Un ricordo di Paul Avrich
Se gli esseri umani fossero saggi, si considererebbero ricchi per il numero di amici e di affetti e non per i beni materiali che posseggono. Mi piace considerarmi una persona fra le più sagge e, quindi, riconosco e apprezzo il fatto di avere visto da più di trentacinque anni la mia esistenza incommensurabilmente arricchita dall'amicizia con Paul Avrich. Ci siamo brevemente incontrati la prima volta in occasione del mio dottorato, nel 1971, avvicinati dalla comune professione e dall'interesse reciproco per quella visione filosofica affascinante e in gran parte fraintesa che si chiama anarchia.
Una volta stabilitosi questo legame tra noi, Paul è stato per me un mentore, un amico diletto e, per molti versi, quel fratello maggiore che non avevo mai avuto. Questo sentimento di affetto fraterno, lo so bene, era sinceramente ricambiato, perché spesso, parlando di me, mi chiamava il suo fratellino e, come fratello più grande, era straordinario nel manifestarmi il suo affetto, nell'offrirmi il suo saggio consiglio e il suo aiuto generoso.
Per quanto era in suo potere, non c'era niente che mi avrebbe negato, se glielo avessi chiesto.
Ma la generosità era solo uno dei tratti che definivano il suo carattere. Il Paul che ho conosciuto era un vero romantico, un essere dall'animo tenero e dolce come la panna montata. Una volta che era venuto a trovarmi nella mia casa in Pennsylvania e io suonavo una splendida aria per baritono, dall'Evgenij Onegin di Ciaikovskij, Paul era come in trance e visibilmente trasportato in un altro mondo, nel quale entrava in un intimo contatto con la musica e le parole dell'opera. Aveva una predilezione particolare per il russo, che era tra la mezza dozzina di lingue che capiva e sapeva parlare. Avevo potuto osservare la stessa profondità di sentimenti nel rapporto con i suoi gatti. Quelle creature pelose non erano propriamente i suoi animali domestici, erano altri suoi figli, amati e coccolati proprio come Karen e Jane. Non c'era dubbio: quando uno dei suoi mici moriva, se ne andava anche un pezzo di lui.
Infine devo parlare del Paul Avrich conosciuto ai più, lo storico.
Non molti di quelli che fanno il mio mestiere riescono a raggiungere la statura di un caposcuola, di uno studioso universalmente riconosciuto come una delle massime autorità nella sua disciplina, che, nel caso di Paul, era lo studio dell'anarchismo, con la sua particolare schiera di praticanti. Non c'è alcun dubbio sul fatto che Paul sia stato il maggiore storico dell'anarchia a livello mondiale, un titolo che si era guadagnato non solo per i numerosi libri e articoli pubblicati, ma per il sapere enciclopedico che aveva accumulato in decenni di attività di ricerca e scrittura. Nei trentacinque anni del nostro sodalizio professionale, solo raramente non ha saputo offrire una risposta alle domande che gli ponevo. E in genere quella risposta arrivava in pochi secondi, perché aveva una memoria eccezionale. Se la risposta non arrivava subito, mi diceva: “Fammi controllare sui miei appunti e ti richiamo subito”. I suoi appunti, le sue carte, bisogna vederli per crederci. Quando vidi come li raccoglieva, nel suo studio al Queens College, ne rimasi davvero impressionato: mi pareva di essere entrato nell'Archivio nazionale. Ero convinto che un uomo da solo non avrebbe mai potuto accumulare un tale numero di fascicoli, di manoscritti, di libri. Ma dopo avere riflettuto un po', mi convinsi che proprio uno come Paul era stato capace di ammassare quella colossale raccolta di materiali sull'anarchia. La ricerca era una passione per lui, una fonte rinnovabile e inestinguibile d'energia. Divorava i documenti come una tigre divora la preda. Per giunta, nella sua instancabile ricerca di dati su dati, Paul era arrivato a fissare un nuovo criterio per la storia orale, intervistando centinaia e centinaia di persone che avevano vissuto i fatti e avevano conosciuto direttamente le personalità che studiava. Un altro merito come ricercatore era la sua capacità di rintracciare tante persone che erano rimaste nell'ombra per anni e anni, per timore di persecuzioni politiche, convincendole a rivelare i più intimi segreti della loro esistenza, con quel rispetto della dignità umana che i suoi interlocutori gli riconoscevano istintivamente e che lo facevano considerare un nuovo amico per loro. In questo modo Paul aveva salvato una quantità infinita di ricordi storici che altrimenti sarebbero scomparsi con chi li conservava.
Quel tesoro di informazioni storiche, scoperte e accumulate negli anni, diede modo a Paul di scrivere una quantità di libri e di articoli, ognuno dei quali è stato un contributo originale e innovativo alla ricerca storica. A differenza di tanti autori di trattati eruditi che scrivono con una prosa ridondante e impenetrabile, Paul usava quella che si dice una mano leggera (1), che produceva uno stile narrativo e scorrevole, capace di avvincere il lettore dalla prima all'ultima pagina. Alle conferenze e alle lezioni, Paul si esprimeva con la stessa disinvoltura e la stessa fluidità che caratterizzavano i suoi scritti, e lo faceva di solito in modo estemporaneo, sapendo benissimo quanto può diventare una tortura e una noia essere costretti ad ascoltare qualcuno che legge un saggio erudito.
Sapeva anche accattivarsi il pubblico, alleggerendo il peso di seri argomenti storici con il suo meraviglioso senso dell'umorismo e con l'atteggiamento modesto, qualità che facevano sentire a proprio agio in sua presenza gli studenti e gli studiosi di minor caratura.
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Paul Avrich (al centro), tra Valerio Isca e Federico Arcos.
Alle loro spalle una foto di Rudolf Rocker |
Nei confronti dei suoi studenti, Paul era generoso senza riserve. A differenza di tanti docenti universitari, che sono avari del proprio patrimonio di sapere come Mida lo era dell'oro, Paul era sempre disposto a condividere tutto quello che sapeva con chiunque cercasse da lui un orientamento, un consiglio, un aiuto. E a lui si rivolgevano in centinaia, letteralmente, senza che nessuno se ne andasse insoddisfatto. Anch'io gli sono enormemente debitore da un punto di vista intellettuale.
Senza il suo intervento e la sua buona parola, non credo che il suo editore da sempre, la Princeton University Press, avrebbe mai preso in considerazione e alla fine pubblicato il mio primo libro sugli anarchici italiani.
La cosa più importante, però, per me e per gli altri che hanno avuto il privilegio di un rapporto professionale con Paul, è stato l'impulso prodotto dal suo esempio. La sua passione per la ricerca era contagiosa. In molte occasioni, negli ultimi anni, quando mia moglie e i miei amici mi sollecitavano a smetterla con le ricerche e concludere quel maledetto libro che stavo scrivendo, Paul si dimostrava di opposta opinione. Mi diceva di non dare retta a nessuno di quelli che affermavano che le ricerche ormai bastavano: “È il diavolo tentatore che ti sussurra all'orecchio”. Così, se adesso Paul è in paradiso, all'inferno o in qualche atro ricettacolo finora a noi ignoto, non ho dubbi che stia facendo ricerche sulla storia locale e stia intervistando chiunque gli capiti a tiro. Fino al giorno in cui avrò la fortuna di rivederlo, il suo ricordo rimarrà sempre nel profondo del mio cuore.
Nunzio Pernicone
traduzione dall'inglese di Guido Lagomarsino
1. In italiano nel testo [N.d.T.]
Ricordando la “Bionda”
Il 15 febbraio 2006 è deceduta Vanni Augusta “Bionda”, nata a Livorno nel 1912 da numerosa famiglia che si distinguerà nella lotta antifascista.
Nel 1938 sposa Virgilio Antonelli, anarchico livornese, perseguitato politico, antifascista, partigiano, con il quale ha condiviso le idee, subendo ed affrontando solidalmente le persecuzioni, i distacchi, i pericoli, parte integrante nella vita di chi lottava per abbattere il regime fascista.
In molti hanno avuto modo di apprezzare la sua spontanea umanità.
Insieme al suo compagno erano sempre disponibili ad ospitare compagni, amici e parenti, tra gli altri, nell'immediato secondo dopoguerra, molti fuoriusciti spagnoli antifascisti.
Il funerale, svolto in forma civile, è stato seguito da numerose persone.
Nella “Sala del Commiato” della Cremazione i presenti si sono trattenuti ad ascoltare le parole che esprimevano l'affettuoso e rispettoso ricordo che la “Bionda” ci lascia.
È stata infine salutata con canti anarchici.
La famiglia ringrazia tutti gli intervenuti, tutti coloro che sono stati vicini in questo particolare momento.
Alba e Lina Antonelli
Una scuola
libertaria?
Una scuola libertaria per forza di cose, per ragione, per diletto; come che sia un'impresa che funziona e serve, nel miglior modo possibile, agli allievi immigrati extracomunitari; e ai docenti, che imparano, se non altro, intere pagine del gran manuale di geografia umana.
Dopo sei anni d'insegnamento, sono via via cambiati: i paesi di provenienza degli scolari, il nostro (di docenti) modo di rapportarsi con loro, il loro grado di interesse ai diversi contenuti e modi dell'esposizione, il nostro grado d'interesse per loro, la loro vita passata e attuale, il clima psicologico complessivo del fare e ricevere scuola, con un sempre più alto tasso di divertimento, vivacità, coinvolgimento, collettivo e individuale, e possibilmente minore fatica.
Quanto ai paesi d'origine degli allievi, da una netta prevalenza del Nord Africa si è passati all'Europa Orientale, Romania, Moldavia, Ucraina, Russia; insieme a un costante aumento dell'America Latina, soprattutto del Brasile (grazie a Lula, in positivo e in negativo?) e dell'Asia. Su una cinquantina di allievi, via via iscrittisi nel corso dell'anno scolastico 2005-2006, la ripartizione geografica è risultata la seguente: Brasile 10, Filippine 7, Ecuador 6, Perù 5, Ucraina 3, Tibet (via India) 3, Moldavia 2, Egitto 2; Mauritius, Sri Lanka, Cina, Cile, Rep. Domenicana, Romania, Russia, 1 allievo per ciascun paese. La frequenza media è sotto i 10; i docenti sono 2.
La classe è sempre aperta ai nuovi arrivi: compilato il modulo d'iscrizione (dove le risposte di maggior interesse sono gli anni di scuola in patria, le lingue conosciute e il lavoro se c'è), celebrate le presentazioni reciproche fra tutti i presenti, la lezione prosegue col programma prestabilito, con qualche indispensabile chiarimento per i nuovi scolari, contemporaneamente assistiti da uno degli insegnanti.
La scuola ha luogo il mercoledì dalle 19 alle 21, la domenica dalle 10 alle 12; ingresso libero (uscita meno). La lezione si articola in quattro fasi: elenco e spiegazione di termini appartenenti ad una determinata area lessicale (abitare, lavori, trasporti, cibi, corpo umano, abbigliamento... una cinquantina a disposizione); verbi e forme verbali di maggior uso; lettura usata soprattutto come mezzo di correzione della pronuncia, oppure dettato (contenuto d'interesse personale per un immigrato, o un sintetico panorama sociopolitico italiano); esercizi di grammatica, sintassi e comprensione, da un testo adottato (e acquistato da chi può o vuole). A parziale supplenza del testo il computer sforna estratti, riquadri, schemi di grammatica ogni qualvolta siano necessari.
In fine, se avanza tempo, un po' di conversazione libera su iniziative degli allievi, oppure un temino su come abbiano trascorso qualche ora o qualche giorno particolare. Anche una veloce incursione nelle tre analisi – grammaticale, logica e sintattica – suscita il loro inaspettato interesse e li aiuta a meglio organizzare una breve composizione.
Quale italiano insegnare e in che dosi è un grosso problema: certo la lingua parlata (con le dovute correzioni dell'italiano corrente), certo l'idioma burocratico della frontiera e della questura; ma poi, quanto della difficile lingua dei quotidiani, politica, partitica, astratta, farcita di metafore, sigle, traslati, riferimenti a notizie ignote, che la rendono d'incerta comprensione agli stessi indigeni non addetti ai lavori, che fare? Se è bene s'integrino, è utile agli immigrati recepire i nostri difetti? In certi campi, sì.
A proposito di lingua, contrariamente alle aspettative, è risultato che certe finezze culturali come il dar dell'ispanofono a un sudamericano (qualifica da lui mai subita), qualche pezzo d'etimologia, taluni significati peregrini di una parola corrente, siano apprezzati, gustati e persino utilizzati. E l'unione dell'articolo al sostantivo, quale costante nota a margine di ogni vocabolo detto o scritto, è assai più utile di quella decina di regole sull'uso dei nostri sette articoli, che bloccano e sconfortano chi parla una lingua che dell'articolo è felicemente priva e non ne sente il bisogno; o chi conosce soltanto l'universale the.
L'invito a scrivere ogni vocabolo è costante, accompagnato da una particolare attenzione per gli allievi arabi i quali – omettendo nella loro scrittura le vocali – nell'italiano le spargono a casaccio o le raggruppano in un qualsiasi luogo della parola. La lettura e la pronuncia degli scolari di madrelingua spagnola va tenacemente depurata dalle e che prepongono alla s più consonante: una lotta spesso perdente; vocale fastidiosa al nostro orecchio e immediatamente rivelatrice della loro origine geografica anche quando non sia di loro giovamento. Insomma: no escuola, no escala. Con i cinesi, attenzione all'ordine delle parole, che nella loro lingua sostituisce il nostro sistema di flessioni, al mutamento della r in l (Luoma anziché Roma), alla difficoltà di pronunciare i gruppi di due o più consonanti. Con i filippini – che sono tra gli allievi che imparano più facilmente – nessun problema derivante dalla loro lingua, il tagàlog, tanto diversa quanto non confliggente con la nostra sul piano della pronuncia.
L'integrazione sociopsicologica si realizza in minor tempo se il docente presenta se stesso e l'Italia in termini obiettivi, senza pompa, senza omissioni, prima di chiedere all'allievo – che è una persona non un oggetto da migliorare per nostro uso e consumo – nome, origine, anni di scuola, famiglia, da quanto in Italia, lavoro..., tutte informazioni certo d'interesse nostro, anche didattico, ma che costituiscono il suo patrimonio, e spesso l'unico. Quanto alla famiglia e all'America Latina, la povertà è tanta che si omette il matrimonio per evitare il costo di pranzo e contorni festosi: nel modulo d'iscrizione le immigrate segnano soltanto il numero dei figli (affidati ai nonni); rara la menzione del compagno.
Nei confronti degli allievi arabi un buon mezzo di integrazione culturale, quasi una familiarizzazione, è quello – al primo incontro con una cifra – di ricordare l'apporto di cultura scientifica e filosofica del mondo arabo ad un'Europa medioevale, barbarica e dormiente: la fantastica brevità, agilità e snellezza dei numeri arabi in sostituzione della lunga, macchinosa estensione dei numeri romani, trionfali sui monumenti, scomodissimi per calcolare. Mentre con gli immigrati dall'Asia non islamica, a cominciare dallo Sri Lanka, un ottimo approccio può essere un minimo di informazione sul buddismo, questa religione tutta terrena, per una vita tranquilla e responsabile.
Con i cinesi giova un complimento, una congratulazione per l'unicità della forma di ogni loro vocabolo: niente flessione, di nessuna specie. Ma soprattutto giova l'ammirazione per la quadrimillenaria civiltà del celeste impero, la sua filosofia morale e sociale, le sue invenzioni anteriori di secoli a quelle europee: la carta, la stampa; la polvere da sparo usata non per i cannoni ma per i fuochi d'artificio.
Contemporaneamente è utile un cenno sul nostro Impero Romano, le sue conquiste, l'unificazione linguistica dell'Europa, quindi sulle lingue neolatine che uniscono e insieme dividono molti degli allievi.
Con tutti, qualche parola sul paese di ciascuno a mostrare (possedendolo) un minimo di interesse, di curiosità, o di condoglianza per un evento negativo, è indispensabile all'inizio di una fruttuosa convivenza civile, anche se temporanea.
Affinché tutti si sentano come a casa loro, alle pareti dell'aula tre carte geografiche: Italia, Europa, un planisfero; alle quali si fa continuo riferimento per il presente, soprattutto per un futuro forse migliore.
La materia umana c'è: sono loro il motore per arrivarci: la maggior parte dei migranti sono diplomati, alcuni, non pochi, laureati. In sette anni di scuola abbiamo incrociato due soli analfabeti, un ragazzo dalle isole Mauritius; una marocchina dalla campagna intorno a Rabat, che però capiva il francese, avendo servito in una famiglia della Savoia.
La scuola è gratuita, non crediamo nel valore educativo del denaro, meno si usa, più si è liberi. Se gli allievi venissero più frequentemente perché hanno pagato, non avrebbe senso e non è così: vengono quando possono, vogliono, non sono stanchi, non sono pigri; improvvisamente possono cambiare abitazione, lavoro, amici, interessi. Imparano perché sono liberi. Solo gli insegnanti non sono liberi, ovunque, in quale che sia scuola.
Virgilio Galassi |