rivista anarchica
anno 35 n. 309
giugno 2005


depauperamento

Costruiamo il sol dell’avvenire
di Andrea Papi

Gli anarchici sono considerati potenziali produttori di caos, in realtà i produttori di caos sono i sistemi autoritari in politica e capitalisti in economia.


Il mondo in cui siamo immessi non suggerisce nulla di buono, per lo meno dal punto di vista di un anarchico. Non solo non suggerisce, soprattutto, almeno ad uno sguardo immediato di primo acchito, non fa presupporre nulla che ci faccia respirare con gioia a pieni polmoni, rigenerandoci come ci piacerebbe con emozioni di speranza. Il clima che ci sovrasta ci giunge tetro e plumbeo, riproducendo giorno dopo giorno la vacuità di senso dell’agire quotidiano che ad ogni latitudine sembra attanagliare le genti.
Nelle relazioni fra gli stati di un mondo sempre più globalizzato incombe sovrana la logica di guerra, spudoratamente contraddicendo la snervante declamazione di continue dichiarazioni di pace. L’habitat naturale in cui tutte le specie viventi coesistono tra alterne vicende da milioni di anni è costantemente minacciato dalla nevrotica operosità della nostra specie, la quale con sconcertante incoscienza non sembra né essere capace né aver intenzione di por fine alla devastazione che sta portando avanti da secoli con superba pervicacia. Siamo tutti sottomessi, nolenti o volenti, alle regole non scritte di un gioco economico che s’impone su tutto il globo, il cui scopo è quello di arricchire fino all’inverosimile i più furbi e spregiudicati a detrimento di tutti gli altri esseri umani, dei quali alcuni riescono a cavicchiarsela arrancando mentre enormi masse di persone sono costrette a sopravvivere in miseria o a perire di fame. I governi che guidano gli stati, in modi diversi anche se tutti simili, si arrabattano per mantenere e gestire questo stato di cose. I potenti di turno dirigono il tutto, usano il loro potere per annettersi privilegi e ricchezze, s’impongono con la prepotenza che proviene loro dal dominio che riescono ad esercitare. Ovunque, in modi più o meno preponderanti e devastanti, incombono prevaricazioni, corruzioni, privilegi, diseguaglianze e ingiustizie al limite dell’umana sopportazione
Una situazione desolante. Chi non la vede così è perché ha la vista in qualche modo offuscata, magari senza rendersene conto. O perché è tutto preso dai propri problemi e interessi. O perché getta uno sguardo limitato al proprio specifico contesto, o di famiglia o di campanile o nazionale o di partito o di chiesa. Oppure, com’è nella maggioranza dei casi, perché non riesce e non vuole guardare oltre l’ambito di per sé limitato dello specifico umano, tralasciando per inconsapevole comodo di visione tutte le miserie, le debolezze, le meschinerie, gli egoismi e le cattiverie che sono tipiche della nostra specie, le quali in questa fase della presenza umana sulla terra hanno acquistato una prevalenza strabordante rispetto ad altri aspetti di sé, che pure sono presenti.

Denaro come scopo

Tutta la condizione umana sulla terra ruota attorno al denaro, come simbolo, come scopo, come causa fondamentale e condizionante. Siamo ridotti a un punto tale che la massima parte delle scelte e del fare che contraddistingue le azioni e il modo di esserci umano deriva incontestabilmente dal bisogno di guadagnare o di accumulare ricchezze.
Quando ciò che si fa non è dettato dalla spinta di presunte necessità di benessere economico e agiatezza, le scelte sono determinate dai bisogni d’imporsi, di possedere, di comandare, di avere cioè potere sugli altri e sulle cose. Comunque sia, comunque vogliamo rigirare la frittata, in entrambi i casi le motivazioni dell’agire umano alla lunga prevalenti sono strettamente legate a pulsioni di dominio, cioè a spinte di potere impositivo.
In questo contesto socio-politico-economico, sia avere denaro e capitali sia avere forza, legittimità e autorevolezza di comando vuol dire a tutti gli effetti avere potere e contare, purtroppo sempre a detrimento di e contro tutti gli altri che ne sono privi e che devono subire chi ce l’ha.
Basta seguire un minimo il dibattito politico di casa nostra, ci si rende conto che il problema fondamentale e la spinta conseguente a migliorare attorno a cui ruota il tutto sono dettati dal bisogno, supposto e diventato assiomatico, di essere competitivi sui mercati internazionali, dove competitivo significa riuscire ad essere padroni dei mercati per incamerare la maggior quantità di profitti. Il beneficio conseguente al guadagno dei profitti incamerati, quando ci sono, è esclusivamente a vantaggio dei gestori dei capitali, che sistematicamente investono finanziariamente speculando su rendite e introiti.
Le ricadute di rimando sull’occupazione (cioè su tutti coloro che con le loro competenze e il loro sudore rendono possibili le operazioni degli speculatori), quando ci sono, sono minime rispetto ai veri benefici finanziari, che di fatto non possono essere goduti da chi lavora rendendoli possibili.
Quando in questa situazione sociale si parla di rilancio degli investimenti e di rilancio economico non si può parlare che di aumentare il potere economico di chi già lo possiede, in quanto le condizioni dei normali cittadini per principio sono nelle mani di chi ha il potere di imporre e disporre della vita di tutti gli altri.
La bravura di un governo istituzionale si misura proprio sulla capacità che dimostra nel riuscire a far funzionare le cose secondo i presupposti suddetti. Ne consegue che da questo punto di vista non è possibile identificare differenze sostanziali tra una politica di destra ed una sinistra, tra una politica di centrodestra ed una di centrosinistra, dal momento che tutti chiedono il voto e decidono in funzione di far funzionare al meglio il sistema vigente. Siamo entrati in una democrazia fluida, asserisce con lucidità Ilvo Diamanti (1), per indicare che gli elettori, sempre meno condizionati nelle loro scelte elettorali da ideologie e differenze di visione, ma sempre più alla ricerca di chi sa governare bene ciò che c’è, unico sistema conosciuto che ci viene concesso, ossessivamente e continuamente contrabbandato come l’unico possibile, tendono sempre più a votare per chi sperano che li governerà meglio. La collocazione politica dei candidati è ormai indifferente.
E giustamente! Che cosa importa, infatti, che siano di destra, di sinistra o di centro quando, oltre ad esercitarsi nei giochi di potere che ogni incarico governativo inevitabilmente comporta, una volta incaricati non faranno altro che tentare di gestire l’esistente con l’unico scopo di conservarlo e di renderlo più accattivante, lungi dal metterlo seriamente in discussione?

Accanimento terapeutico

Nel dibattito estenuante ed avvilente che se ne ha attraverso il costante bombardamento mediatico si elude così sistematicamente il problema principale e fondamentale: se cioè hanno veramente senso i tentativi di accanimento terapeutico per la conservazione del sistema economico e politico che ci sovrasta. È significativo in proposito che tutte le forze politiche, in una maniera o nell’altra, in modo destrorso o sinistrorso, si propongano come riformatrici e nessuna tenti più di farsi accreditare come conservatrice.
Ciò che difendono pervicacemente è ormai unanimemente considerato inadatto a risolvere efficacemente i problemi delle comunità e delle relazioni tra comunità, per cui tutti si pongono il problema di riformarlo, nell’illusione, aggiungo io, di renderlo operativamente più capace di assolvere i compiti cui si propaganda sia chiamato. Ma tutti al contempo eludono il problema di fondo: che è ormai sotto gli occhi di chiunque, di chi sa e vuol guardare con disincanto e senza essere offuscato, che c’è un’incapacità insita ed endemica del sistema in sé di poter risolvere in modo adeguato i problemi prodotti da lui stesso, proprio per la sostanza di cui è fatto e di cui si nutre.
Ora ci rendiamo perfettamente conto che la conservazione e il mantenimento del sistema vigente hanno senso a tutti gli effetti per le classi dirigenti (manager d’industria, vertici dell’imprenditoria, gestori dei media, speculatori finanziari, dirigenze politiche e sindacali, capi di governo, comandi militari, gerarchie religiose, ecc.), uniche a trarne benefici più o meno grandi a seconda del grado di comando che occupano. È per questo che sono alla costante ricerca di seguito e organizzano una continua e insistente opera d’induzione, oggi soprattutto mediatica, per garantirsi quel consenso che è vitale e indispensabile per il proseguimento del loro status sociale di privilegio.
La massa dei cittadini è invece esclusa dai veri benefici. È considerata ed usata come massa di manovra: per incrementare gli utili attraverso il consumo di mercato, per fabbricare il consenso ed essere forza d’urto col voto per le leadership al comando. A rigor di logica questa massa avrebbe tutto l’interesse ad un cambiamento radicale, mentre, attraverso l’incessante induzione mediatica e il ricatto del bisogno di sopravvivenza, i detentori del potere riescono a tenerla sotto il tallone.
Il sistema che ci sovrasta, che subiamo nelle sue efferatezze, nelle sue ingiustizie e nelle sue continue crudeltà, al di là di ogni evidenza in realtà si regge sulla finzione e in buona parte su non sensi. Si autogiustifica con una finzione teorica, una mastodontica balla che ne sta a monte: le note mani invisibili smithiane.
Secondo Smith l’agire per l’interesse individualistico comporterebbe di per sé una ricaduta positiva sul e per il bene comune: se tendo ad arricchirmi e per farlo produco ricchezza e prodotti, dal momento che posso farlo usufruendo del lavoro e del consumo di tanti, il mio agire non può che avere una ricaduta positiva sull’intera società, che di conseguenza ne goderà aumentando il benessere di tutti.
Un tale assunto alla prova dei fatti non si è dimostrato altro che una colossale balla. Non solo l’arricchimento personale non rappresenta un fattore di dilatazione ed espansione del benessere collettivo, ma al contrario si è dimostrato un fattore di impedimento dello stesso, oltre ad essere una delle cause fondamentali dell’impoverimento progressivo di chi vive del solo proprio salario e dell’immiserimento endemico di almeno due terzi dell’umanità esistente.
La spinta personale ad arricchirsi attraverso lo sfruttamento di altri esseri umani, fondamento del capitalismo imperante, e la trasformazione di ogni prodotto ed ogni cosa in merci, fondamento del mercato capitalista, hanno determinato una prevalenza quasi assoluta dell’egoismo individuale dei più forti e spregiudicati a detrimento della solidarietà sociale, determinando in parallelo l’annichilimento e lo schiacciamento dei più elementari diritti umani di tutti coloro, genti e popoli, che o non hanno voglia o non sono in grado di diventare imprenditori di successo e di far parte delle lobbies dei potenti.

Presunta supremazia

La logica liberista dominante, forgiatasi nell’autoconvinzione della propria presunta supremazia universalistica, è riuscita a globalizzare il mercato coi suoi potenti tentacoli finanziari, economici, politici, culturali e bellici e, forte nella convinzione delle proprie micidiali armi, si sta illudendo di aver piegato i destini e le volontà del mondo.
Con la sua capacità d’induzione è riuscita ad imporre un immaginario economico fondato sull’impresa personalistica, sul mito del progresso, sul dominio delle persone e della natura, sul culto della razionalità pragmatica, sulla voglia di accaparramento individualistico delle finanze e delle risorse, sul perseguimento a tutti costi di potere e dell’aumento di potere. A tutti gli effetti ha creato una mostruosità, che si nutre famelica e vorace di disparità, ingiustizie e prevaricazioni, con la precisa volontà di inglobarci e condurci all’impotenza. Di rimando sentiamo perciò sempre di più il bisogno di destrutturare quest’immaginario dominante, di decolonizzarlo liberando le potenzialità e le capacità del più ampio immaginario umano per sperimentare e, sperimentando, creare altri tipi di economia e di rapporti sociali e politici.
Noi che non facciamo parte di nessuna élite di nessun potere ci sentiamo a disagio e ci sta aumentando il bisogno, più o meno consapevole, di arrestare e bloccare questa invenzione mostruosa che ha messo in moto le componenti peggiori della specie e che sembra inarrestabile.
Il nostro disagio trova conforto ed è confermato nelle sue ragioni dalla consapevolezza che il capitalismo in auge è in sé insensato perché, ormai ne abbiamo la conferma scientifica, non è sostenibile. Propugna, auspica e si fonda, infatti, sull’uso incondizionato e spropositato delle risorse naturali, senza preoccuparsi dell’inarrestabile depauperamento delle stesse fino al loro esaurimento.
Dovendo realizzare un costante aumento di profitti e di accumulazione finanziaria per dominare i mercati, per questa sua ineludibile ragion d’essere non può e non vuole minimamente preoccuparsi dello sfascio ambientale che provoca mettendo in crisi gli equilibri naturali.
Con sempre maggiore preoccupazione gli scienziati, i climatologi, i geologi, i naturalisti denunciano che, se non verrà arrestata questa folle e sconsiderata corsa all’accaparramento delle risorse naturali e se non verrà bloccata l’immissione di veleni nella biosfera, non è lontano il tempo in cui il danno sarà irreversibile e sarà per sempre messa in discussione la presenza di tutte le forme di vita sulla terra.
Il 20% della popolazione mondiale consuma attualmente circa l’80% delle risorse disponibili. Se malauguratamente il capitalismo dovesse mantenere le sue promesse di consumo elargito a tutti, se quindi tutti dovessero consumare quanto consuma l’attuale 20%, come sarebbe loro diritto, questo pianeta sarebbe del tutto insufficiente.
Ci vorrebbero almeno quattro pianeti, forse sei. È per questo che si conservano grandi sacche di povertà e miseria e si rinuncia a rendere floride grandi aree di mercato, che pure dal punto di vista del profitto sarebbero appetibili.
È intuitivo il non senso che sopra denunciavo. Il sistema che ci sovrasta è incompatibile con la disponibilità delle risorse, con la quantità della popolazione, con gli equilibri ecologici ambientali. Essendo incompatibile è basato su fondamenti che alla lunga non possono reggere e, se continua la linea di tendenza attuale che oggi appare inarrestabile, non può che naufragare. Naufragando, non può che condurci al disastro.
C’è un aspetto che generalmente vien poco considerato se non addirittura eluso, ma che riveste un’importanza di non poco conto: avendo bisogno d’imporsi, il sistema capitalista si regge su sistemi politici impositivi, o chiaramente totalitari o dittatoriali, od anche democratici, che però, per conservare l’esistente, includono progressivamente pratiche sempre meno democratiche e liberticide.
C’è di fatto insomma una coincidenza ricorrente tra il bisogno impositivo a monte del sistema capitalista e la gestione politica autoritaria che lo accompagna e lo garantisce. L’uno è salvaguardia, tutela e conseguenza dell’altro e viceversa. Se si vuole il cambiamento dell’uno bisogna occuparsi di conseguenza anche del cambiamento dell’altro.
Logica vorrebbe che sia urgente un cambiamento alle radici del sistema di cose presente. E non può essere una modifica di facciata o una semplice riforma dell’esistente che, pur modificandolo anche in profondità, non intacchi però i gangli vitali che lo sorreggono. Il cambiamento deve realmente essere alle radici, nel senso e nelle strutture, proprio perché per diventare sostenibili è diventato indispensabile modificare l’immaginario economico e gestionale che regola le relazioni tra noi stessi e l’ambiente che ci ospita.

Nessun processo di accumulazione

Guardiamo gli ecosistemi. Il loro equilibrio interno è perfettamente funzionale al mantenimento dell’assetto omeostatico dei differenti organismi e di quello geostatico, indispensabili per garantire la continuità della molteplicità e della ricchezza biologiche e dello stesso ecosistema. Non vi sono stratificazioni gerarchiche.
Il rapporto tra le diverse componenti è paritario ed ognuna di esse prende la quantità di energia che serve al suo sostentamento senza determinare imposizioni di sorta. Non vi sono processi di accumulazione oltre l’indispensabile dovuti a volontà di speculazione. Questo equilibrio ha permesso la continuazione in efficienza delle specie viventi per milioni di anni. È bastato che noi umani ci sentissimo padroni del tutto, capaci d’intervenire con la nostra voracità allo scopo di modificare gli assetti, per innestare un processo di deterioramento che rompe gli equilibri e mette in serio pericolo la nostra stessa condizione e quella di tutta la superficie terrestre.
Non dico che doppiamo copiare dagli ecosistemi, la qual cosa non avrebbe senso perché le dinamiche naturali non sono riproducibili come fotocopie, ma che dovremmo comprenderne appieno il senso e farne tesoro per riproporlo al nostro interno e nella qualità delle relazioni tra noi stessi e il resto del mondo.
Dovremmo così porci nell’ottica di gestire le società col presupposto della reciprocità e di un’autentica valorizzazione delle diversità su un piano di rapporti paritari, come appunto avviene negli ecosistemi. Ma dovremmo anche smettere di porci con egoistico spirito di depredazione nei confronti del contesto ambientale di cui siamo parte integrante.
Su questi piani di riflessione gli anarchici hanno molto da dire e da proporre. Dovrebbero solo essere ascoltati e considerati molto di più di quello che si è fatto finora, senza continuare a ritenerli esclusivamente dei potenziali produttori di caos (in realtà mi sembra che se ci sono dei produttori di caos per eccellenza siano proprio i sistemi autoritari in politica e capitalisti in economia).
Dal canto nostro noi anarchici, proprio per riuscire ad essere considerati ed ascoltati, dovremmo sforzarci di cominciare a mettere in pratica il più possibile i nostri metodi e le nostre proposte, fiduciosi di poter diventare un polo di attrazione capace di dilatarsi all’insieme sociale, smettendo di attendere la fatale alba del sol dell’avvenire, che fra l’altro viene progressivamente distrutta da coloro che contestiamo e vorremmo detronizzare.

Andrea Papi

1. Ilvo Diamanti, La democrazia fluida, la Repubblica, domenica 24 aprile 2005, pagg. 1 e 22.