rivista anarchica
anno 34 n. 301
estate 2004


 

Delitti di una
scuola azienda

Per dare un giudizio articolato e compiuto sul presente bisognerebbe conoscere il futuro. Ciò che non è possibile alla politica o alle scienze sociali, lo è per la fantascienza socio-politica, disciplina per la quale il futuro è noto e conoscibilissimo, come dimostra il libro di Dario Molino (Itala scola. I delitti di una scuola azienda, Zero in condotta edizioni, Milano, 2004, pp. 124, euro 7,50). Dispiegate le ali al divenire storico, afferrato lo spirito del tempo attraverso la conquista di quello del futuro, l’autore c’introduce nel pieno di una scuola finalmente del tutto aziendalizzata, privatizzata, dopo una lunga, faticosa lotta di smantellamento del pubblico condotta dalle varie formazioni governative nelle varie combinazioni possibili (centro-centro, centro-sinistra, centro-centro-sinistra, centro-destra, destra centro-centro, centro-destra, meno destra, più centro-sinistra meno sinistra) attraverso setto o otto riforme consecutive. Alla fine i presidi, pardon i DS, – scritto per esteso, per favore (Dirigenti Scolastici) – da non confondersi con quelli della squadra D’Alema-Fassino, sono diventati davvero dei managers aziendali, degli imprenditori intrallazzati con finanziamenti esterni, quotazioni aziendali, spot pubblicitari e relativa vendita di spazi scolastici e didattici alla pubblicità dei prodotti delle ditte che finanziano la scuola. Circondati da una pletora di collaboratori, mediocri, zelanti, servili, ma disposti a tutto pur di partecipare alla divisione delle soglie del potere (e anche di qualche euro in più) diventando figure di sistema, uomini e donne dello staff dirigenziale. Un perfetto quadro dirigente aziendale, ben tracciato dall’autore, colto nella sue relazioni interne tra Dirigente Scolastico, responsabile amministrativo, impiegati della contabilità, procacciatori d’affari per l’azienda, banche e bancari, ditte, prof. cresciuti di ruolo e di stipendio attraverso l’acquisizione di nuove funzioni di indirizzo e di direzione dei propri ex colleghi, in attesa, finalmente, dell’ultima riforma che conclude il ciclo riformistico che ha investito la scuola italiana, quella che vede il licenziamento di tutti i professori da parte del Ministero dell’Istruzione (l’aggettivo pubblica è stato abolito ormai da anni) e il loro passaggio alle ditte convenzionate e private. In pratica, spiega il collega dello staff, al prof. “mantieni le stesse condizioni ma formalmente dipendi dalla… Scuolinvest”; noi invece, prosegue lo staffista, “rimaniamo alle dipendenze del ministero, a noi dello staff ci è stato accordato il livello direttivo”.
Un ambiente perfettamente aziendale anche nelle tresche amorose fra colleghi, dirigenti e figurine di sistema e segretarie precarie che si conquistano o mantengono così il loro posto di lavoro. Anche il tradimento fine a se stesso, la scappatella col collega d’ufficio, sono stati travolti dall’utilitarismo profittevole, in un processo di mercificazione delle emozioni, dei colpi di fulmine, delle botte di cuore che tutto travolge, razionalizza nell’ottica dello scambio freddo e mercantile. L’azienda, l’impresa, il mercato, le sue leggi eterne, hanno conquistato i cuori, i sentimenti, la didattica, le lezioni: quest’ultime sono interrotte da improvvisi spazi pubblicitari dei prodotti delle ditte che sponsorizzano e finanziano la scuola. Precedentemente l’interruzione pubblicitaria avveniva ogni ora con un “piccolo spazio pubblicità” di cinque minuti, poi questa tecnica è stata criticata e abbandonata a scapito dell’interruzione non programmata nel tempo, imprevista e improvvisa, perché in questo modo si cattura di più l’attenzione degli alunni, prima i cinque minuti, previsti e prevedibili, diventavano occasioni di svago, di perdita di tempo e di attenzione, una specie di intervallo a ripetizione. Ora invece, all’improvviso, l’aula si fa buia e da uno schermo fissato al muro partono gli spot pubblicitari, interrompendo compiti in classe, test, prove di recupero, verifiche a risposta multipla, aperta, semiaperta, “vero-falso”, interrogazioni, spiegazioni, letture.
È questo il quadro, lo sfondo di una scuola azienda torinese entro il quale si sviluppa la storia. L’incipit iniziale è di sicuro effetto nel suo estremo verismo linguistico: “Minchia prof, ha sentito l’ultima?”. Così un alunno si rivolge al suo insegnante di lettere per comunicargli che è stato ritrovato il cadavere di un collega assassinato nel laboratorio della scuola. “Minchia” un’espressione sempre più ricorrente nel linguaggio giovanile, accanto alla definitiva abolizione dei congiuntivi, che ha subito un vero e proprio slittamento semantico di significato nel tempo. Un po’ com’è accaduto per la parola riforme: delle pensioni, della sanità, della scuola ecc. Una parola che è diventata un’interazione, un intercalare nel discorso e nel ragionamento ad alta voce, assieme ad altre spesso riferite agli attributi sessuali.
Grande, naturalmente, è la disperazione dell’insegnante di lettere che non è riuscito a fare dei suoi alunni dei piccoli D’Annunzio nel campo linguistico e sintattico. Di D’Annunzio apprezzano, a scapito dell’arte di scrivere bene, con enfasi, suono, e precisione stilistica, gli aneddoti relativi alla sua vita sentimentale (meglio ancora se decisamente erotica), mentre “linguisticamente” si sentono più vicini a Carlo Emilio Gadda, per il quale, come ha insegnato loro il prof, l’uso del turpiloquio può essere opportunamente giustificato dall’occorrenza. Forse è per questo, che qualcuno tra quelli che ama ancora studiare e che ascolta il prof mentre spiega, apprezza il Dante dell’Inferno, soprattutto per via del suo linguaggio aspro. Anche lui, in fondo, si esprimeva in volgare (“Non è vero prof? L’ha detto lei, si ricorda?”).

Diego Giachetti

(P.s. Ritengo opportuno riferire anche il recapito della casa editrice del libro, per chi volesse ordinarlo direttamente: tel. 02 2551994, e-mail: zeroinc@tin.it)

 

 

Spia la vita
(reality show)

Spia la vita che non è là.
Spia la vita, chissà quale verrà
cosa succederà… forse paura
di una sorte oscura, di una temibile
ventura, creduta vera
per un attimo si spera distante
l’ambigua asfissiante malattia
che sai chiamarsi pazzia.
Spia la vita vene a’ ccà...
Scruta nel sordido pertugio
dal comodo rifugio, l’occhio
domestico di un opaco specchio
che trasmette… ah, se trasmette…
gambe, culi e tette
perché le strette della guerra
quotidiana amara e grama
devi averla ben lontana.
Spia la vita, reality show
dosa il coraggio, conservalo un po’
l’eroico messaggio televisivo
“una lacrima sul viso”, “un cuore
matto da legare”… dai… fammela
guardare… e poi… una candela
se la mangi tutta intera
può farti vincere il prime time
di sera… ci siamo allenati/alienati
per non essere eliminati
Spia la vita, non consumarla.
Guarda sfumarla in uno show.
la misera triste realtà
vacua mondanità nel credere importante
chi da te… sicuro… è distante
sebbene intrigante la sua sofferenza
per un domani cui brilla lucente
l’assenza di tutto… persino del niente.

Jules Élysard

 

Storia,
memoria, cultura

«Omaggio a Serantini»: la mostra del pittore Orio Melani ha aperto la settimana di celebrazioni per il venticinquennale della Biblioteca Franco Serantini di Pisa.

Lucchese di origine ma pisano d'adozione, Orio Melani è un personaggio noto negli ambienti della Toscana tirrenica, già animatore di una galleria d'arte nella Pisa degli anni Sessanta e poi autore di importanti opere di destinazione pubblica. Nato nel 1933 e attivo fin dalla metà degli anni Cinquanta, il pittore si è formato nel clima umano e politico della fabbrica e dell'impegno sindacale. Nelle sue opere emerge quel senso profondo di partecipazione totale alle problematiche sociali che fu caratteristica peculiare degli anni Sessanta e Settanta, anche se la sua pittura non si risolve mai, nemmeno nel caso di soggetti esplicitamente politici, in forme illustrative retoricamente realistiche; la forza del segno, al contrario, è sempre contraddistinta da una pennellata densa, animata, piena di sentimento.
Testimone diretto degli scontri del 5 maggio 1972, Orio Melani ha dedicato al caso Serantini un'opera importante come «I funerali dell'anarchico Serantini» (olio su tela, 2,10x3 m, 1975), esposto assieme a una ricca scelta di bozzetti e studi preparatori nella mostra «Omaggio a Serantini». I disegni e il quadro di Melani restituiscono il senso profondo della testimonianza dell'uomo e dell'artista, partecipe in prima persona della violenza, del dolore per il “figlio di nessuno” assassinato dalla polizia, dell'amore, della solidarietà, del bisogno di verità che mossero in strada quella folla che il pittore rappresenta.
Orio Melani ha donato le opere esposte alla Biblioteca Franco Serantini di Pisa, che ha curato l'allestimento della mostra. La Biblioteca, fondata nel 1979, è cresciuta negli anni proprio grazie all'impegno di tanti amici e compagni che hanno donato libri, giornali, riviste, opuscoli, manifesti e volantini, carte personali, ed è oggi una struttura conosciuta a livello internazionale come centro studi, archivio e centro di documentazione di storia sociale e contemporanea. Già in passato la Biblioteca aveva ricevuto opere pittoriche, stampe, incisioni, gessi e sculture, acquisendo così un patrimonio e una sensibilità artistici a partire dai quali erano stati organizzati eventi culturali e mostre, come il «Mail show War Des($)ert» del 1987, «Arte e anarchia, 1918-1980» del 1990 e «Una mostra per il/sul Chiapas» del 1997.
La donazione Melani è giunta in occasione delle celebrazioni per il venticinquesimo anno di attività della Biblioteca, e la mostra «Omaggio a Serantini» ha aperto un'intera settimana sulla storia, la memoria, la cultura degli anni Sessanta e Settanta. L'iniziativa del pittore richiama l'attenzione, ancora una volta, sull'importanza dei piccoli gesti, delle memorie e dell'impegno dei singoli che, raccolti e valorizzati nei luoghi e negli spazi della cultura, diventano informazioni e emozioni accessibili, tasselli di vissuto condivisi, per la memoria di tutti.

Serena Vitale

 

Ipermnesìa: progetti multimediali
per uno sviluppo anomalo della memoria...

Una tavola rotonda ha affrontato la questione delle fonti per la storia dei movimenti: manifesti e volantini degli anni Sessanta e Settanta on line sul sito della Biblioteca F. Serantini.

Gli archivi e centri di documentazione in qualche modo legati alla “stagione dei movimenti” sono depositari oggi di un tipo specialissimo e prezioso di materiali della memoria storica: riprese video, nastri, manoscritti, volantini, manifesti, striscioni, bollettini, numeri unici, fotografie, resoconti di assemblee, appunti, carte personali. Si tratta di testimonianze per loro stessa natura deperibili e insieme incredibilmente emozionanti, frammenti sparsi, a metà strada fra l'oralità e la comunicazione scritta, che quasi sempre arrivano negli archivi provenendo da scaffali dimenticati di sedi dismesse (di organizzazioni di cui oggi è difficile persino ricostruire la storia) o da soffitte di privati frequentatori (come allora si usava) delle assemblee d'istituto o dei comitati di quartiere.
Trattare questo tipo di fonti nei centri di documentazione non è semplice, perché non sempre si possono applicare le stesse regole di inventariazione, classificazione e conservazione che si usano per le biblioteche o gli archivi delle istituzioni; spesso bisogna tentare strade nuove, sperimentali, fra cui le diverse forme di riproduzione digitale occupano senz'altro un posto di primo piano. Molti volantini degli anni ’60-’70, ad esempio, già non si leggono quasi più, perché l'inchiostro da ciclostile che si usava allora è particolarmente deperibile; i manifesti, stampati su carta leggera da “attacchinare” e conservati ripiegati, tendono a strapparsi ogni volta che vengono stesi. Ciononostante (o forse anche per questo...) l'impatto iconico dei manifesti o gli slogan scritti a mano sui volantini conservano - pur nella riproduzione digitale - una forza comunicativa e una traccia storica talmente forti che non avrebbe senso lasciare questo materiale solo agli “storici di mestiere”, che poi producono visioni/versioni/narrazioni della storia inevitabilmente “mediate”. Solo partendo da un accesso diretto, non mediato alle fonti si può tentare, invece, un'ipotesi storiografica più avanzata: rintracciare i molti fili di un discorso orizzontale e plurale, di una storia che allora non era fatta solo dalle dirigenze ma anche – forse soprattutto – dai gruppi, dai comitati, dalle assemblee.
Per questo la scommessa del sito Ipermnesìa – archivio multimediale interno al sito della BFS (www.bfs.it/ipermnesia) – è tecnica e politica insieme: non solo i materiali sono stati inventariati e catalogati in maniera scientifica e rigorosa, accompagnati da dettagliate descrizioni dei fondi e da griglie “guida” come la suddivisione in aree tematiche e l’anagrafe dei gruppi citati, ma sono stati anche “messi in rete”, dove chiunque li può guardare, osservare e studiare direttamente e liberamente. E così, attraverso le foto di volantini ingialliti che scorrono sullo schermo, riprendono vita il “mercato rosso” al CEP di Pisa, le proteste delle commesse dell’UPIM, i dibattiti sulle questioni internazionali, la politica delle “autoriduzioni”, l’attivismo del movimento studentesco che cercava “operai e studenti uniti nella lotta”, mentre i colori e la grafica – innovativa per l’epoca – dei manifesti parlano con incredibile attualità di opposizione a tutte le guerre, campagne antinucleari, antifascismo e arresti arbitrari.
Nello “sforzo ipermnetico” a cui il sito fa riferimento, gli archivi e centri di documentazione della “stagione dei movimenti” hanno un ruolo fondamentale. Il progetto del sito Ipermnesìa è nato proprio all’interno di uno di questi centri di documentazione: la Biblioteca “F. Serantini” di Pisa, che possiede 65 fondi già censiti relativi a quegli anni, oltre a un vastissimo patrimonio librario e una ricca emeroteca. Il progetto, poi, si è sviluppato in maniera autonoma, coinvolgendo persone, risorse e competenze della BFS e di un “collettivo telematico” che si chiama FormeTemporali; senza finanziamenti e in un contesto di assoluta precarietà occupazionale, il sito Ipermnesìa è stato costruito in quasi due anni di “notti passate dormendo poco, ritagli di tempo e innumerevoli ritardi sul lavoro”, animati dalla forza incrollabile della passione per la memoria.
La digitalizzazione e la consultazione on-line dei materiali dovrebbero essere – nelle intenzioni dei curatori del sito – una maniera per avvicinare quante più persone possibile alla questione stessa della memoria, all’importanza della conservazione delle fonti, alle mille possibilità per la loro valorizzazione, in un percorso reciproco che dagli archivi porta al web e dal web rimanda agli archivi, agli scaffali, alle buste, a quel singolo volantino e a quello accanto, ai libri, alle registrazioni delle manifestazioni, alle interviste fatte a chi c’era. Perché la memoria – anche degli anni Sessanta e Settanta – torni a essere un patrimonio condiviso e fruito, discusso, studiato.
La tavola rotonda su Fonti, memoria, materiali: progetti multimediali per la storia dei movimenti a conclusione della settimana ha riunito gli archivi e centri di documentazione di movimento della Toscana e dell'Emilia Romagna per mettere in comune esperienze e, soprattutto, idee, spunti, riflessioni, progetti. Perché anche gli archivi, come tutti gli altri luoghi della memoria e della cultura, possano essere pensati, gestiti e fruiti come spazi aperti e accessibili.

Serena Vitale

 

 

Omosessualità
al confino

Dalla comunicazione di Lorenzo Benadusi alla Giornata di Studi su “Il confino di polizia 1926-1943: la repressione del dissenso sociale e politico nell’Italia fascista”, organizzata dalla Biblioteca F. Serantini, in collaborazione con ANPI Pisa e la Biblioteca della Casa della Donna di Pisa (Domus mazziniana, 31 gennaio 2004).

Il regime fascista durante il Ventennio si dedicò minuziosamente al tentativo di trasformare radicalmente le coscienze degli italiani, realizzando una sorta di “rivoluzione antropologica capace di rigenerare la nazione”. L’inevitabile conseguenza di questo progetto fu l’assoluta repressione di ogni e qualsiasi forma di dissenso, sociale e politico. Già nel 1923 Mussolini esprimeva con estrema chiarezza questa posizione fascista:

«Quando mancasse il consenso c’è la forza. Per tutti i provvedimenti anche i più duri che il Governo prenderà, metteremo i cittadini davanti a questo dilemma: o accettarli per alto spirito di patriottismo o subirli» (1).

La politicità integrale dell’esistenza, con l’intervento diretto anche nella sfera privata da parte di uno Stato che si voleva etico, doveva permettere al fascismo di trasformare processi mentali, stati d’animo, azioni, pensieri, stili di vita, comportamenti affettivi e sessuali, per uniformarli alle direttive del regime.
Il modello di mascolinità proposto dal fascismo permeò la cultura comune, e divenne un vero e proprio quadro di riferimento mentale e normativo: i confini “leciti” della condotta sessuale e dell’identità di genere – sia maschile che femminile – vennero tracciati in maniera netta e perentoria (2). Quanto più rigida diventava la definizione di norme e modelli di comportamento, tanto più – inevitabilmente – si allargavano le categorie della “devianza” e si inaspriva la persecuzione repressiva contro chi, non rispettando le regole, metteva in luce le contraddizioni della società. Tutti coloro che rifiutavano o intaccavano a qualsiasi titolo i “valori” dell’ideologia fascista venivano visti come ostacoli al mantenimento dell’ordine sociale e politico che il regime si impegnava ad istituire; gli elementi di criticità, quindi, dovevano essere esclusi dal mondo dei “normali”, emarginati attraverso una delle tante “istituzioni totalizzanti”. Carcere, manicomio, confino, istituto correzionale assumevano quindi una doppia valenza: pedagogica, attraverso la radicale trasformazione della personalità degli internati; repressiva, con l’isolamento degli individui che socialmente e politicamente “indesiderati” o non abbastanza integrati nella comunità.
L’omosessuale, pericoloso perturbatore dell’ordine nazionale, con la sua stessa esistenza metteva in discussione i valori fondamentali della nuova morale fascista; ledeva il prestigio nazionale con atti universalmente considerati perversi; rischiava di corrompere tutti coloro che potevano avvicinarlo; metteva a rischio l’avvenire della patria favorendo comportamenti che, limitando la crescita demografica, indebolivano la potenza della nazione; minava, insomma, la coesione interna del paese con la confusione dei ruoli sessuali.
Un’azione troppo vistosa contro gli omosessuali dediti al “turpe vizio”, però, rischiava di sortire un effetto negativo, dando visibilità a una piaga sociale lesiva dell’onore e del prestigio della nazione. I mezzi impiegati per la repressione dell’omosessualità, quindi, furono più spesso la censura, la prigionia, l’emarginazione o la negazione stessa dell’omosessualità. La “tolleranza repressiva” (3) del fascismo italiano verso gli omosessuali mirò a colpire sistematicamente ogni “anomalia” sessuale, cercando però di non suscitare scandali.
In base alla legge di Pubblica Sicurezza del 6 novembre 1926 n°1848 e al Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 18 giugno 1931 n. 773, la Polizia acquisì, in pratica, la facoltà di emarginare dalla società coloro che costituivano motivo di scandalo per il regime, tramite provvedimenti amministrativi di diffida, ammonizione o confino. Proprio il confino divenne allora lo strumento privilegiato dal fascismo reprimere silenziosamente l’omosessualità, proprio perché riusciva a colpire, con estrema facilità, tutti “coloro che per il sistema di vita disordinata od immorale si mettono fuori dal campo etico segnato dalla Legge senza però lederla direttamente, od anche scalfendola”.
Oltre all’esclusione dalla convivenza civile attraverso il confino, il regime usò anche altre forme, più sottili e pervasive, in questa guerra di basso profilo contro l’omosessualità. Attraverso la satira, la diffamazione, il controllo del parroco, del commissario di polizia, dei parenti e dei vicini si cercò di ottenere una repressione sociale totale, volta a isolare coloro che venivano considerati i “traditori della stirpe” (4). La ricostruzione delle vicende degli ammoniti, dei diffidati e dei confinati deve perciò essere affiancata allo studio di altre forme di persecuzione basate sulla morte civile, sulla derisione pubblica, sulla perdita del lavoro, sul diniego e sull’oltraggio, sulla violenza fisica.
Lo studio delle carte relative agli omosessuali mandati al confino permette di partire dalla repressione dell’omosessualità per cercare di mettere in luce i vari meccanismi della propaganda e della repressione utilizzati per creare un’identità maschile conforme ai presupposti dell’ideologia fascista. Diventa così possibile evidenziare quanto l’atteggiamento fascista nei confronti degli omosessuali fosse retaggio di una lunga tradizione precedente, e quanto a sua volta il fascismo favorì la sopravvivenza di uno stereotipo capace di confluire – senza grossi cambiamenti – nella successiva cultura repubblicana (5).

S. V.

    Note:

  1. B. Mussolini, Spirito della rivoluzione fascista, a cura di G.S. Spinetti, Hoepli, Milano 1937, p. 70.
  2. Cfr. G.L. Mosse, L’immagine dell’uomo. Lo stereotipo maschile nell’epoca moderna, Einaudi, Torino 1997.
  3. Cfr. G. Dall’Orto, La “tolleranza repressiva” dell’omosessualità. Quando un atteggiamento legale diviene tradizione, in ARCI gay nazionale (a cura di), Omosessuali e Stato, Cassero, Bologna 1988, pp. 37-57.
  4. Cfr. D. Petrosino, Traditori della stirpe. Il razzismo contro gli omosessuali nella stampa del fascismo, in A. Burgio e L. Casali (a cura di), Studi sul razzismo italiano, Il Mulino, Bologna 1996, pp. 89-107.
  5. Una trattazione estesa e dettagliata della persecuzione dell’omosessualità in epoca fascista a cura di Lorenzo Bendausi si può trovare sul numero 01/2004 della «Rivista storica dell’anarchismo» (BFS edizioni, Pisa), in uscita a giugno.

 

Il cielo è sempre più
blu

La saggistica è sempre stata un’esclusiva privilegiata degli accademici che l’hanno gestita a sostegno della cultura “alta”, elitaria, di regime. Certi generi artistici, ritenuti da questa casta, un sottoprodotto dell’ingegno, un cittadino di serie b del villaggio culturale, un bieco commercio di massa, oggi conoscono una rivendicata dignità di esistere proprio in quegli ambiti dove un tempo non avevano facile accesso. Nella saggistica, per l’appunto. Parliamo della canzone d’autore e dei “gruppi” musicali che hanno segnato la nostra epoca. Questa necessità di indagine testuale e sonora, nasce da un passato recente: gli anni Sessanta. Da quell’epoca radiosa ai nostri giorni cupi, sia i cantautori che i gruppi hanno vissuto un arco evolutivo tale da creare una svolta nel mondo della canzone. L’articoletto sbrigativo e frivolo sul giornale non corrispondeva più alla reale dimensione di questo fenomeno perché questi nuovi poeti della modernità, interagivano con le giovani generazioni, le loro problematiche, le loro ansie di rinnovamento sociale, le rivolte, le proteste e le proposte di una nuova etica universale. Pacifismo, antimilitarismo, anarchismo, o pura poesia lirica fluivano a profusione stabilendo con i ragazzi un rapporto di identificazione e solidarietà.
Senza dimenticare i padri europei della canzone poetica-libertaria del dopoguerra: Léo Ferré, Jacques Brel, Georges Brassens, Boris Vian, e molti altri. La saggistica italiana conta ormai numerosissimi titoli che analizzano il lavoro unitario di personalità come Tenco, De André, Paoli, Ciampi, De Gregori, Guccini, Gaber, ecc. Adesso, questo settore dell’editoria s’arricchisce di un altro saggista, il musicologo Alfredo Del Curatolo che ha pubblicato di recente il volume Se mai qualcuno capirà Rino Gaetano (Selene edizioni 2004) e che appartiene alla bella collana Distorsioni diretta eloquentemente da Marco Denti. La prima pagina istituzionale porta questo slogan: il rock’n’ roll è più rivoluzionario della rivoluzione (Sam Shepard, 1972) E a giudicare da come sono finite le rivoluzioni, non possiamo dargli torto.

Rino Gaetano

Rino Gaetano, dunque. Il cantautore di Crotone, perito tragicamente nel 1981 in un incidente stradale, e che proprio in questi mesi conosce una seconda vita discografica, viene qui esplorato da Del Curatolo con una profondità di argomentazioni che ben difficilmente un domani si potrà aggiungere qualcosa di più su questo artista. Il libro di Del Curatolo non solo esalta il talento scintillante del cantautore ma scopre nuove valenze sia di contenuto che musicali rimaste inevase nel tempo e che ora illuminano gli anfratti più reconditi di questa personalità troppo dimenticata. Rino Gaetano, in poco più di otto anni di attività frenetica, dal 1973 al 1981, anno funesto in cui perse la vita, scrisse memorabili canzoni innovative, visceralmente legate a quel contesto sociale e storico e ancora oggi attualissime. Precursore della canzone satirica, fabbro dell’ironia pesante, espressionista del sarcasmo provocatorio, i suoi testi attaccano tutti su tutti i fronti. Lui stesso si definì un Petrolini rock per quella sua capacità manipolatoria della parola, il gusto delle filastrocche con rime e assonanze, lo sberleffo del giullare che denuncia e insulta le malefatte dei potentati politici e mediatici che manovrano la testa collettiva come un tram di città. Ricordiamo le canzoni: “Il cielo è sempre più blu”, “Aida”, “Le beatitudini”, “Escluso il cane”, “Tu essenzialmente tu” ma soprattutto la bellissima, straziante, geniale “Mio fratello è figlio unico”. La sua teatralità beffarda di clima cabarettistico (nel senso più alto) ha i suoi referenti in Fo, Jannacci, Grillo. Partito dallo storico Folkstudio di Roma, ai tempi di Venditti e De Gregori, presto si slegò da quella matrice omologante per crearsi stirnerianamente una sua originale visione comico-dolorosa della società italiana d’allora, purtroppo tuttora valida. Questo libro è un atto di giustizia per un compagno anarcoide che diede fastidio a molti e che ancora oggi lo si può definire “un ridente molesto”.

Mauro Macario