Chi oggi decide di andare a Peli affronta il viaggio in auto in Val Trebbia e una volta passata Bobbio prende a salire sulla montagna, a destra del fiume in direzione di Coli.
Ma questo inquadramento geografico è fuorviante se si vogliono indagare le motivazioni per le quali, all'indomani dell'8 settembre 1943, la canonica di questo paese diventa il punto di raccolta di uno dei nuclei resistenziali più importanti per il piacentino. Sono gli uomini coinvolti e le ragioni territoriali a fare di Peli un centro propulsore della Resistenza.
Si può arrivare a Peli anche seguendo la Val Nure e una volta raggiunta Bettola risalire la montagna attraverso stradine e mulattiere. Nel 1943 Bettola è collegata con Piacenza da una modesta tratta ferroviaria, la “Littorina”, e la sua vallata è forse, nell'intero quadro territoriale piacentino, quella che per prima vede nascere piccoli nuclei resistenziali. Uomini e materiali della Resistenza viaggiano lungo questi itinerari.
A Bettola fanno riferimento gli studenti antifascisti legati a Cesare Baio e Luigi Broglio, che moriranno entrambi in campi di prigionia. La famiglia Baio presta da subito aiuto ai soldati sbandati del disciolto esercito italiano e agli ex prigionieri alleati, slavi, inglesi e greci che fuggono dai campi di prigionia del Piacentino, quelli di Rezzanello e Veano sono poco distanti. Convergere su Peli passando ad esempio a Pradovera è un passo breve e del tutto logico. È un luogo ideale, lontano dai grossi paesi e quasi sul displuvio tra Val Nure e Val Trebbia. A Peli c'è un giovane prete, don Giovanni Bruschi, in odore di antifascismo e convinto della necessità di agire anche a costo di mettere a repentaglio la propria esistenza e quella dei suoi parrocchiani. Nei ruolini dell'ANPI figurerà addirittura come partigiano combattente
Il gruppo di Peli
La settimana successiva all'8 settembre arrivano a Peli gli antifascisti storici e le prime leve della Resistenza. Antonio Cristalli e Paolo Belizzi fanno parte della clandestinità comunista, del gruppo di Bettola si è già detto, l'anarchico Lorenzo Marzani trascina con sé un altro nucleo di antifascisti cittadini, l'avvocato cattolico Francesco Daveri ha un rapporto preferenziale con don Bruschi. Buona parte di questi uomini si conosce già dal periodo dei 45 giorni del governo Badoglio, altri da molto tempo prima per essere stati coinvolti nell'organizzazione clandestina del Partito Comunista e sottoposti a carcere, confino di polizia e ammonizione politica, a partire dalla fine degli anni venti e fino al 25 luglio 1943 (in quei giorni Belizzi è liberato dal carcere).
Emilio Canzi, ardito del popolo, combattente in Spagna e reduce dai campi di prigionia di mezza Europa paga invece fino in ultimo la sua militanza anarchica. Durante il governo Badoglio è ancora in carcere a Renicci di Anghiari in Toscana e riesce a fuggire solo all'indomani dell'8 settembre. A Piacenza prende contatto con gli antifascisti a lui più vicini sia politicamente che per storia personale: l'ex ardito, suo vecchio amico, Belizzi e l'anarchico Lorenzo Marzani “Isabella”, che nel corso del 1942 aveva conosciuto durante il suo trasferimento dal campo di prigionia tedesco al confino di Ventotene. Canzi ha cinquant'anni ma, a differenza degli altri antifascisti della sua generazione, sceglie la lotta armata e non il lavoro politico e organizzativo in città.
Quando verso la fine di settembre arriva a Peli, Canzi è uno dei più vecchi del gruppo, ma soprattutto quello con più esperienza alle spalle. La sua figura politica e militare è quindi indiscutibile in un quadro complessivo che vede gli ex ufficiali dell'esercito restii a fare la scelta resistenziale e il Comitato di Liberazione Nazionale di Piacenza pressoché inesistente. Saranno alcuni uomini del gruppo di Peli a doversi far carico anche di questo aspetto lavorando nella difficile clandestinità della pianura. È quindi logico che si pensi subito a Canzi come responsabile militare, ma non solo a lui dato che al momento ci sono poche bande sparpagliate per la provincia e idee limitatissime sul da farsi. La situazione è molto difficile.
I collegamenti sono sporadici e la scarsità di mezzi impressionante, dalla bassa le poche armi arrivano con mezzi di fortuna.
Peli diventa importante crocevia della Resistenza partigiana perché mantiene i contatti con l'antifascismo clandestino della città e riesce a sviluppare un rapporto con le altre piccole bande dei dintorni e con l'alta Val Nure e Val d'Arda, arrivando a lambire la montagna parmense. L'asse della montagna è una valida alternativa a quelli della pianura che viaggiano lungo la via Emilia, il più scoperto, e lungo il Po. Non a caso Peli sarà anche il centro motore della nascita della 60ma brigata Garibaldina “Stella Rossa” comandata dal Montenegrino.
In questo eterogeneo fronte antifascista il Canzi anarchico esule in Francia con la diaspora italiana antifascista e comandante militare di Spagna opera una sintesi straordinaria in vista dei minimi ma difficili obiettivi del momento politico e militare che sta per cominciare. Glielo consente la sua matura dimensione politica.
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Lorenzo Marzani “Isabella” |
Il primo rastrellamento
A troncare questa esperienza è la repressione fascista che debella il gruppo di Peli causando anche un forte ridimensionamento dell'attività del primo CLN di Piacenza, composto da Belizzi per il PCI, Minoia per il PSIUP, Daveri per la DC e Canzi. Il tutto inizia con l'arresto di Lorenzo Marzani a novembre 1943 e con un'intensa attività di controllo dell'area, fino all'incursione fascista nella canonica di Peli che rende di fatto impraticabile il paese. L'arresto scatterà anche per Antonio Cristalli, altri che gravitavano su Peli devono eclissarsi. Canzi e don Bruschi hanno per tempo convinto alcuni abitanti a nascondere il deposito di armi e questo è un altro segno di come si sa muovere Canzi tra gli uomini delle realtà in cui si trova a dover vivere: è convincente e coinvolgente. L'avvocato Daveri e don Bruschi debbono fuggire da Piacenza per non cadere nella rete della polizia politica fascista. Non riesce invece a evitare l'arresto tutta la famiglia Baio, profondamente coinvolta nell'attività del gruppo di Peli. Il 14 febbraio 1944, di ritorno da una riunione tenutasi a Parma, viene arrestato anche Emilio Canzi. Mentre la Resistenza piacentina comincia a muovere i primi passi organizzati in più vallate, disarmando i presidi repubblichini della montagna, rimane in carcere a Piacenza e viene liberato solo il 24 giugno 1944 grazie ad uno scambio di prigionieri organizzato a Vernasca.
Comandante Unico
All'interno del CLN si è nel frattempo imposto il problema del coordinamento militare delle forze partigiane, questione di difficile soluzione perché si tratta di trovare l'uomo giusto e il gradimento di tutte le componenti politiche del Comitato. Fino a quel momento si sono fatte scelte di transizione – quando il primo CLN estende di fatto a più elementi questa funzione in relazione anche al diverso posizionamento sul territorio provinciale – o si è puntato su un ex ufficiale dell'esercito, l'avvocato comunista Wladimiro Bersani che tra l'inverno 1943 e la primavera 1944 opera questo coordinamento militare. La componente cattolica del CLN appoggia l'ex generale dei carabinieri conte Cerri Gambarelli di Saliceto ma l'alto ufficiale, pur avendo svolto un ruolo di sostegno al nascente movimento resistenziale, per una serie di imprecisate motivazioni non arriverà mai a ricoprire quell'incarico. È evidente anche che la nomina di un Comandante Unico per tutte le formazioni partigiane del Piacentino non è un affare riservato al CLN locale, ma coinvolge gli stati maggiori della Resistenza nazionale.
Decisivi, nella scelta di Emilio Canzi quale Comandante Unico, sono diversi fattori alcuni dei quali operano in sinergia. Nella sempre più accentuata “politicizzazione della Resistenza”, che interviene man mano che il fenomeno armato diventa più consistente, non sfugge a nessuno – una volta fallita l'ipotesi del generale dei carabinieri – quale sia il confronto politico in atto. Se Wladimiro Bersani dovesse assumere ufficialmente il comando risulterebbe evidente l'influenza del Partito Comunista nello scacchiere piacentino e questa è una eventualità che la forte componente azionista di Giustizia e Libertà presente nel Comando Generale della Resistenza Alta Italia, posto a Milano, non vuole vedere realizzata. A farsi interprete di questa preoccupazione e a muoversi di conseguenza è l'ex maggiore e avvocato azionista Mario Iacchia che ha una forte influenza sia a Milano che presso il Comando Unico Nord Emilia. Iacchia conosce Canzi e Canzi conosce Giustizia e Libertà sin dalle esperienze spagnola e francese: ci sono stati momenti di forte sintonia tra il “colonnello” anarchico e questo movimento politico.
Il Partito d'Azione dunque sostiene Canzi, anche perché non ci sono ex ufficiali in grado di dare sufficiente affidamento e di non incontrare il veto di chi, nel CLN, dubita molto della lealtà di parecchi di questi militari estranei alla realtà territoriale piacentina. Sempre nell'ambito del Comando generale di Milano è molto importante la disponibilità di Daveri a sostenere Canzi, di cui ben conosce il rigore etico e morale che gli deriva dai precedenti di vita e con il quale ha condiviso l'esperienza di Peli.
A sbloccare la situazione è la tragica morte in battaglia di Wladimiro Bersani, il 19 luglio 1944 a Tabiano di Lugagnano. Questo fatto, unito all'uccisione di Giovanni Molinari (il più noto esponente del Partito Comunista piacentino) verificatasi il 5 giugno 1944, mette i comunisti in seria crisi. Del resto Emilio Canzi era stato istruttore di Paolo Belizzi al tempo degli arditi del popolo e quest'ultimo non poteva che dirsi ben felice della scelta che cadeva sul suo vecchio comandante.
Tra la fine di luglio e l'inizio di agosto '44 Emilio Canzi, che si farà chiamare Ezio Franchi, viene dunque ufficialmente nominato Comandante Unico e si stabilisce a Bettola con l'ausilio di un comando costituito da altri 4-5 collaboratori tra i quali l'ex capitano degli alpini Pietro Inzani di Morfasso, proveniente dalla 38ma Brigata “Garibaldi” della Val d'Arda.
La nomina dell'anarchico Emilio Canzi a comandante della XIII zona partigiana, scelta dettata da una articolata mediazione politica, rappresenta un'unicità nel panorama della Resistenza italiana. Il movimento anarchico piacentino dei primi due decenni del secolo era una realtà consolidata, da lì era nata una costola piuttosto consistente del Partito Comunista. Ora invece, se pur nel profondo di alcuni militanti antifascisti e partigiani piacentini si trovi traccia di questo anarchismo, non esiste un movimento in grado di sostenere Canzi. La sua nomina può quindi essere letta soprattutto come un riconoscimento alla sua biografia di antifascista storico, alla sua grande statura morale e politica.
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Piacenza, 5 maggio 1945 – la sfilata delle brigate partigiane in piazza Cavalli
(foto: archivio fotografico Studio Croce - Piacenza) |
Nella bufera della Resistenza
Il compito del Comando Unico piacentino non è semplice. Si tratta di mantenere collegamenti tra le diverse formazioni che fino a quel momento hanno agito nella più totale indipendenza, a volte con rivalità per il controllo di territori contesi. Canzi deve da subito fare i conti con la difficile coesistenza tra le formazioni dell'Istriano e del Montenegrino nella valle del Nure. Il problema viene temporaneamente superato con lo spostamento del primo verso il Genovesato.
Anche le forti personalità dei due principali comandanti di vallata, i tenenti Giuseppe Prati e Fausto Cossu, sono in grado di condizionare pesantemente la capacità del Comando Unico di avere un controllo su tutto il territorio piacentino. Cossu è in pesante rottura con il CLN piacentino (ai cui rappresentanti è negato per un lungo periodo l'accesso al territorio controllato da Giustizia e Libertà) e non tollera facilmente ordini dall'alto, anche se formalmente i suoi rapporti con Canzi sono ineccepibili. Prati, fortemente ancorato al territorio dell'alta Val d'Arda, deve invece affrontare il dissidio aperto della formazione di Giovanni lo Slavo, che opera nel lembo più orientale della valle e rivendica autonomia operativa e di comando. Prati diffida del ruolo del Comando Unico in queste vicende. D'altra parte però Cossu e Prati hanno un recente passato militare e non fanno parte dei ranghi comunisti.
Si pone quindi la delicata esigenza di mediare anche in riferimento alla disponibilità di armi, vettovagliamento e denaro da suddividere tra le diverse formazioni. È il Comando Unico a fare da collettore dei finanziamenti che arrivano per lo più direttamente dal Comando generale di Milano. Canzi esprime qui la sua tendenza anarchica che insiste maggiormente su autodisciplina e responsabilità personale piuttosto che sull'espressione di una forma di autorità gerarchica tipica dell'inquadramento militare. Su quest'ultimo aspetto fanno leva i detrattori di Canzi, che lo accuseranno in più occasioni di essere troppo accondiscendente verso i partigiani per quel che attiene alle forme di disciplina e di rispetto degli ordini. Questo ben s'intende non ha nulla a che vedere con il rigore etico e morale che deve guidare l'azione della Resistenza e che per Canzi è assolutamente sacro e indiscutibile.
La debolezza del CLN provinciale non aiuta certo a guidare il movimento resistenziale, molto più importanti sono i rapporti con l'organo direttamente superiore del CUMER Nord Emilia e con il Comando generale Alta Italia.
La disfatta
In questo quadro Canzi si trova a dover affrontare il più brutto periodo per la Resistenza piacentina. Dopo poco più di tre mesi in cui le formazioni partigiane consolidano il controllo del territorio occupato, che arriva al limitare della pianura, e accentuano le azioni di disturbo sulle principali arterie di traffico, il 13 novembre 1944 arriva il proclama di Alexander. Gli Alleati, seguendo la loro strategia globale del conflitto, sospendono la campagna militare in Italia in attesa della ripresa primaverile. Significa che i partigiani devono cavarsela da soli o tornarsene a casa, un rovescio psicologico non indifferente che si aggiunge alle insistenti notizie circa un imminente rastrellamento nazifascista. Azioni del genere erano già state affrontate nel recente passato con esiti alterni. Si era trattato allora di rastrellamenti con un numero limitato di forze militari (non più di cinquemila uomini) che avevano incontrato formazioni partigiane più modeste di quelle attuali, ma molto più agili. Il movimento partigiano si era infatti ricomposto nel volgere di poche settimane anche se con perdite non indifferenti di uomini.
Il 23 novembre 1944 la Divisione tedesca Turkestan, composta prevalentemente di ex prigionieri del fronte russo di origine asiatica e caucasica (i cosiddetti “mongoli”) comandati da ufficiali e graduati tedeschi, attacca le valli del Tidone e della Trebbia. Sono più di diecimila gli uomini lanciati all'assalto con la copertura di pezzi di artiglieria, con cui i partigiani mai avevano avuto a che fare. La divisione giellina di Fausto non può certo farvi fronte e dopo alcuni giorni di scontri è costretta a ripiegare su tutto il fronte e a sciogliersi.
È a questo punto che Canzi prende in mano la situazione per evitare la caduta di Bettola, sede del Comando Unico. Si tratta di fermare l'avanzata nemica sulle due direttrici che portano in Val Nure. La battaglia del Lagone presso Peli e la difesa del passo del Cerro si rivelano però tentativi vani e con il dilagare dei tedeschi si deve sgomberare il paese anche per evitare rappresaglie sulla popolazione.
I giochi di potere
Nessuno aveva ipotizzato un rastrellamento di tali dimensioni e quando a gennaio 1945 inizia la seconda parte dell'attacco non c'è più scampo per nessuno: sarà lo stesso Canzi a ordinare lo scioglimento di tutte le formazioni partigiane del Piacen-tino. Nessun altro comandante avrebbe potuto fare diversamente. Canzi, ammalato di pleurite, trova un rifugio amico a Averaldi di Peli cercando di mantenere i contatti con alcune formazioni ancora in armi. Prati e Cossu sono nascosti in luoghi sconosciuti, gli altri uomini del Comando Unico sono alla macchia e Pietro Inzani muore fucilato il 6 gennaio. è il mese più difficile per la Resistenza piacentina, nel corso di questo rastrellamento cade il maggior numero di partigiani di tutta la lotta armata.
Con la ripresa dell'attività delle formazioni, verso la fine di febbraio, risulta evidente che molti equilibri politici stanno cambiando e che il posto di Comandante Unico comincia a essere motivo di scontro tra le diverse componenti della Resisten-za. Il Partito Comunista, non tanto quello piacentino ancora estremamente debole quanto quello rappresentato all'interno del Comando Unico Nord Emilia, pone il problema della sostituzione di Canzi a cui vengono addossate pesanti manchevolezze in occasione del rastrellamento invernale. Si usa anche la sua assenza dal posto di comando, dovuta alla pleurite, per insistere nella strategia di delegittimazione del “colonnello”.
I comunisti sono fuori dalle principali posizioni di comando della Resistenza piacentina, perchè Cossu e Prati sono ritornati ai loro posti più solidi che mai e in Val Nure ci sono altri comandanti che insieme a Canzi cercano di riprendere in mano la situazione militare. Il tentativo di dare la spallata al posto di Comandante Unico incontra la resistenza dell'anarchico, che tenta di appellarsi al sostegno del Comando generale Alta Italia. Del resto i comandanti non comunisti non se la sentono di impegnarsi a fondo nel sostegno a Canzi se questo può significare indebolire la propria posizione. Questa situazione conferma che a sostenere Canzi fino a questo momento non c'è stato un vero e proprio movimento di pressione, ma solo e soprattutto la grande statura morale, etica e politica del vecchio combattente anarchico.
La partita della sua destituzione viene giocata all'interno del CU Nord Emilia dove i comunisti hanno la netta maggioranza e decidono di sostituirlo con il colonnello Luigi Marzioli. Marzioli ha vissuto la Resistenza da spettatore e più volte chiamato in causa ha sempre rifiutato di impegnarsi direttamente. Ora, in previsione della Liberazione e dei rapporti di forza successivi, il Partito Comunista non ha uomini adatti al ruolo e pensa di affidarsi a un ex alto ufficiale dell'esercito. Questa è una delle questioni della Resistenza piacentina che più lascia perplessi, soprattutto per la condotta dei comunisti.
Canzi tenta di resistere alle reiterate disposizioni del CU Nord Emilia appellandosi all'illegalità del provvedimento di sostituzione. Da una parte contesta la legittimità del documento con cui viene sostituito da Marzioli, dall'altra ritiene che tale provvedimento debba essere eventualmente avallato dal Comando generale.
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Piacenza Nuova, organo del CLN della provincia 2 ottobre 1945 |
Arrestato da partigiani
La vicenda precipita quando, il 20 aprile 1945, un gruppo di partigiani guidato dal comandante comunista Salami, fa irruzione nella sede del Comando Unico a Groppallo e, armi alla mano, arresta Emilio Canzi e altri uomini del Comando. Questi vengono incarcerati a Bore, al confine tra il Piacentino e il Parmense, nell'abitazione di un militante comunista e vengono anche sottoposti a interrogatorio. Si rimuove con la forza Canzi dal Comando e gli si vuole addirittura impedire di partecipare all'imminente liberazione di Piacenza, per la quale il “colonnello” aveva combattuto per più di vent'anni. La situazione si sblocca dopo pochi giorni, quando gli uomini della Divisione partigiana Val d'Arda di Prati, che controlla quella zona, liberano Canzi. Solo grazie a questa azione il “colonnello” anarchico può partecipare il 28 aprile alla liberazione di Piacenza, cinquantaduenne ma da semplice partigiano della Brigata “Renato”.
La prima rivincita avviene il 5 maggio 1945, il giorno in cui Canzi viene acclamato dai piacentini e dalla folla dei partigiani che sfilano festanti nella piazza Cavalli liberata. Un'ovazione accompagna il suo passaggio sul palco dove si alternano comandanti partigiani e alti ufficiali alleati.
Nei mesi successivi Canzi, subito nominato presidente dell'ANPI e del Corpo Volontari della Libertà e membro del CLN, mantiene aperta la querelle politico-giuridica cercando di ottenere dal Comando Generale di Milano un pronunciamento che lo ristabilisca nella funzione di comando. Il reintegro arriva quando è in fin di vita a seguito di un incidente stradale avvenuto a un incrocio di Piacenza. Solo due giorni prima della morte, il 15 novembre 1945, Canzi ottiene il riconoscimento della sua funzione di Comandante Unico della XIII Zona partigiana esercitata in modo ininterrotto dalla nomina fino alla Liberazione.
Franco Sprega
Il racconto di
“Isabella”
Pochi giorni prima della Liberazione, i comunisti cercano di “fare fuori” Canzi arrestandolo con alcuni suoi compagni. La cronaca dell'arresto e del loro interrogatorio “regolare e democratico” nella testimonianza del partigiano anarchico Lorenzo Marzani “Isabella”, stretto collaboratore di Canzi in tutta la stagione della Resistenza.
Biot, novembre 1976
Caro Pippo,
come ti ho a suo tempo promesso, eccoti i dettagli dell'arresto dei componenti del Comando Unico, arresto avvenuto nell'aprile 1945 nella sede del Comando stesso a Groppallo.
Erano da poco passate le ore 12: nel locale della mensa, dove si consumava il solito frugale pasto, erano presenti Emilio Canzi, il giudice Brescia, Corsello, il sottoscritto e qualche altro. Assenti “giustificati” (forse perché consapevoli di quanto stava per succedere) Marzioli, Venturi e Mosaiski.
Ad un tratto entrò nel locale il comandante “Salami” unitamente ad un drappello di uomini con i mitra puntati; fra questi anche alcuni ex prigionieri mongoli: in un baleno fummo disarmati. Canzi si difese con vigore, ma fu trascinato fuori dal locale con la forza, scaraventato in un'autovettura che attendeva sulla strada e portato in una località sconosciuta.
Noi restanti fummo condotti e rinchiusi in una villetta isolata e guardata a vista da tre squadre di uomini armati di mitragliatrici. Durante la notte, a dire il vero, feci un tentativo di evasione (anche per cercare aiuto presso Prati o presso Fausto), ma dovetti rinunciare a causa della stretta sorveglianza ed anche su consiglio dell'amico Brescia. Passammo così la notte sul nudo pavimento con una leggera coperta per ripararci dal freddo. Al mattino ci venne servita una infame “brodaglia” dopo di che ci separarono.
Fui, per primo, sottoposto ad un serrato interrogatorio da parte di Venturi, assistito dal compare Mosaiski, interrogatorio che si svolse con l'assistenza di un improvvisato cancelliere che dattilografava domande e risposte.
In fatto di interrogatori avevo, a quel tempo, buona esperienza, avendone subiti parecchi ad opera della polizia fascista. Feci presente ciò al Venturi (lui pure passato attraverso le mie stesse vicissitudini), ma mi rispose che si trattava di una faccenda diversa in quanto quello che si stava svolgendo era un interrogatorio “regolare e democratico”, come se gli uomini armati sino ai denti, che ci sorvegliavano, fossero un fatto “regolare e democratico”. Ciò nonostante risposi serenamente alle sue domande, non avendo nulla da nascondere. L'interrogatorio si protrasse per tutta la mattinata, dopo di che fui rinchiuso in una stanza, separato dagli altri compagni.
Fui rilasciato soltanto nel pomeriggio del giorno successivo e le armi mi furono rese, non senza poche difficoltà, presso un comando di stanza a Bettola. Nella serata raggiunsi Prato Barbieri e la mattina dopo ebbi la lieta sorpresa di ritrovare, presso il comandante Prati, il carissimo amico Canzi. Aggregati alla “Brigata Renato” partecipammo insieme al combattimento per la liberazione di Piacenza.
Troverai, allegati alla presente, alcuni documenti contenenti altre informazioni che potranno esserti utili per le tue indagini su quello che sempre chiamerò “nefasta avventura” conclusasi con l'arbitrario defenestramento dal Comando Unico di coloro che furono fra i fondatori del Movimento Partigiano Piacentino.
Ti abbraccio tuo
Lorenzo
Lettera di Lorenzo Marzani “Isabella” al comandante Pippo Panni, 1976. Archivio ANPI Piacenza, Fondo Comando Unico.
“Povero diavolo”
L'anarchico Canzi e don Borea |
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Verso la fine di ottobre del 1944 monsignor Civardi si recò al Comando, per parlare con il comandante Canzi. Questi lo ricevette e ascoltò senza indugio e cortesemente: gli chiedeva di proibire a don Borea, Cappellano della divisione di Prati, di stare tra i suoi partigiani. Canzi rimase stupito a tale proposta, si fece serio e rispose seccato: “Povero diavolo, ora che ha un pezzo di pane glielo volete togliere?”. E rivolto a Belizzi disse ancora: “Paolo, dì a don Bruschi che don Borea rimane al suo posto”. Da allora monsignor Civardi si rivolse a Canzi sempre tramite mio.
Da don Giovanni Bruschi, La Resistenza piacentina e la figura di Paolo Belizzi, in “Studi piacentini” n. 4, 1988 |
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