Passeggiando per le strade di Barcellona, Canzi scopre che la “Barcelona rebelde”, la capitale europea delle barricate, non assomiglia più alla città conosciuta sette mesi prima. Se si escludono i miliziani in licenza dal fronte, sono scomparsi gli uomini e le donne che indossavano la tuta operaia: sulle Ramblas si incontrano persone eleganti, sedute ai tavolini dei caffè o nei ristoranti, servite da camerieri ossequiosi. Nei negozi del centro si trova ogni ben di dio: in compenso non è raro vedere nei quartieri operai lunghe code di donne in attesa di comprare il pane e i generi di prima necessità. Le ronde dei miliziani sono state sostituite da drappelli di Guardias de Asalto e Carabineros, vestiti con divise fiammanti e forniti di moderne armi automatiche di fabbricazione sovietica. Il clima che si respira non è più quello euforico e un po' austero del suo primo arrivo a Barcellona: una tensione greve aleggia nell'aria. Nel mese d'aprile si erano verificati scontri isolati tra militanti del PSUC e poliziotti da una parte e anarchici e comunisti del POUM dall'altra, e c'erano stati i primi morti. Berneri, dalle colonne di “Guerra di classe”, aveva ammonito: “Tra Burgos e Madrid c'è Barcellona! Che i Goded (generale golpista alleato di Franco, N.d.R.) di Mosca se lo ricordino!”.
Per timore di gravi incidenti la CNT e l'UGT, il sindacato social comunista decidono addirittura di sospendere la tradizionale manifestazione del Primo Maggio.
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Emilio Canzi |
Fazzoletti della CNT
Lunedì 3 maggio la situazione precipita. Alle 15 due camion di Guardias de Asalto, guidate da Rodriguez Sala dirigente del PSUC, fanno irruzione alla centrale telefonica di Plaça de Catalunya, occupata e autogestita dagli impiegati e dagli operai della CNT fin dai giorni della resistenza vittoriosa sui golpisti. La risposta è spontanea e immediata: dai quartieri operai della città i militanti della CNT e del POUM reagiscono alzando barricate. Si comincia a sparare.
Per due giorni gli scontri armati continuano. Da una parte sono i reparti delle Guardias de Asalto, i comunisti del PSUC e i militanti della Esquerra Republicana; dall'altra gli anarchici e i comunisti eretici del POUM. “Il PSUC e il governo controllano i quartieri a sinistra delle Ramblas, a partire da Plaça de Cataluña; gli anarchici controllano quelli a destra. I sobborghi sono tutti con la CNT”.
Garcia Oliver e gli altri dirigenti della CNT cercano di negoziare un cessate il fuoco per mettere fine agli scontri, il cui protrarsi porterebbe ad una catastrofe. Mercoledì 5 maggio viene raggiunta una tregua ma è di breve durata; gli scontri armati riprendono, finché il 7 maggio viene raggiunto un accordo e la lotta fratricida ha termine. Il bilancio è di quattrocento morti e centinaia di feriti: il prezzo più alto viene pagato dagli anarchici. Molti di loro sono stati presi, proditoriamente fucilati e seppelliti in fosse comuni: tra loro c'è anche Domingo Ascaso.
Il governo centrale invia a Barcellona cinquemila Guardias de Asalto per garantire l'“ordine”: di fatto è la fine dell'autonomia della Catalogna.
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Camillo Berneri |
In queste giornate anche gli italiani pagano il loro tributo di sangue. Il 4 maggio, in via Layetana, nei pressi dell'Hotel Suizo, vengono trucidati Adriano Ferrari e Renzo De Peretti, due miliziani ventiduenni in licenza dal fronte d'Aragona. L'episodio è riferito da “Il Risveglio”: sono fatti uscire disarmati e a mani alzate dall'albergo in cui alloggiavano, e come segno di “tradimento” portavano al collo fazzoletti con i colori della CNT. Al grido: “Sono della Colonna Durruti: fuoco!”, cadono a terra crivellati da colpi di fucile.
Il 6 maggio, nelle vicinanze del sindacato della Distribuzione della CNT, si spara intensamente: i vetri della sede sindacale sono tutti in frantumi. A difendere la sede ci sono diversi italiani: uno di loro, Pietro Marcon, miliziano della Colonna Italiana, ha appena terminato il suo turno di guardia e rientra nei locali. Una fucilata sparata da un cecchino entra attraverso le persiane chiuse di una finestra e lo colpisce alla testa spaccandogli il cranio. Aveva quarantaquattro anni ed era un militante di Giustizia e Libertà.
In quella “semana sangrienta” si può trovare la morte anche lontano dalle barricate. Martedì 4 maggio alle 10 del mattino si bussa alla porta di un appartamento che si trova in Plaça de l'Angel al numero 2. L'appartamento è abitato da un gruppo di anarchici italiani: Camillo Berneri, Francesco Barbieri, la sua compagna Fosca Corsinovi e Tosca Tantini. Barbieri va ad aprire la porta e si trova davanti due uomini, che portano un bracciale rosso con la sigla H.P. (Hijo del Pueblo), segno dei militanti del PSUC e dell'UGT. Uno dei due dice: “Siamo amici, non sparateci”.
Berneri un po' stupito reagisce: “Noi siamo antifascisti venuti in Spagna per difendere la Repubblica e non c'è nessuna ragione perché dobbiamo sparare contro gli antifascisti”.
I due spagnoli si limitano a chiedere ai presenti le loro generalità, che vengono fornite senza esitazioni. Verso le tre del pomeriggio due uomini dal bracciale rosso ritornano nell'appartamento di Plaça de l'Angel accompagnati da due poliziotti: “Siamo venuti a perquisire la casa”. Gli inquilini non oppongono nessuna resistenza: sono momenti tragici a Barcellona, e queste cose sono all'ordine del giorno. I poliziotti effettuano una minuziosa perquisizione, forzano la porta dell'appartamento accanto abitato da Leonida Mastrodicasa e sequestrano i libri e le carte che vi trovano. Prima di uscire intimano agli anarchici di non muoversi di casa: “Se uscite rischiate di essere presi a fucilate”. Berneri chiede: “Mi date una ragione di questo atteggiamento?”. Uno dei poliziotti prima di uscire lo aggredisce: “Siete in combutta con degli anarchici armati e pericolosi”.
Il giorno successivo alle sei del pomeriggio un gruppo di “Mozòs de Esquadra” e di “bracciali rossi”, guidati da un poliziotto in borghese salgono rapidamente la scala che porta al primo piano e bussano alla porta di Berneri. Va ad aprire Barbieri; nell'appartamento ci sono Berneri, Fosca Corsinovi e Tosca Tantini. Il poliziotto in borghese intima ai due uomini: “Dovete seguirci: siete in arresto”. “E per quale motivo?” chiede Berneri. “Vi arrestiamo come controrivoluzionari”. Barbieri reagisce indignato: “In vent'anni di militanza anarchica è la prima volta che mi viene rivolto un simile insulto”. Il poliziotto gelidamente risponde: “Appunto in quanto anarchici, siete controrivoluzionari”. Barbieri non riesce a trattenere la sua indignazione: “Il suo nome, mi dica il suo nome! Le chiederò conto presto di questa offesa”. Il poliziotto senza aprire bocca rovescia il bavero della giacca e mostra una targhetta metallica con il numero 1109. I due anarchici vengono portati via.
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Umberto Marzocchi |
Il giorno dopo nella mattina si presentano all'appartamento di Plaça de l'Angel. In casa ci sono la Corsinovi e la Tantini visibilmente agitate e in apprensione per la sorte dei loro compagni. I poliziotti le rassicurano: “I due italiani saranno liberati oggi nel pomeriggio. Le cose sono state chiarite”. L'attesa delle donne è vana: Camillo e Francesco non tornano a casa quel pomeriggio. La notizia del loro arresto ha gettato nello sgomento un gruppo di anarchici italiani. Marzocchi, dalla sede del Comité de Defensa che si trova nel quartiere di Sans, sta cercando di avere notizie sulla sorte dei suoi compagni, e in quale carcere sono stati portati. Le sue ricerche non danno nessun risultato: di Berneri e Barbieri è scomparsa ogni traccia.
Dolore e rabbia
Il 7 maggio in mattinata squilla il telefono del Comité de Defensa: “Pronto”, risponde Marzocchi. All'altro capo c'è Canzi: “Mi hanno riferito che Berneri è stato ucciso e che il cadavere si troverebbe all'obitorio del Policlinico. Troviamoci là”. Davanti all'ospedale Canzi attende l'arrivo di Marzocchi, che è accompagnato dalla Corsinovi e da un anarchico siciliano, Vincenzo Mazzone. Il gruppetto entra: l'atrio è affollato di gente; sono uomini e donne in lacrime che cercano notizie dei loro parenti dalle liste dei cadaveri o dalle fotografie dei non identificati. Un usciere introduce Canzi e gli altri nella stanza adibita ad obitorio: ci sono almeno quattrocento loculi. Si comincia a tirar giù i corpi per il riconoscimento. Ad un tratto Fosca emette un gemito e sviene: ha riconosciuto i calzini di Camillo, perché li aveva rammendati lei stessa, poco più in là c'è il cadavere di Barbieri. Dai bollettini dell'ospedale risulta che le salme dei due anarchici, crivellati di proiettili, erano state raccolte dalla Croce Rossa nella notte dal 5 al 6 maggio. Berneri era stato trovato nel tratto di strada che separa il lato destro della Plaça de l'Angel dalla Plaça de la Generalitat; Barbieri invece sulla Rambla, poco più avanti. Erano stati entrambi assassinati con il classico colpo alla nuca.
Per Canzi e i suoi compagni gli omicidi e i loro mandanti sono di certo i poliziotti internazionali di Stalin. A fugare ogni residuo dubbio, caso mai ci fosse, basta un corsivo redazionale apparso il 20 maggio 1937 su “Il Grido del Popolo” di Parigi, organo ufficiale del PCI: “Camillo Berneri, uno dei dirigenti del gruppo degli Amici di Durruti che, sconfessato dalla stessa direzione della Federazione Anarchica Iberica, ha provocato l'insurrezione sanguinosa contro il governo del Fronte Popolare di Catalogna, è stato giustiziato dalla Rivoluzione democratica, a cui nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa”.
Ai funerali di Berneri, Barbieri, Ferrari, De Peretti e Marcon parteciperanno migliaia di persone. I loro corpi saranno sepolti a Barcellona nel cimitero di Montjuich vicino alle tombe di Angeloni, Cieri e Picelli.
Quel tragico maggio di sangue non sarà mai scordato da Canzi; il suo ricordo gli provocherà per sempre dolore e rabbia. Negli anni successivi, in tutte le occasioni che gli si presenteranno per commemorare Berneri e gli altri anarchici morti nelle strade di Barcellona quel dolore e quella rabbia riaffioreranno accompagnati da un voto laico: “Abbiamo votato la nostra vita alla causa della Rivoluzione sociale, per la quale lotteremo fino all'ultimo contro tutti i fascismi in difesa della libertà”.
L'assassinio di Berneri e il diniego rivolto dallo Stato Maggiore repubblicano ai volontari anarchici, che volevano costituirsi in corpo franco, sono il colpo finale per la colonna dei libertari. I loro destini si dividono. Molti abbandonano la Spagna per ritornare nei luoghi dell'esilio dove alcuni continueranno ad occuparsi del Comitato pro-Spagna. Altri restano, arruolandosi nelle ex-colonne anarchiche spagnole, trasformate in reggimenti dell'Esercito Popolare; altri ancora entrano nel Battaglione Italiano Garibaldi, reduce dalla battaglia di Guadalajara, che ha inflitto ai volontari fascisti italiani una dura sconfitta.
Canzi, con i gradi di comandante di una brigata del Reggimento Durruti, si appresta a ritornare sul fronte di Huesca, dove l'Alto Comando ha deciso di sferrare un massiccio attacco contro quella città. (…).
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Manifesto realizzato per la FAI
dal Camp - Grup de Art Lliure (1936) |
Sul fronte di Huesca
L'uscita di scena di Caballero e la crisi del forte sindacato anarcosindacalista si riveleranno nei mesi a venire un tragico errore. I burocrati staliniani e i capi del Comintern, accecati da un'ideologia settaria e autoritaria, non avevano capito nulla né della rivoluzione libertaria fiorita a Barcellona né della natura del popolo spagnolo, che era animato da uno spirito profondamente ribelle perché innovativo. Barcellona non era Leningrado e i braceros aragonesi e andalusi non erano i contadini poveri della Russia zarista. Indebolendo la CNT si indeboliva la resistenza a Franco. Infatti, a un'assemblea di militanti della CNT di Barcellona, convocata per discutere dei fatti del maggio, della caduta del governo Caballero e del comportamento tenuto dai ministri cenetisti, l'ex-ministro della giustizia Garcia Oliver prendendo la parola aveva detto: “Sì, siamo morti, tutti morti. Perché la nostra lotta è già la morte. Noi non lottiamo per la rivoluzione, ma per la nostra sopravvivenza. Migliaia e migliaia di commilitoni sono al fronte di guerra e, come noi, sono morti. Ma loro almeno hanno di fronte un nemico in carne e ossa. Noi invece ci battiamo contro i fantasmi, i nostri fantasmi”.
Chissà se Canzi, durante il viaggio sul treno militare che lo portava ancora una volta sul fronte di Huesca per combattere il “nemico in carne e ossa”, cercava di sfuggire a quei fantasmi. Durante la guerra in Spagna aveva vissuto speranze e delusioni: aveva provato l'impulso di combattere per una causa alla quale aveva dedicato la sua esistenza e il dolore di vedere tanti suoi compagni caduti o sul fronte d'Aragona sotto i colpi dei “nacionales”, o nelle strade di Barcellona per mano dei sicari stalinisti. Nonostante questo aveva scelto di restare al fronte; come nel '21 a Piacenza, la sua città, nelle strade del quartiere Cantarana, o negli anni dell'esilio francese il suo posto, fino a quando è possibile, è dove si combatte per la sconfitta del suo eterno nemico. E adesso ritorna a Huesca, assieme ai compagni vecchi e nuovi della XXVI Divisione (ex-reggimento Durruti) per prendere ancora parte ad una grande offensiva sulla città, attorno alla quale si stavano concentrando anche diverse divisioni dell'Esercito Popolare Repubblicano, composto in prevalenza da anarchici catalani, agli ordini del Generale Pozas.
Il governo Negrin e lo Stato Maggiore repubblicano avevano preparato questa offensiva sul fronte aragonese con l'obiettivo di conquistare la roccaforte nazionalista e alleggerire l'assedio dei franchisti sulla città basca di Bilbao, che da settimane stava opponendo una strenua ed eroica resistenza.
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Manifesto degli anarchici catalani,
realizzato da Carles Fontseré (1936) |
Via dalla Catalogna
Attorno al 10 di giugno comincia la grande battaglia di Huesca, che si protrae ininterrottamente per circa dieci giorni. I ripetuti assalti alla città vengono purtroppo respinti dalle forze nazionaliste che, rispetto all'anno precedente, hanno rafforzato la loro linea di difesa. L'offensiva dei repubblicani dunque fallisce, nonostante il coraggio e l'eroica determinazione profusi nell'impresa. A migliaia si contano i morti antifascisti, fra cui numerosi sono gli anarchici catalani e i volontari italiani della XII Brigata Garibaldi.
Il 16 giugno Emilio Canzi viene gravemente ferito alla mano destra dalle schegge di una bombarda, mentre sta guidando il suo plotone ancora una volta all'attacco proprio sotto le mura di Huesca. Soccorso dai suoi compagni, viene trasportato dietro le linee per i primi soccorsi. Le ferite si rivelano più gravi del previsto e viene quindi ricoverato nell'ospedale di Barcellona. La degenza in ospedale dura circa due mesi, perché è possibile che siano intervenute complicazioni. Durante questo periodo le notizie, apprese dai compagni nel corso delle visite e dalla lettura dei giornali, non lo aiutano di certo a sollevarsi il morale, e gli rendono sempre più arduo il tentativo di trovare valide ragioni per restare in Spagna.
I comunisti eretici del POUM sono stati messi fuori legge a metà giugno, le loro sedi chiuse, il giornale messo a tacere, il leader del POUM Andreu Nin arrestato, torturato e infine fatto sparire. Le accuse propagate ad arte sostengono che quel partito è in realtà una banda di agenti nemici, di infiltrati al soldo dei fascisti. In quelle settimane non è raro che miliziani della 29a divisione (l'ex-colonna Lenin del POUM), tornando ignari dal fronte aragonese per la licenza o per curarsi le ferite, vengono arrestati e il più delle volte fucilati all'alba e sepolti nelle fosse di Montjuich, presso Barcellona. Anche per gli anarchici italiani, che non si erano arruolati nelle divisioni dell'Esercito Popolare o non avevano raggiunto la Francia, i tempi sono difficili: diversi sono finiti in carcere; il piacentino Guido Schiaffonati, che fortunosamente era riuscito ad evitare l'arresto ai primi di luglio, raggiunge la Francia.
Nel Battaglione Italiano Garibaldi i rapporti si stanno deteriorando. L'accre-sciuta influenza politica degli stalinisti ha fatto crescere il malcontento tra molti volontari; Giorgio Braccialarghe, comandante del reparto Arditi, lascia nell'agosto il “Garibaldi” e torna in Francia. Dopo qualche settimana anche il comandante del Battaglione Italiano Randolfo Pacciardi si dimette e lascia la Spagna. Si era rifiutato di obbedire ad un ordine dei consiglieri militari sovietici che gli imponeva di mandare dei suoi reparti a Barcellona durante gli scontri del “maggio di sangue” a sostegno delle forze governative del PSUC. I sovietici se l'erano legata al dito e da allora il comando di Pacciardi aveva avuto le ore contate, nonostante godesse di grande prestigio presso i suoi volontari che in gran parte erano militanti comunisti.
In quei giorni interminabili passati nella corsia dell'ospedale leggendo “Solidaridad Obrera”, le cui pagine molte volte sono tagliate dalla censura governativa, Canzi apprende che il governo Negrin l'11 agosto del 1937 ha sciolto per decreto il consiglio d'Aragona, costituito un anno prima dalle milizie anarchiche. Ma il comandante stalinista Enrique Lister era andato ben oltre quanto previsto nel provvedimento: aveva smantellato il consiglio e arrestato molti iscritti alla CNT, con una repressione inutilmente brutale, che ebbe effetti devastanti sul morale della popolazione. Dopo poche settimane una stessa sorte toccherà ai collettivi e alle comuni agricole della Catalogna. La rivoluzione autogestionaria e libertaria era stata spazzata via.
Alla fine di agosto Emilio lascia l'ospedale e fa ritorno a Parigi, dalla moglie e dai figli.