rivista anarchica
anno 34 n. 302
ottobre 2004


anarchici

 

Odii di classe e amori profondi

Il dolore perfetto è un romanzo-mondo, un romanzo quanto mai ricco e complesso, dal quale emergono non soltanto delle storie, ma la storia, la storia di questa nostra Italia, dall’Unità ad oggi, che con i suoi tempi e le sue scansioni viene narrata in parallelo con le vicende anonime, eppure così emblematiche, degli anonimi protagonisti di una storia collettiva che appartiene a tutti noi. E per noi anarchici, che abbiamo l’opportunità, in queste pagine, di ripercorrere molti dei passaggi cruciali che hanno segnato la vita del nostro movimento, la lettura del romanzo non può che essere particolarmente coinvolgente.
Infatti, in questo suo lavoro, vincitore meritatamente dell’ultimo premio Strega (Il dolore perfetto, Mondadori, 2004), Ugo Riccarelli narra le vicende di due famiglie toscane, sovversiva l’una, piccolo borghese e conservatrice l’altra, i cui destini si intrecciano inestricabilmente, così come si intrecciano i destini e le vicende delle classi sociali del nostro paese. E, nella lunga storia che parte dal 1870 per arrivare a questi giorni, l’incontro fra la famiglia del Maestro e quella dei commercianti di maiali, incontro segnato da odii di classe e amori profondi, è anche lo scontro delle due Italie, delle due classi, che dopo i conflitti duri e drammatici della fine dell’ottocento e della nascita e dell’affermarsi del fascismo, sembrano ricomporsi nella pace sociale dei nostri giorni, quando le antiche asprezze della lotta vengono a stemperarsi nella pacata quotidianità dell’oggi.

Idee di redenzione sociale
È intorno al 1875 che il Maestro giunge al Colle, un piccolo paese come tanti, sospeso fra i paduli toscani non ancora bonificati e stravolti, nella loro millenaria quiete, dal fascismo. Viene da Sapri, ancora fresca delle imprese di Pisacane, e porta con sé le idee di redenzione sociale di Bakunin e Cafiero. Accolto con amore e rispetto dalla piccola comunità, trova l’amore nella vedova Bartoli, dolce e intelligente compagna di vita e di idee. Tra una peripezia e l’altra, tra un esilio, un periodo di clandestinità, un soggiorno nelle regie galere, nasceranno dalla loro unione quattro figli, quattro vite che portano nei nomi, Ideale, Mikhail, Libertà e Cafiero, le speranze e i progetti di un mondo migliore. E, forse proprio per questo, quattro vite destinate a spegnersi tragicamente, a pagare drammaticamente la coerenza loro e quella dei genitori. Intorno, un piccolo grande mondo di compagni, di sovversivi, di popolani istintivamente libertari, fedeli e solidali, che nella massima semplicità si rendono interpreti delle idee di rivolta e libertà che li animano. E vediamo così la Baronata, la colonia Cecilia di Giovanni Rossi, i tentativi insurrezionali di Costa e Malatesta, e le retate, la repressione, le guerre coloniali, Adua e la Libia, e i moti del 1898, quando a Milano il Maestro cade colpito dagli uomini di Bava Beccaris. Sarà Cafiero, il più giovane dei figli, concepito in uno dei rari momenti di libertà goduti dal Maestro negli ultimi anni di vita, a determinare l’incontro con la famiglia dei Bertorelli, scaltri commercianti di maiali, ancora intrisi della cultura contadina che li ha formati, ma inevitabilmente destinati, per censo e ricchezza, a divenire i futuri padroni del paese, gli esponenti della nascente borghesia, il brodo di coltura del fascismo. Tutti i componenti di questa famiglia portano nomi omerici: Sparta, Ettorre, Telemaco, Oreste, Paride..., quasi a segnare l’indissolubilità della loro origine e del loro “aulico” destino, e solo i figli di Rosa e Ulisse, Annina e Sole, marcheranno, nella diversità del nome, la capacità di sottrarsi al bizzarro conformismo famigliare. Il secolo nuovo, lungi dal garantire libertà e serenità, porta con sé le infamie del colonialismo, gli orrori della grande guerra, il mostro dell’epidemia di Spagnola, la nascita del fascismo. Non c’è tragedia che non colpisca anche le due famiglie, come non ci fu tragedia che non segnò drammaticamente l’Italia proletaria; ma le opportunità di riemergerne non saranno le stesse. Nel culmine del biennio rosso, Annina, perdutamente innamorata del suo Cafiero, per il quale ha rinnegato i legami con i Bertorelli, vede morire il suo amato assieme al fratello Ideale, entrambi uccisi dagli squadristi assoldati dagli zii, ed è così costretta a capitolare, accettando di dare il cognome che disprezza ai suoi tre figlioli, per non vederli ridotti alla fame. La famiglia del Maestro, dunque, la famiglia sovversiva, la stirpe proletaria e ribelle, sembra così sconfitta dal potere politico ed economico della nuova borghesia (i due zii Bertorelli sono ora il Podestà e l’industriale di Colle) e destinata ad annullarsi nel consenso di massa che il fascismo ha creato. Ma, come un fiume carsico, il tenace antagonismo di Annina, rimasta fedele al ricordo e alle idee di Cafiero, saprà ritrovare la strada per affermarsi e prendersi tutte le sue rivincite quando la guerra scatenata dal nazifascismo trascinerà alla rovina Mussolini e il suo regime. E negli anni di questo secondo dopoguerra, fino ai giorni nostri, troveranno la loro conclusione le vicende della famiglia Bertorelli e della famiglia del Maestro. I contrasti si smusseranno, le tensioni troveranno altri sfoghi che non nella politica e nello scontro sociale, ma le due anime continueranno a mantenere, anche se sommessamente, i loro caratteri originari.

Una continua metafora
Ho letto questo romanzo, avvincente e splendidamente scritto, come una grande metafora, una continua metafora che riflette, come spero di essere riuscito a spiegare, l’evoluzione della società italiana attraverso le trasformazioni e le storie di due famiglie “esemplari”: una proletaria, generosa, ribelle e sovversiva, e l’altra borghese, conservatrice e attenta solo agli interessi e al potere. Un’evoluzione destinata, sembra ricordarci l’autore, a trovare comunque un punto finale nel quale quell’umanità che contraddistingue ogni individuo verrà a prevalere sulle asprezze inevitabilmente determinate dalle condizioni sociali. È l’umanità, infatti – la profonda umanità, che segna i personaggi del romanzo – l’altra chiave di lettura di questa opera. Un’umanità fatta di indissolubili affetti fraterni, di amori sconfinati capaci di superare le tragedie della vita, di parole sommesse e racconti fantastici in grado di lenire quei continui “dolori perfetti” che si riflettono nel travaglio del parto e nella ineluttabilità della morte, di vite destinate ad affrontare con primitivo stoicismo le continue avversità che, inesorabili, spezzano esistenze che si vorrebbero felici. Ed emergono, da queste tragedie esistenziali, indimenticabili figure di donne, ferme e indomabili nella loro volontà di perpetuare la vita, quasi fossero loro il meccanismo del moto perpetuo che Ideale, il figlio dell’Annina, cerca inutilmente di creare negli ingranaggi di una macchina favolosa.
Un grande romanzo, dunque, un romanzo corale nel quale i protagonisti sono parte di una storia che li trascende, ricomponendo la loro individualità in una vicenda collettiva che ripercorre le vicende del nostro paese. Così come ripercorre, nella loro essenzialità, le vicende che hanno visto protagonista, in questi anni, anche il nostro movimento. E infatti il ritratto che Riccarelli traccia del Maestro e dei suoi figli si dilata per diventare il ritratto, la foto di gruppo dei tanti Maestri, Cafiero, Ideale e Libertà che hanno animato, e che ancora animano, il movimento anarchico in Italia.

Massimo Ortalli

Non riconosceva autorità
di Ugo Riccarelli

L’amore avvolse la vedova Bartoli e il Maestro in modo talmente inevitabile che nessuno, dal Colle fino alla Piana e oltre, si stupì mai di quell’unione che avrebbe invece potuto essere causa di pettegolezzi e chiacchiere d’ogni tipo, se non altro per la marcata differenza d’età degli amanti e, comunque, per lo scandalo che essa avrebbe potuto rappresentare visto che, nei molti anni del loro amore, anche quando nacquero figli e le difficoltà non mancarono, essi non manifestarono mai neppure la minima intenzione di regolarizzare quel rapporto attraverso il matrimonio.
Del resto, per le sue convinzioni anarchiche, il Maestro non riconosceva autorità né allo Stato né alla Chiesa e, in ogni caso, dal giorno della sua prima passeggiata assieme al giovane uomo, la vedova Bartoli non aveva mai fatto cenno alcuno all’eventualità di un loro matrimonio. Semplicemente, appena rientrati a casa sul far della sera, servita la cena ai pensionanti e finito di rigovernare, lei e il Maestro iniziarono la loro vita coniugale, dormendo nella camera matrimoniale e trasformando la vecchia stanza di lui in uno studio zeppo di carte e di libri che fu, per sempre, il rifugio tranquillo delle sue letture.
Nel tempo, quando la stazione fu terminata e la ferrovia si allungò ben oltre il Padule Lungo, verso altre pianure e altre città, i figli che nacquero dalla loro unione occuparono le stanze che erano state dei due capisquadra, e la casa vicino alle mura sembrò ringiovanire tra la confusione di quella insolita famiglia e l’amore che i due seppero sempre mantenere intatto.
In una camera dormiva Ideale, il loro primogenito, e in seguito vi dormì anche Mikhail, di diversi anni più giovane, mentre la più piccola, Libertà, avrebbe occupato la stanza accanto a quella di Bartolo che, molti anni più tardi, sarebbe stata di Cafiero.
I ragazzi crebbero respirando la serenità che la vedova seppe sempre manifestare, anche nei momenti più difficili che la vita riserbò loro, e nonostante le lunghe assenze del padre.
In quel paese arroccato sulla collina da secoli, avvolta dall’alone magico dell’amore tra la vedova Bartoli e il Maestro, la casa accanto alle mura fu, per molti anni, quasi un porto franco in cui la loro vita e quella dei figli poté svolgersi al riparo dalle malignità e dalle spietate regole delle istituzioni. Finché tra il Colle e il Padule il tempo scorse lento, la particolare indole degli abitanti di quei luoghi evitò ai due amanti ogni tipo di problema che sarebbe potuto sorgere da quell’unione e da quelle nascite al di fuori di ogni regola, soprattutto per chi, come il Maestro, doveva sostenere un ruolo così autorevole come quello di insegnante.
E anche quando la Storia e il Progresso arrivarono come una bufera sopra quella famiglia, pretendendo di dare una forma rigida a quello che era, in fondo, solamente il prodotto di un sogno, gli effetti devastanti provocati dal peso dell’ordine non riuscirono a cancellare completamente dalla memoria di Colle Alto il senso di felicità che l’unione di quelle persone aveva comunque generato.
Quando tutto fu stato, transitando nel punto dove al posto di una stazione di servizio un tempo sorgeva la casa accanto alle mura, i figli dei figli dei figli di chi aveva conosciuto da vicino quella felicità non riuscivano a trattenere un sorriso o una parola gentile verso il luogo dove s’era svolta una storia che i più ricordavano come una bella favola, come un momento di tranquilla luce nel turbinare dei loro giorni affrettati.
L’unico che all’epoca dei fatti ebbe qualcosa da ridire fu il parroco di San Venanzio, don Ubaldo, che una settimana circa dopo la nascita di Ideale, una sera con un tempo da lupi scese dalla canonica di fronte alla Rocca per benedire quella nuova pecorella, visto che nessuno della famiglia si era degnato di presentarsi a iscrivere la piccola anima al registro parrocchiale.

 

Lotta di poveri contro poveri
di Ugo Riccarelli

Il Maestro si affacciò alla finestra della sua stanza. La campagna della Camargue tremolava cotta dal calore di un sole spietato. Girando lo sguardo verso le saline vide brillare il mare sotto il filo dell’orizzonte, e gli sembrò il Padule Lungo.
Pensò al Colle, alla vedova, a Bartolo e Mikhail i cui volti, dopo tanti anni di lontananza, stavano diventando ricordi confusi, miraggi trasparenti come gli alberi che il calore stava sciogliendo nella pianura.
Andò al tavolo e prese tra le mani una lastra di metallo. La mosse leggermente, e la luce che filtrava dalla finestra disegnò sul dagherrotipo i lineamenti di quella giovane figlia che non aveva mai conosciuto. Quasi per una rivalsa sul destino, aveva deciso di chiamarla Libertà.
La fuga, l’esilio, la solitudine gli parvero come un sacrificio necessario a mantenere la propria libertà.
Il Maestro allora si sedette al tavolo e scrisse:

Mia adorata, dalla finestra di questa casa straniera vedo il filo del mare che luccica, come luccicava il Padule la sera in cui conobbi il vero amore. È sale che brucia su questa mia lontananza, sacrificio comunque essenziale per la mia e la vostra Libertà. Maniero mi informò degli ultimi arresti a Firenze, Bologna e Milano. Dunque la ragione della mia fuga, anche dopo tutto questo tempo, non fu insulsa e il sacrificio non vano. Rimane questa lontananza ch’io confido possa essere ormai alla fine. Un grande progetto mi sta prendendo il cuore, in quella piccola parte che l’amore per te lascia ancora libero. Mannuzzu giunse lo scorso venerdì in uno stato di eccitazione e di felicità che mai vidi nel nostro amico. E sì che ne passammo insieme, e in quante occasioni ci trovammo coinvolti tra entusiasmo, passione e paure! Lo calmai, lo feci accomodare di fronte a un bicchiere di buon vino ben fresco, e dunque finalmente egli mi mise a parte di un suo incontro con l’anarchico pisano Rossi, il quale verrebbe da incontrare un emissario dell’imperatore Pedro II del Brasile. Una storia strana questa, mia adorata, perché strano e curioso è il destino degli uomini, e le loro qualità, e i loro pensieri, il cui fondamento è spesso fondato sul mistero e sulla combinazione, qual è senz’altro il fatto che essendo l’imperatore a Milano a curarsi uno stato febbrile, molto fastidioso e maligno, il Rossi l’abbia contattato tramite il conte Mota-Maya, per esporre a questo sovrano, che si vuole aperto e liberale, il progetto della comunità anarchica di cui ti parlai, e che s’avrebbe da chiamare Cecilia. L’imperatore avrebbe accolto con piacere lo scritto del nostro Rossi, quello stesso "Un Comune socialista" che ti feci avere per mano di Maniero affinché fosse lettura pÈ ragazzi. Se l’imperatore accettasse la proposta, potrebbe facilmente donare il terreno necessario a iniziare l’edificazione di questa nuova società, laggiù, tra le terre brasiliane che si vogliono ampie, rigogliose, giovani e dunque ottime per dare linfa alla nuova vita che andiamo cercando. Adorata, non sembra dunque lontano il giorno in cui potremo realizzare il sogno di riunirci assieme, in libertà, senza costrizioni allo spirito nostro e dei nostri cari. Ti faccio avere questa mia tramite Maniero, che come sai è persona fidata e sicura. Ti metterà a parte anche dei modi per i quali, tra sei settimane, potremo finalmente incontrarci per due giorni nel luogo che tu sai, così come progettato. Amore mio, è quel momento, ormai, assieme alla fiducia nel mondo che costruiremo insieme, lo stimolo principale che mi convince a questo lavoro pesante e ingrato, tra questi francesi che trattano il fratello italiano come un reietto, disgraziato e infame. È lotta di poveri contro poveri, aizzati da chi ha interesse a separare i destini degli uomini, a rendere così dura e difficile la lotta verso la vera civiltà. Ma ora chiudo, pensando al nostro convegno: sarà esso di due giorni interi, dopo tempo immemorabile. Sarà esso il sogno. Lascio ai miei abbracci di allora il compito di raccontarti tutto il mio desiderio e il mio amore. Guardo dal dagherrotipo il volto di Libertà, e nel suo nome, e nei suoi lineamenti, vedo la donna che mi prese l’amore. Ora ti bacio e ti prego di portare a Bartolo il mio più affettuoso saluto. Hai fatto leggere la mia ultima a Ideale? Mi raccomando che consideri la lettura di Costa. Bacia Mikhail e la piccola Libertà con tutto il calore possibile dal loro padre lontano.
Il giorno in cui la polizia arrivò alla casa vicino le mura, la vedova Bartoli era intenta a cucinare. Fece accomodare chi stava cercando il suo uomo con la stessa cortesia con la quale, per anni, aveva accolto i compaesani che l’avevano aiutata ad affrontare una difficile solitudine.
L’ufficiale di polizia la interrogò con una certa freddezza:
«Dov’è?» chiese solamente.
«A curare suo padre moribondo» rispose la vedova.
L’ufficiale guardò le carte che aveva appoggiato sul tavolo:
«Sta morendo da sei anni?» disse con un tono sarcastico.
La donna non si scompose:
«È un uomo molto malato, e ha bisogno di tante cure.»
In quel momento entrò un militare, e gettò sul tavolo un fascio di lettere. L’ufficiale le guardò e sorrise.
Dalla porta verso la strada arrivarono altri militari con il piccolo Mikhail, Bartolo e Ideale.
L’ufficiale consultò le carte.
«Siamo qui in nome del Re d’Italia, per ristabilire l’ordine e la ragione» disse – quindi si volse verso i ragazzi, e con tono secco domandò:
«Chi di voi è figlio di Fosco Bartoli?»
Nessuno rispose.
L’ufficiale ebbe un moto di stizza. La vedova lo guardava sorridendo, non pareva nervosa né spaventata, mentre i suoi tre figli se ne stavano fermi, fissandolo dritto negli occhi. Il più grande teneva persino le mani in tasca. “Maleducati” pensò l’ufficiale, mentre dava un cenno al soldato per far mettere sull’attenti quei ragazzi.
«Chi di voi è figlio del Maestro?» domandò quasi urlando.
Tutti e tre risposero all’unisono:
«Io.»

Il fazzoletto rosso e nero
di Ugo Riccarelli

Non avrebbe saputo dire per quanto tempo camminò, e da che parte, chi incontrò e che cosa gli dissero. La prima cosa che il Maestro ricordò fu il viso di un vecchia in lacrime che in una lingua sconosciuta e strana lo supplicava, lo abbracciava, lo accarezzava.
Le mani della donna erano sporche di sangue, e lui pensò potesse essere il proprio, o forse quello di Maniero.
Sorrise.
La vecchia lo stava spingendo verso un portone. I soldati. Gli stava dicendo dei soldati che arrivavano. Gli stava dicendo di scappare.
Il Maestro si voltò e vide dei cavalli e un gruppo militari in fondo alla strada. Stavano andando nella direzione opposta e non si sarebbero accorti di lui. Ringraziò la vecchia, le diede una carezza e la salutò nel dialetto di Sapri. Poi si voltò, e a passo lesto si diresse dove erano i soldati.
Non sapeva con precisione che cosa avrebbe fatto. Pensava a Maniero e a quegli altri volati in pezzi, vedeva le divise colorate, i cavalli e forse anche i cannoni. In quei trecento metri per la testa del Maestro passarono molte cose. La casa del Colle, e il volto del fattore che ce lo aveva accompagnato. Marx, Ricardo, Bakunin, la teoria del plusvalore e la miseria dei popoli. Una pagina di Feuerbach, chiara e nitida, e il volto di una ragazza che aveva amato in un fienile, ma non ne ricordò il nome. Le ruote e i treni, e la prima volta che aveva toccato la mano di suo figlio Ideale, appena nato. Vide di fronte a sé delle parole e pensò a un discorso, forte e diretto. La forza della vita, la disperazione degli oppressi, il colore del sangue, le urla, ubbidire, ribellarsi. Tutto gli sembrò, in quell’istante, talmente chiaro e banale da far male. Come avrebbero potuto non capire?
Ne fu sicuro e accelerò il passo, cosicché quando arrivò vicino ai soldati potremmo dire che quasi correva.
A pochi metri dal drappello vide Maniero assieme a Libertà che lo teneva per mano. Pareva stessero salendo su un barcone attraccato alla banchina.
"Salpano per Cecilia" pensò il Maestro, e un sorriso di sollievo gli si spalancò sul volto. Il Sud America, la nuova società libera per uomini liberi e senza sfruttamento.
Il Maestro alzò le braccia verso il cielo e con tutto il fiato che aveva in gola cercò di attirare l’attenzione della figlia e dell’amico. Mise la mano in tasca per estrarre il fazzoletto nero e rosso che lei gli aveva regalato.
«Libertà» urlò.

La strada terminava in una banchina sul Naviglio, e un gruppo di militari si stava accostando a un barcone per caricarvi armi e cavalli.
Qualcuno di loro vide un uomo solo arrivare a passo di corsa, l’espressione stravolta e la camicia insanguinata. All’ufficiale dissero poi che pareva un pazzo, così di fretta, scarmigliato e lercio di sangue, e urlando "Libertà" a squarciagola.
Un soldato, superato di slancio, vide che l’uomo stava estraendo qualcosa da una tasca. Si girò, impugnò il fucile e fece fuoco. L’indemoniato proseguì la corsa ancora per qualche metro poi cadde riverso, in avanti, sulla sabbia, le mani protese come se stesse tentando di fuggire tuffandosi nel Naviglio.
Dagli accertamenti risultò essere schedato agli archivi giudiziari come sovversivo. Un anarchico, noto col soprannome di Maestro.

Accanto a Libertà e Ideale
di Ugo Riccarelli

Se dunque furono le parole della Maddalena ad aiutarlo a nascere, quelle dell’Annina e di Cafiero lo nutrirono di quanto il suo cuore necessitava per rafforzarsi e affrontare la vita che lo aspettava fuori dalla casa vicino alle mura. Una vita che non esitò a dimostrarsi in tutta la sua durezza, innanzitutto per le difficoltà economiche e poi per la continua persecuzione che Soldani e i suoi sgherri riservarono al figlio del Maestro. Non c’era occasione, in fatti, in cui Cafiero non subisse minacce, intimidazioni o controlli. Durante le visite al Colle e nelle città vicine di notabili o funzionari governativi di spicco, veniva inoltre costretto a presentarsi presso il Comando dei Carabinieri per essere interrogato e trattenuto a scopo preventivo.
E una sera, la stessa del giorno in cui l’anarchico Lucetti attentò alla vita del Duce di Roma, l’Annina, non vedendo tornare Cafiero dal Padule, ormai a buio fatto gli scese incontro lungo la strada con un presentimento angoscioso nel petto. Attorno tutto improvvisamente le parve deserto, con un’immobilità che non preannunciava nulla di buono. Iniziò a piovere, e sotto quel pianto del cielo lei si sentì altrettanto disperata. Ben oltre la fornace vide la bicicletta di Cafiero a terra, accanto al muro. La raccolse e si aggrappò a quel ferro nero come a una speranza, poi chiamò, urlò, mischiò le sue lacrime a quelle della pioggia, riprese a scendere verso il Padule e prima del canale grande lo vide, seduto accanto a un paracarro. Allora lasciò andare la bicicletta e si precipitò da lui, e gli asciugò il sangue con le mani, e gli baciò gli occhi chiusi dalle botte, gli carezzò le mani scorticate, e pure se lei era uno scricciolo e lui una montagna di roccia ormai spezzata riuscì a sollevarlo e ad appoggiarselo alle spalle, a convincerlo con le parole più dolci a muovere lentamente le gambe, un passo alla volta, un bacio dopo l’altro, e in quel modo, come una pietà scolpita da un artista pazzo e crudele, si riportò a casa quello che restava del suo uomo, urlando nella pioggia contro Soldani e il Duce, contro il Re e quel farabutto di Telemaco, e contro la viltà di quelli che se ne stavano chiusi in casa a lasciar morire libertà e compassione che ormai nessuno più conosceva, animali vigliacchi che non erano altro.
Da sola portò al riparo Cafiero, lo asciugò, gli medicò le ferite, gli preparò una tazza di vino bollente addolcito da miele e da cannella e poi lo mise a letto come un suo bambino, ed ebbe per lui e per le sue ferite lo stesso amore che aveva per i loro figli. Gli si stese accanto, nel buio, e ascoltò il suo respiro aspro, sussultò per ogni suo gemito, raccolse ogni suo lamento. Sentì la sua pelle da fredda diventare tiepida e poi bollente come un tizzone, gli bagnò le labbra secche e pregò, desiderò d’esser lei a soffrire, a morire, a sobbarcarsi quella pena insopportabile, lo cullò per tutta quella notte d’agonia stringendolo forte per impedirgli di arrendersi, di aggrapparsi a un altro sogno e andarsene lontano come avevano fatto la Rosa, l’Ulisse, e la Mena, e Sole, e tutti quelli a cui lei aveva voluto bene.
Lo strinse, lo tenne abbracciato così a lungo e così forte che la mattina il Nardo e la Morena dovettero staccarle a fatica le braccia da quel corpo ormai gelato, per poi accompagnarlo verso la Piana, in corteo con gli altri amici del Padule, a regalargli un tempo più lieve, perché riposasse per sempre accanto a Libertà e Ideale nel piccolo cimitero della Pieve.

Brani tratti da: Ugo Riccarelli, Il dolore perfetto, Mondadori, Milano 2004.