneamente da tutti gli sfruttati, senza una pattuglia d’avanguardia, com’era invece negli intendimenti marxisti.
Non crediamo di esagerare dicendo che l’aver scelto la strategia marxista, ha comportato in questi cento anni, per il movimento operaio, le sconfitte più terribili. Ovunque si può vedere alla radice di tali sconfitte l’isolamento della classe operaia rispetto alle masse contadine, e dove tale lotta è stata “vittoriosa”, l’affermazione di una nuova classe dominante (vedi la Russia e gli altri paesi “socialisti”).
Tutto questo fu compreso e anticipato da Bakunin, ma tale comprensione non sarebbe stata completa se Bakunin non ci avesse lasciato i suoi articoli sul lavoro manuale e sul lavoro intellettuale. Essi ci indicano la traccia principale della teoria bakuninista: l’abolizione delle classi attraverso l’abolizione della divisione del lavoro. Divisione tra il lavoro intellettuale-direttivo dominante e il lavoro manuale-esecutivo dominato. Questa divisione, presente in ogni società di sfruttamento, è la ragione prima della disuguaglianza, ci dice Bakunin, e il supporto necessario dello Stato perché sistema gerarchico e piramidale analogo all’organizzazione diseguale del lavoro. In questo modo la libertà materiale di tutti gli uomini passa attraverso l’abolizione dello Stato, vale a dire la distruzione dell’organizzazione diseguale del lavoro; ciò comporta l’abolizione della divisione del lavoro come causa della formazione delle classi. Libertà e uguaglianza, ecco i termini della dottrina di Bakunin, ma in questo senso: che non si può ottenere l’uno senza ottenere contemporaneamente l’altro.

Giampietro “Nico” Berti

Contro lo Stato

Ho detto che lo Stato, per il suo stesso principio, è un immenso cimitero dove tutte le manifestazioni della vita individuale e locale, tutti gli interessi delle parti, l’insieme delle quali costituisce appunto la società, vengono a sacrificarsi, a morire, a sotterrarsi. È l’altare su cui la libertà reale e il benessere dei popoli sono immolati alla “grandeur” politica; e più questo sacrificio è completo, più lo Stato è perfetto. Ne concludo, ed è la mia convinzione, che l’impero russo è lo Stato per eccellenza, lo Stato senza retorica e senza mezzi termini, lo Stato più perfetto d’Europa. Viceversa, tutti gli Stati, nei quali i popoli possono ancora respirare, sono, da un punto di vista ideale, Stati incompleti, così come tutte le altre Chiese, in confronto a quella cattolica, sono Chiese mancate. (…).
Ho detto che lo Stato è un’astrazione che divora la vita popolare; ma perché un’astrazione possa nascere, svilupparsi e continuare ad esistere nel mondo reale, bisogna che ci sia un aggregato collettivo reale che sia interessato alla sua esistenza. Non può esserlo la grande massa popolare, dal momento che essa ne è proprio la vittima: deve trattarsi di un gruppo privilegiato, il gruppo sacerdotale dello Stato, la classe governante e possidente, che è, nello Stato, ciò che nella Chiesa è la classe sacerdotale della religione, cioè i preti.
Infatti, che cosa notiamo noi in tutta la storia? Lo Stato è sempre rimasto il patrimonio di una qualunque classe privilegiata: classe sacerdotale, classe nobiliare, classe borghese, infine classe burocratica, quando, essendosi esaurite tutte le altre classi, lo Stato cade o, secondo di come lo si vuole interpretare, si innalza allo stato della macchina; ma occorre assolutamente per la sopravvivenza dello Stato che ci sia una classe privilegiata qualunque che abbia interesse alla sua esistenza. Ed è appunto l’interesse solidale di questa classe privilegiata che si chiama patriottismo.
(…). Abbiamo già dichiarato più d’una volta la nostra viva ripugnanza per le teorie di Lassalle e di Marx che raccomandano ai lavoratori se non proprio come supremo ideale almeno come immediato e principale obiettivo la fondazione di uno Stato popolare che, come loro stessi hanno spiegato, non sarebbe altro che “il proletariato elevato al rango di casta dominante”.
Se il proletariato, ci si chiede, diverrà la casta dominante sopra chi dominerà? Ciò significa che rimarrà ancora un altro proletariato sottomesso a questa nuova dominazione, a questo nuovo Stato. È questo il caso, per esempio, della plebaglia contadina che, come è noto, non gode della benevolenza dei marxisti e che, trovandosi al grado più basso di cultura, sarà evidentemente governata dal proletariato delle città e delle fabbriche; oppure, se consideriamo la questione dal punto di vista nazionale, prendendo gli slavi rispetto ai tedeschi, i primi per lo stesso motivo staranno, nei confronti del proletariato tedesco vittorioso, nella stessa servile soggezione in cui ora questi ultimi si trovano nei confronti della loro borghesia.
Dove c’è lo Stato c’è inevitabilmente la dominazione e di conseguenza la schiavitù; lo Stato senza la schiavitù, aperta o mascherata, è inconcepibile; ecco perché siamo nemici dello Stato.
Che cosa vuol dire il proletariato organizzato in casta dominante? È mai possibile che l’intero proletariato si ponga alla testa del governo? I tedeschi sono circa 40 milioni. È forse possibile che tutti questi 40 milioni divengano membri del governo? Che tutto il popolo governi e che non ci siano governati? In questo caso non ci sarà governo, non ci sarà Stato; ma se ci sarà uno Stato ci saranno governati, ci saranno schiavi.
Questo dilemma è risolto semplicisticamente nella teoria marxiana. Con governo popolare essi intendono il governo del popolo da parte di un piccolo numero di rappresentanti eletti dal popolo.
Così da qualsiasi parte si esamini questa questione si arriva sempre allo stesso spiacevole risultato: al governo dell’immensa maggioranza delle masse popolari da parte di una minoranza privilegiata. Ma questa minoranza, ci dicono i marxiani, sarà di lavoratori. Sì, certamente, di ex lavoratori i quali non appena divenuti governanti o rappresentanti del popolo non saranno più lavoratori e guarderanno il mondo del lavoro manuale dall’alto dello Stato; non rappresenteranno più da quel momento il popolo ma se stessi e le proprie pretese di voler governare il popolo. Chi può dubitare di ciò non sa niente della natura umana.
Ma questi eletti saranno socialisti ardenti, convinti e per di più scientifici. Queste parole “socialisti scientifici”, “socialismo scientifico” che s’incontrano costantemente nelle opere e nei discorsi dei lassalliani e dei marxiani provano per sé stesse che il cosiddetto Stato popolare non sarà nient’altro che il governo dispotico della massa del popolo da parte di una aristocrazia nuova e molto ristretta di veri o pseudoscienziati. Il popolo, dato che non è istruito, sarà completamente esonerato dalle preoccupazioni di governo e sarà incluso in blocco nella mandria dei governati. Che bella liberazione!
I marxiani si rendono conto di questa contraddizione e coscienti che un governo di scienziati, il più opprimente, il più offensivo e il più spregevole del mondo, sarà nonostante tutte le forme democratiche una vera dittatura, si consolano con l’idea che questa dittatura sarà provvisoria e di breve durata. Dicono che la sua unica occupazione e il suo unico intento sarà quello di educare e di elevare il popolo sia economicamente che politicamente a un livello in cui ogni governo diverrebbe ben presto inutile, e lo Stato perdendo ogni suo carattere politico e cioè di dominazione si trasformerà da sé in una organizzazione assolutamente libera degli interessi economici e dei comuni.
Abbiamo qui una flagrante contraddizione. Se lo Stato fosse veramente popolare perché sopprimerlo? E se la sua soppressione è necessaria per l’emancipazione reale del popolo come si osa chiamarlo popolare? Con la nostra polemica nei loro confronti abbiamo fatto loro confessare che la libertà o l’anarchia, vale a dire la libera organizzazione delle masse operaie dal basso in alto, è la meta finale dell’evoluzione sociale e che perciò ogni Stato, non escluso il loro Stato popolare, è un giogo il che vuol dire che esso da una parte genera il dispotismo e dall’altra la schiavitù. (…). Essi affermano che solo la dittatura, la loro naturalmente, può creare la libertà del popolo; rispondiamo che nessuna dittatura può avere altro fine che quello della propria perpetuazione e che essa è capace solo di generare e di coltivare la schiavitù nel popolo che la subisce; la libertà può essere creata solo dalla libertà ovvero dalla rivolta di tutto il popolo e della libera organizzazione dei lavoratori dal basso in alto.

(da Stato e Anarchia, 1873)

Bakunin e Malatesta in un disegno di Gabriele Roveda,
pubblicato come copertina di "A" n. 76 dell'agosto-settembre 1979

Spontaneità e dittatura

Noi rivoluzionari anarchici, fautori dell’istruzione generale del popolo, dell’emancipazione e del più vasto sviluppo della vita sociale e di conseguenza nemici dello Stato e di ogni statalizzazione, affermiamo, in opposizione a tutti i metafisici, ai positivisti e a tutti gli adoratori scienziati o no della scienza deificata, che la vita naturale precede sempre il pensiero, il quale è solo una delle sue funzioni, ma non sarà mai il risultato del pensiero, che essa si sviluppa a partire dalla sua propria insondabile profondità attraverso una successione di fatti diversi e mai con una serie di riflessi astratti e che questi ultimi, prodotti sempre dalla vita, che a sua volta non ne è mai prodotta, indicano soltanto come pietre miliari la sua direzione e le varie fasi della sua evoluzione propria e indipendente.
In conformità con queste convinzioni noi non solo non abbiamo l’intenzione né la minima velleità d’imporre al nostro popolo, o a qualunque altro popolo, un qualsiasi ideale di organizzazione sociale tratto dai libri o inventato da noi stessi ma, persuasi che le masse popolari portano in sé stesse, negli istinti più o meno sviluppati dalla loro storia, nelle loro necessità quotidiane e nelle loro aspirazioni coscienti o inconsce, tutti gli elementi della loro futura organizzazione naturale, noi cerchiamo questo ideale nel popolo stesso; e siccome ogni potere di Stato, ogni governo deve, per la sua medesima essenza e per la sua posizione fuori del popolo o sopra di esso, deve necessariamente mirare a subordinarlo a un’organizzazione e a fini che gli sono estranei noi ci dichiariamo nemici di ogni governo, di ogni potere di Stato, nemici di un’organizzazione di Stato in generale e siamo convinti che il popolo potrà essere felice e libero solo quando, organizzandosi dal basso in alto per mezzo di associazioni indipendenti e assolutamente libere e al di fuori di ogni tutela ufficiale, ma non fuori delle influenze diverse e ugualmente libere di uomini e di partiti, creerà esso stesso la propria vita.
Queste sono le convinzioni dei socialisti rivoluzionari e per questo ci chiamano anarchici. Noi non protestiamo contro questa definizione perché siamo realmente nemici di ogni autorità, perché sappiamo che il potere corrompe sia coloro che ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori della società in favore della propria persona o casta, gli altri in schiavi.
Gli idealisti di ogni risma, metafisici, positivisti fautori della supremazia della scienza sulla vita, rivoluzionari dottrinari, tutti assieme con lo stesso ardore sebbene con diversi argomenti, difendono l’idea dello Stato e del potere dello Stato riconoscendo in questo del tutto logicamente l’unica salvezza, secondo loro, della società. Del tutto logicamente perché una volta adottato il principio fondamentale, secondo noi completamente falso, che il pensiero precede la vita e l’astratta teoria la pratica sociale, e che perciò la scienza sociale dev’essere il punto di partenza delle riorganizzazioni e delle rivoluzioni sociali, essi sono necessariamente costretti a concludere che, dato che il pensiero, la teoria, la scienza, almeno per ora, costituiscono il patrimonio di una minoranza questa minoranza deve quindi dirigere la vita sociale non solo promuovendo ma anche dirigendo tutti i movimenti nazionali e che l’indomani della rivoluzione la nuova organizzazione della società dovrà farsi non per la via della libera unione dal basso in alto delle associazioni, dei comuni, dei cantoni, delle regioni, in armonia con i bisogni e con gli istinti del popolo ma unicamente per mezzo dell’autorità dittatoriale di quella minoranza di scienziati che pretende di rappresentare la volontà collettiva.
È sulla finzione di questa pretesa rappresentanza del popolo e sul fatto concreto del governo delle masse popolari da parte di un pugno insignificante di privilegiati, eletti o no dalle moltitudini costrette alle elezioni e che non sanno neanche perché e per chi votano; è sopra questa concezione astratta e fittizia di ciò che s’immagina essere pensiero e volontà di tutto il popolo, e della quale il popolo reale e vivente non ha la più pallida idea, che sono basate in ugual misura e la teoria dello Stato e la teoria della cosiddetta dittatura rivoluzionaria.

(da Stato e Anarchia, 1873)


La Comune di Parigi

Varlin e tutti i suoi amici, al pari di tutti i socialisti sinceri e come in generale tutti i lavoratori nati e cresciuti fra il popolo, dividevano al più alto grado questa prevenzione perfettamente legittima contro la dominazione esercitata dalle individualità superiori; e siccome innanzi tutto erano giusti, essi volgevano questa prevenzione, questa sfiducia, tanto contro sé stessi quanto contro gli altri.
Contrariamente a questo pensiero dei comunisti autoritari, secondo me tutt’affatto erroneo, che una rivoluzione sociale possa essere decretata e organizzata sia da una dittatura, sia da un’assemblea costituente, risultante d’una rivoluzione politica, i nostri amici socialisti di Parigi hanno pensato ch’essa non poteva essere fatta e condotta al suo completo sviluppo che mediante l’azione spontanea e continuata delle masse, dei gruppi e delle associazioni popolari.
I nostri amici di Parigi hanno avuto mille volte ragione. Poiché, effettivamente, quale è la testa così geniale, o – se si vuol parlare d’una dittatura collettiva, anche se esercitata da parecchie centinaia d’individui dotati di facoltà superiori – quali sono i cervelli tanto potenti, tanto vasti, per abbracciare l’infinita molteplicità e diversità degl’interessi reali, delle aspirazioni delle volontà, dei bisogni di cui la somma costituisce la volontà di un popolo, capaci di creare una organizzazione sociale che possa soddisfare tutti? Questa organizzazione non sarà mai altro che un letto di Procuste, sulla quale la violenza più o meno accentuata dello Stato forzerà la disgraziata società a spegnersi. È ciò che è avvenuto sempre fino ad ora, ed è precisamente a questo sistema antico dell’organizzazione obbligatoria che la rivoluzione sociale deve porre un termine, rendendo la loro completa libertà alle masse, ai gruppi, ai comuni, alle associazioni, agli individui medesimi, distruggendo una volta per sempre la causa storica di tutte le violenze: la potenza e l’esistenza stessa dello Stato. Questo deve trascinar nella sua caduta tutte le iniquità del diritto giuridico con tutte le menzogne dei culti diversi, poiché questo diritto e questi culti non sono mai stati altro che la consacrazione obbligata, tanto ideale quanto reale, di tutte le violenze rappresentate, garantite e privilegiate dallo Stato.
È evidente che la libertà non sarà resa al mondo umano, e che gli interessi reali della Società, di tutti i gruppi, di tutte le organizzazioni locali, come pure di tutti gli individui che costituiscono la società, non potranno trovare soddisfazione vera che allorquando non vi saranno più Stati. È evidente che tutti gli interessi così detti generali della società che lo Stato è incaricato di rappresentare, e che in realtà non sono altro che la negazione generale e costante degli interessi positivi delle regioni, dei comuni, delle associazioni e del più gran numero di individui, assoggettati allo Stato, costituiscono una astrazione, una finzione, una menzogna.
L’abolizione della Chiesa e dello Stato deve essere la prima ed indispensabile condizione della liberazione reale della società, soltanto dopo ciò essa potrà e dovrà organizzarsi in un’altra maniera ma non dall’alto in basso e dopo un piano ideato o sognato da qualche saggio o da qualche sapiente, oppure per decreti lanciati da forze dittatoriali, oppure da un’assemblea nazionale eletta a suffragio universale. Un tale sistema, come ho già detto, condurrebbe inevitabilmente alla creazione di un nuovo Stato e conseguentemente alla formazione di una aristocrazia governativa, cioè d’una intera classe non avente nulla in comune con la massa del popolo, e che certo comincerebbe a sfruttare e ad assoggettare questa, col pretesto della felicità comune o per salvare lo Stato.
La futura organizzazione sociale, deve essere fatta dal basso in alto, per mezzo della libera associazione e della federazione dei lavoratori, prima nelle associazioni, poi nei comuni, nelle regioni, nelle nazioni, e, finalmente, in una grande federazione internazionale e universale. Allora soltanto si realizzerà il vero e vivificante ordine della libertà e della felicità generali, quell’ordine che, lontano dal rinnegare, afferma al contrario e accomuna gli interessi degli individui e della società.
Si dice che l’accordo e la solidarietà universale degli interessi individuali e della società non potranno mai realizzarsi di fatto, perché questi interessi, essendo contraddittori, non possono bilanciarsi, né arrivare ad una qualsiasi intesa. A tale obbiezione io risponderò che se finora questi interessi non sono mai ed in nessun luogo stati in mutuo accordo, ciò fu a causa dello Stato che ha sacrificato gli interessi della maggioranza a profitto della minoranza privilegiata. Ecco perché questa famosa incompatibilità degli interessi individuali con quelli della società non è altro che una frode e una menzogna politica, nata dalla menzogna teologica, la quale immaginò la dottrina del primo peccato, per disonorare l’uomo e per distruggere in lui la coscienza del proprio valore. Questa stessa falsa idea dell’antagonismo degl’interessi nacque dai sogni della metafisica, la quale, come è noto, è stretta parente della teologia.

(da L’impero knuto-germanico, 1871)

Max Nettlau, biografo di Bakunin

Operai e contadini

Con quale diritto gli operai imporrebbero ai contadini una qualsiasi forma di governo e di organizzazione economica? Col diritto della rivoluzione, si risponde. Ma la rivoluzione non è più rivoluzione quando essa agisce dispoticamente, e quando, invece di produrre la libertà nelle masse, essa provoca la reazione nel loro seno. Il mezzo e la condizione, se non lo scopo principale della rivoluzione, è l’annientamento del principio dell’autorità in tutte le sue manifestazioni possibili, è l’abolizione completa dello Stato politico e giuridico perché lo Stato, fratello minore della Chiesa, come Proudhon ha molto ben dimostrato, è la consacrazione storica di tutti i dispotismi, di tutti i privilegi, la ragione politica di tutte le servitù economiche e sociali, l’essenza stessa e il centro di ogni reazione. Quando, in nome della rivoluzione, si vuol istituire lo Stato, non fosse altro che uno Stato provvisorio, si compie un’operazione reazionaria e si lavora per il dispotismo, non per la libertà, per l’istituzione del privilegio contro l’eguaglianza.
È chiaro come il giorno. Ma gli operai socialisti della Francia, educati nelle tradizioni politiche dei Giacobini, non hanno mai voluto capirlo. Ora, saranno costretti a capirlo, per buona sorte della rivoluzione e di loro stessi. Di dove è venuta loro questa pretesa tanto ridicola quanto arrogante, tanto ingiusta quanto funesta, di imporre un ideale politico e sociale a dieci milioni di contadini che non ne vogliono sapere? Evidentemente si tratta ancora di un’eredità borghese, un legato politico del rivoluzionarismo borghese. Quale è il fondamento, la spiegazione, la teoria di questa pretesa? È la reale o supposta superiorità dell’intelligenza, dell’istruzione, in una parola della civiltà operaia sulla civiltà delle campagne. Ma sapete che con tale principio si possono legittimare tutte le conquiste, consacrare tutte le oppressioni? I borghesi non hanno avuto mai altro principio per provare la loro missione e il loro diritto di governare, o, il che significa la stessa cosa, di sfruttare il mondo operaio. Da nazione a nazione, così come da una classe all’altra, questo principio fatale, che non è altro che quello dell’autorità, spiega e afferma come un diritto tutte le invasioni e tutte le conquiste. I tedeschi non se ne sono forse sempre serviti per giustificare tutti i loro attentati contro la libertà e contro l’indipendenza dei popoli slavi e per legittimare la germanizzazione violenta e forzata? Essi dicono che è la conquista della civiltà sulla barbarie. Fate attenzione, i tedeschi cominciano già ad accorgersi che la civiltà germanica, protestante, è ben superiore alla civiltà cattolica dei popoli di razza latina in generale, e alla cultura francese in particolare. Fate attenzione che essi non si immaginino ben presto di avere la missione di civilizzarvi e di rendervi felici, nella stessa maniera in cui vi immaginate di aver la missione di civilizzare e di emancipare i vostri compatrioti, i vostri fratelli, i contadini della Francia.
Io mi rivolterò insieme agli educandi contro tutti questi arroganti civilizzatori, si chiamino operai o tedeschi, e, rivoltandomi contro di loro, servirò la rivoluzione contro la reazione.

(da Lettere a un francese, 1870)

Lavoro manuale e lavoro intellettuale

Abbiamo dimostrato che fino a quando ci saranno due o più gradi d’istruzione per i vari strati della società, ci saranno necessariamente delle classi, vale a dire dei privilegi economici e politici per un piccolo numero di fortunati e la schiavitù e la miseria per il più grande numero. Membri dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori noi vogliamo l’uguaglianza e poiché la vogliamo, noi dobbiamo volere anche l’istruzione integrale, uguale per tutti.
Ma se tutti sono istruiti chi vorrà lavorare? si domanda. La nostra risposta è semplice: tutti devono lavorare e tutti devono essere istruiti.
A questo punto si risponde spesso che questa integrazione del lavoro industriale con il lavoro intellettuale non potrà ottenersi che a danno dell’uno o dell’altro: i lavoratori manuali saranno dei cattivi scienziati e gli scienziati saranno sempre degli operai veramente meschini. Sì, nella società attuale in cui il lavoro manuale e il lavoro dell’intelligenza sono ambedue falsati dall’isolamento completamente artificiale al quale sono stati entrambi condannati.
Ma noi siamo convinti che nell’uomo vivente e completo ognuna di queste due attività, muscolare e nervosa, dev’essere sviluppata in ugual maniera e che, lungi dal nuocersi a vicenda, ciascuna deve sostenere, allargare e rafforzare l’altra: la scienza dello scienziato diventerà più feconda, più utile e più larga quando lo scienziato non ignorerà più il lavoro manuale e il lavoro dell’operaio istruito sarà più intelligente e quindi più produttivo di quello dell’operaio ignorante.

Uomini completi
Ne consegue che nello stesso interesse del lavoro come pure in quello della scienza non ci devono più essere né operai né scienziati, ma solo degli uomini.
Si avrà questo risultato, che gli uomini i quali a causa della loro superiore intelligenza sono oggi tratti nel mondo esclusivo della scienza e una volta installati entro questo mondo e cedendo alla necessità di una posizione interamente borghese, piegano tutte le loro invenzioni all’esclusivo profitto della classe privilegiata di cui loro stessi fan parte, che dunque questi uomini una volta divenuti realmente solidali con tutti, solidali non in modo figurato o solo a parole ma di fatto, col lavoro, adatteranno altrettanto necessariamente le scoperte e le applicazioni della scienza all’interesse di tutti, e primamente, all’alleggerimento e alla elevazione del lavoro, la sola base legittima e la sola reale, della società umana.
È possibile e perfino molto probabile che nel periodo di transizione più o meno lungo che seguirà naturalmente la grande crisi sociale le scienze più avanzate cadranno in maniera considerevole al di sotto del loro attuale livello; è altrettanto indubbio che il lusso e tutte quelle cose che costituiscono le raffinatezze della vita dovranno scomparire per molto tempo dalla società e non potranno più riapparire come godimenti esclusivi ma solo come un’elevazione della vita di tutti, solo dopo che la società avrà conquistato il necessario per tutti.
Ma questa eclissi temporanea della scienza superiore sarà poi una disgrazia così grande? Ciò che la scienza perderà in sublime elevatezza non sarà compensato dall’allargamento della sua base?
Indubbiamente ci saranno meno scienziati illustri ma nello stesso tempo ci saranno meno ignoranti. Non avremo più questi pochi uomini che toccano i cieli ma, in compenso, milioni d’uomini che cammineranno in modo umano sulla terra: niente semidei, niente schiavi. I semidei e gli schiavi si umanizzeranno insieme, gli uni discendendo un po’ gli altri salendo molto. Non ci sarà più posto allora né per la divinizzazione né per il disprezzo.
Tutti si daranno la mano e una volta riuniti, tutti muoveranno con uno slancio nuovo verso nuove conquiste nella scienza come nella vita.
Per cui anziché paventare questa eclissi della scienza, d’altronde assolutamente momentanea, noi la invochiamo con tutti i nostri voti perché essa avrà l’effetto di umanizzare gli scienziati e i lavoratori manuali insieme, di riconciliare la scienza con la vita.
E siamo convinti che una volta conquistata questa nuova base i progressi dell’umanità supereranno in breve, sia nella scienza che nella vita, tutto quanto abbiamo visto sinora e tutto quel che oggi possiamo immaginare.

Le capacità individuali
Ma qui si affaccia un’altra questione: tutti gli individui hanno uguali capacità di elevarsi allo stesso grado d’istruzione? Immaginiamo una società organizzata secondo il sistema più ugualitario e nella quale tutti i fanciulli abbiano fin dalla nascita il medesimo punto di partenza sia dal punto di vista economico e sociale che da quello politico e cioè, assolutamente, uguale mantenimento, uguale educazione, uguale istruzione; non ci saranno fra queste migliaia di piccoli individui infinite differenze di energia, di tendenze naturali, di attitudini?
Eccolo il grande argomento dei nostri avversari, borghesi puri e socialisti borghesi. Lo credono irresistibile. Proviamoci allora di dimostrare loro il contrario. Innanzitutto con quale diritto si riferiscono al principio delle capacità individuali? C’è forse posto per il loro sviluppo in una società che continui ad avere come base economica il diritto ereditario? Evidentemente no, perché fino a quando si avrà eredità l’avvenire dei fanciulli non sarà mai il risultato delle loro capacità e della loro energia individuale: sarà, prima d’ogni altra cosa, il prodotto delle condizioni di fortuna, della ricchezza o della miseria delle loro famiglie.
Gli ereditieri ricchi ma stupidi riceveranno un’istruzione superiore, i fanciulli più intelligenti del proletariato continueranno a ricevere in eredità l’ignoranza, proprio come in pratica avviene oggi.
Non è allora un’ipocrisia parlare, non solo nell’attuale società ma addirittura in previsione di una società riformata che continuerebbe però sempre ad avere per base la proprietà individuale e il diritto ereditario, non è un’infame truffa, ripeto, parlare di diritti individuali fondati sopra capacità individuali?
Oggi si parla tanto di libertà individuale e tuttavia ciò che predomina non è affatto l’individuo umano, l’individuo in generale, ma è l’individuo privilegiato per la propria posizione sociale, è quindi la posizione, è la classe. Che un individuo intelligente della borghesia osi soltanto di elevarsi contro i privilegi economici di questa classe egregia e si vedrà quanto questi ottimi borghesi che adesso si riempiono la bocca di libertà individuale, rispetteranno la sua!
E si viene a parlarci di capacità individuali! Ma non vediamo ogni giorno le migliori capacità operaie e borghesi costrette a cedere il passo e perfino a curvare la fronte davanti alla stupidità degli ereditieri del vitello d’oro? La libertà individuale, non privilegiata ma umana, le capacità reali degli individui non potranno avere il loro pieno sviluppo che nella completa uguaglianza. Solo quando ci sarà l’uguaglianza delle condizioni di partenza per tutti gli uomini della terra, salvando comunque i superiori diritti della solidarietà che è e resterà sempre la principale matrice di tutti i fatti sociali, dell’intelligenza umana come dei beni materiali soltanto allora si potrà dire con le buone ragioni che oggi mancano, che ogni individuo è il figlio delle proprie opere. Da cui concludiamo che affinché le capacità individuali riescano a prosperare e perché non siano più impedite dal produrre i loro frutti occorre, prima d’ogni cosa, che tutti i privilegi individuali sia economici che politici siano fatti scomparire, vale a dire che tutte le classi siano abolite. Occorre che scompaia la proprietà individuale e il diritto ereditario; occorre il trionfo economico, politico e sociale dell’uguaglianza.
Ma quando l’uguaglianza avrà trionfato e si sarà solida-mente stabilita non ci sarà più nessuna differenza fra le capa-cità e i gradi d’energia dei diversi individui? Ci sarà, forse non nella misura che ha oggi, ma indubbiamente ce ne sarà sempre.

Uguaglianza nella diversità
È una verità divenuta proverbiale, e che con ogni probabilità non cesserà mai d’essere una verità, che sullo stesso albero non ci siano mai due foglie identiche. A maggior ragione ciò sarà sempre vero riguardo agli uomini, dato che gli uomini sono esseri molto più complessi delle foglie. Ma questa diversità lungi dal rappresentare un danno è, al contrario, come ha molto bene osservato il filosofo tedesco Feuerbach, una ricchezza dell’umanità.
Grazie ad essa l’umanità diviene un tutto collettivo in cui ciascuno completa tutti e ha bisogno di tutti; di modo che questa infinita diversità degli individui umani è la causa stessa, la base principale della loro solidarietà, e un argomento onnipotente a favore dell’uguaglianza. In fondo anche nell’odierna società quando si eccettuino due categorie d’uomini, gli uomini di genio e gli idioti, e quando si trascurino differenze create artificialmente dall’influenza di mille cause sociali come educazione, istruzione posizione economica e politica che si diversificano non solo in ogni strato della società ma quasi in ogni famiglia, si dovrà riconoscere che dal punto di vista delle capacità intellettuali e dell’energia morale, l’immensa maggioranza degli uomini si rassomiglia molto o almeno che essi si equivalgono, perché la debolezza di ognuno sotto un aspetto è quasi sempre compensata da una forza equivalente sotto un altro aspetto, per cui diventa impossibile dire che un uomo tolto da questa massa sia molto superiore o inferiore all’altro.
Nella loro immensa maggioranza gli uomini non sono identici ma equivalenti e perciò uguali.
Non rimangono quindi a disposizione dell’argomentazione dei nostri avversari che gli uomini di genio e gli idioti.
Si sa che l’idiotismo è una malattia fisiologica e sociale. Non dev’essere quindi trattata nelle scuole ma negli ospedali e abbiamo il diritto di sperare che l’introduzione di un’igiene sociale più razionale e soprattutto più preoccupata della salute fisica e morale degli individui, di quella che esiste oggi, e l’organizzazione ugualitaria della nuova società perverranno a far scomparire completamente dalla faccia della terra questa maledetta malattia così umiliante per la specie umana.
In quanto agli uomini di genio si deve innanzitutto osservare che fortunatamente, o se si vuole disgraziatamente, essi non sono mai entrati nella storia se non come rarissime eccezioni a tutte le regole conosciute e non si organizzano le eccezioni.
Noi comunque speriamo che la società futura troverà nell’organizzazione realmente pratica e popolare della sua forza collettiva il mezzo per rendere meno necessari questi grandi geni, meno schiaccianti e più realmente benefici per tutti. Perché non si deve mai dimenticare la profonda sentenza di Voltaire: “C’è qualcuno che ha maggior ingegno del genio più grande, è tutta la gente”.

Il genio popolare
Si tratta quindi soltanto di organizzare questa gente per mezzo della più grande libertà fondata sulla più completa uguaglianza economica, politica e sociale per cui non si debba più aver da temere dalle velleità dittatoriali e dall’ambizione dispotica degli uomini di genio.
In quanto a produrre uomini di genio per mezzo dell’educazione è meglio non pensarci.
D’altra parte fra tutti gli uomini di genio conosciuti nessuno o quasi nessuno si è rivelato tale nella sua infanzia, nella sua adolescenza e nemmeno nella sua prima giovinezza.
Essi si sono manifestati come tali solo nella loro maturità, e moltissimi sono stati riconosciuti solo dopo la loro morte, mentre tanti grandi uomini mancati, proclamati uomini superiori durante la prima giovinezza, hanno finito la loro carriera nella più assoluta nullità.
Non sarà mai perciò nell’infanzia e nemmeno nell’adolescenza che si potranno determinare le superiorità e le inferiorità relative degli uomini, né il grado delle loro capacità, né le loro inclinazioni naturali. Tutte queste cose si manifestano e si determinano solo con lo sviluppo degli individui e dato che ci sono nature precoci e altre lentissime, quantunque nient’affatto inferiori e spesso perfino superiori, nessun maestro di scuola potrà prevedere l’avvenire e il tipo di occupazione che i fanciulli sceglieranno una volta giunti all’età della libertà.
Ne consegue che la società prescindendo dalla differenza reale o fittizia delle inclinazioni e delle capacità e non disponendo di mezzi per determinare, né di diritti per imporre la futura carriera dei fanciulli deve a tutti un’educazione e un’istruzione assolutamente uguali.
L’istruzione di ogni grado dev’essere uguale per tutti, di conseguenza dev’essere integrale vale a dire che essa deve preparare ogni fanciullo dei due sessi sia alla vita del pensiero che a quella del lavoro affinché tutti possano diventare in ugual maniera degli uomini completi.

(da “L’Egalité”, 1869)

Sulla storiografia bakuniniana

Il pensiero e l’azione di Bakunin appartengono al patrimonio storico del movimento operaio e socialista e specificatamente al suo filone rivoluzionario e libertario, di cui Bakunin è stato fondatore e teorico di eccezionale valore.
Chiunque abbia a cuore un minimo di obiettività storica non può non concordare con noi su questo elementare giudizio, anche se tale giudizio non implica ovviamente una ricostruzione acriticamente apologetica. Esso riguarda, al contrario il modo minimale per difendere obiettivamente la sua azione e il suo pensiero, dallo snaturamento più inaudito compiuto quasi sistematicamente dalla critica storica e ideologica di varia estrazione, con la conseguenza di rendere pressoché incomprensibile, se non agli “iniziati”, la figura e l’opera sua.
L’aver stravolto il suo modo originario e la sua espressione storica autentica, ha comportato nella critica una serie continua di contraddizioni senza possibilità di armonia e di omogeneizzazione. I “critici” sono in completo disaccordo tra loro, dopo aver fatto di Bakunin una “caricatura storica” che, in questo modo, credono di aver relegato definitivamente nel campo della curiosità e dell’aneddotica sociale. Questa “caricatura” si basa su una “ricostruzione storica” fondata a sua volta su alcuni dati completamente falsi e su altri manomessi ed alterati in modo decisivo.
Vediamo alcune delle storture più grossolane, per evidenziare il grado di mistificazione storica compiuto nei confronti di Bakunin.
Innanzitutto Bakunin è stato presentato come bugiardo e codardo, in modo tale da rendere definitivamente compromessa la sua figura morale di rivoluzionario. Questo giudizio si basa sulla famosa “confessione” scritta in carcere da Bakunin e diretta allo Zar dove egli rinnega completamente il suo passato di rivoluzionario. I bolscevichi, che hanno scoperto questo manoscritto negli archivi di stato, sono stati molto lesti (e contenti) a rendere pubblica tale confessione (1), ma non altrettanto di pubblicare un manoscritto, diretto alla sorella Tatania, in cui Bakunin “pianificava” già la sua liberazione, con l’intenzione di scrivere tale confessione al solo scopo di farsi liberare (2).
Esiste poi la “versione” di Bakunin panslavista fornitaci dai marxisti a cominciare da Marx ed Engels e che ora finalmente è stata resa nella sua giusta dimensione: l’abbandono del panslavismo democratico e rivoluzionario deve essere collocato già prima del 1865 (3). È importante far notare che in questa giusta dimensione il “panslavismo” diventa nell’azione e negli intendimenti di Bakunin, uno strumento al servizio della rivoluzione. Concezione indubbiamente errata che Bakunin in seguito abbandonerà, ma che ci permette di cogliere le vere intenzioni che l’animavano (4) .
Inoltre, tutta una “letteratura” è fiorita sul “personaggio” Bakunin capo “carismatico e tenebroso” dell’Alleanza della democrazia socialista, e sul rapporto che questi ha avuto con il nichilista Necaev. A questo proposito farebbe testo il famoso e famigerato “Catechismo del rivoluzionario (1830)” dove sono enunciati i principi nichilisti e populisti e dove soprattutto, secondo i critici, Bakunin avrebbe espresso la sua vera dottrina. Ora nessuna prova storica, nessun documento, nessuna ragione o supposizione è in grado di avvalorare tale giudizio, che rimane pertanto patrimonio esclusivo dell’ignoranza storica e testimonianza decisiva del grado di serietà scientifica che contraddistingue tale storiografia (5).
Esiste un “Catechismo del rivoluzionario” composto da Bakunin tra il 1864 e il 1866, parte integrante di un documento sulla “Fratellanza rivoluzionaria”, in cui Bakunin anticipa il suo pensiero sulla formazione delle classi e sulla divisione del lavoro (6). Pensiero che poi svilupperà completamente negli straordinari articoli sul lavoro manuale e sul lavoro intellettuale scritti per il giornale “L’Egalité” (7).
Chiunque può confrontare i due “Catechismi” e verificare facilmente come il primo, scritto sicuramente da Necaev, sia una brutta copia del secondo. Con questo non si vuol dire che il “Catechismo” scritto da Bakunin sia un documento anarchico, perché è viziato da una impostazione “autoritaria” che sorregge la sua parte organizzativa e appartiene piuttosto alla tradizione “babeufista” tramandata da Filippo Buonarroti (impostazione, peraltro, di cui Bakunin non si libererà mai completamente).
È interessante notare che in questo documento è già smentita clamorosamente la critica che Engels crederà di fare sull’approccio bakuniniano al problema dell’“eredità”. Infatti tutta la critica marxista, da Engels in poi, ha accreditato a Bakunin una concezione sul rapporto “struttura-sovrastruttura” che non gli appartiene.
Bakunin sarebbe stato convinto che “le leggi sull’eredità sono una causa e non l’effetto dei rapporti di produzione capitalistici” e pertanto avrebbe in questo modo capovolto i canoni elementari della scienza marxista. Ma questo è completamente falso perché Bakunin sia nel documento del 1866, sia nel discorso da lui pronunciato a Basilea nel 1869, sviluppa una concezione rivelatasi storicamente esatta, per la quale “struttura” e “sovrastruttura” sono, a seconda dei casi, determinanti e influenzabili a vicenda (8). Ed è proprio in base a questa impostazione che Bakunin poté sviluppare tutta la sua teoria sullo Stato quale struttura “autonoma”, capace cioè di riprodursi anche in società nelle quali i “rapporti di produzione capitalistici” non esistono più.

Giampietro “Nico” Berti

Note
  1. V. Polonskij, “M. Bakunin, storia dell’intelligencija russa”, ed. di Stato, 1925 Mosca.
  2. Scriveva Bakunin in tale manoscritto “… Quella di poter ricominciare ciò che mi ha condotto qui (…) ma non ho mutato niente dei miei antichi sentimenti… al contrario li ha resi più ardenti e assoluti che mai.”. Vedi M. Bakunin, “Confession”, traduit du russe par P. Brupbacher, avec une introduction de F. Brupbacher et des annotations de M. Nettlau, Paris, Rieder, 1932 (si può trovare alla biblioteca Feltrinelli di Milano). È inutile aggiungere che la dimostrazione pratica degli intendimenti di Bakunin, consiste nei suoi 15 anni di militanza rivoluzionaria seguiti alla fuga dalla Siberia.
  3. Vedi a questo proposito F. Venturi, “Il populismo russo” secondo volume, ed. Einaudi, 1972, Torino.
  4. Vedi sempre F. Venturi, op. cit. Vedi anche W. Giusti “Il panslavismo” Ist. di Politica Int.
  5. Qui l’ultima parola, una volta per tutte l’ha detta M. Confino “Bakunin et Necaev. Les débuts de la rupture”, articolo che assieme ad altri materiali si trova in “M. Bakunin et ses relations avec S. Necaev. 1870-1872. Ecrits et materiaux”. Introductions et annotations de A. Lehning, in “Archives Bakunin”, Istituto Internazionale di Amsterdam, vol. IV, Leiden, 1871. Bakunin infatti scrive a Necaev (2 luglio 1870) “…il vostro catechismo… e le vostre idee…”. M. Nettlau ottant’anni fa aveva già detto che il catechismo non poteva essere di Bakunin, perché troppo diverso dal suo stile e dal suo linguaggio (Nettlau era un filologo) oltre che dal suo pensiero. Ma allora molti banditi ci risero sopra, non adesso però che è stata ritrovata la lettera e le prove. Per Nettiau vedi il primo volume delle “Oeuvres” di Bakunin ed. Stock, Paris 1912, pag. XI.
  6. Si trova interamente in “Stato e Anarchia” Ed. Feltrinelli, Milano, 1968, pag. 311. Sebbene sia datato fabbraio-marzo 1868, esso è da ritenersi scritto prima del 1866. Vedi a questo proposito la lettera di Bakunin a Herzen datata 19 luglio 1866. Si trova in “Lettres à Herzen et à Ogareff (1860-1874) a cura di Dragomanov, Paris, Perrin, 1896. Per una ricostruzione di questo periodo vedi M. Nettlau, Bakunin e l’Internazionale in Italia, ed. Il Risveglio, Ginevra, 1928, pag. 55 e segg. (In questo documento ci sono in embrione tutte le idee basi di Bakunin, questo oltre tutto smentisce la tesi centrale del libro di A. Romano). Vedi il punto “i” di tale documento.
  7. Si trovano in “Stato e Anarchia” op. cit. pag. 267 e segg.
  8. Nel documento del 1866 sopra citato è scritto “Ma secondo una legge inerente alla società, l’inugliaglianza di fatto produce sempre l’inuguaglianza di diritto e l’inuguaglianza sociale diventa necessariamente inuguaglianza politica”. Vedi “Stato e Anarchia” op. cit., pag. 322. Per il discorso di Basilea vedi T. Martello “Storia dell’Internazionale”, ed. Salmin, Padova, 1873, pag. 104.

Per informazioni sulle altre Letture (Malatesta, Kropotkin, Proudhon), sulla rivista anarchica “A”, sui numerosi nostri altri prodotti collaterali (compresi i Cd e il Dvd legati a Fabrizio De André), contattateci e/o visitate il nostro sito: Editrice A, cas. post. 17120, 20170 Milano, tel. 02 28 96 627, fax 02 28 00 12 71, email arivista@tin.it, sito arivista.org.