rivista anarchica
anno 37 n. 330
novembre 2007


ecosistemi

 

riflessioni


Adattamenti ai mutamenti climatici

Dopo circa venti anni da quando è stato lanciato un allarme dalla quasi totalità del mondo scientifico, allarme già precedentemente anticipato da singoli esponenti, sui chiari e indiscutibili segnali di mutamenti nel clima e degli effetti che essi potevano apportare al pianeta ed alle sue popolazioni questo tema è entrato nell’“agenda politica” nazionale di diversi paesi.

Non è stato così semplice
Una forte pressione esercitata da ricercatori, ambientalisti e da una minoranza di organizzazioni politiche ha spinto i paesi industrializzati a discutere di clima e successivamente è riuscita a definire una strategia complessiva a livello internazionale, dove le resistenze da parte di interessi specifici erano minori di come si stavano manifestando per il singolo stato.
Nonostante questo gli Stati Uniti d’America, i maggiori consumatori di energia ed emettitori di gas serra, per molto tempo non hanno aderito ed ancora oggi sono critici nei confronti del protocollo di Kyoto e la Cina, che con l’India è una dei paesi a maggiore quantità di emissioni, ha assunto una posizione di freno alla definizione ed applicazione degli accordi internazionali.
Ma i danni incominciano ad essere evidenti anche in questi paesi: la progressione dei deserti, la qualità dell’area nelle aree urbane, lo scioglimento dei ghiacciai con i connessi problemi di riduzione delle risorse idriche, l’aumento delle temperature stagionali e l’instabilità del clima, la frequenza di eventi meteorologici estremi ed incontrollabili incidono negativamente sulla salute e gli interessi della popolazione.
Gli effetti negativi toccano direttamente e diffusamente grandi fasce di popolazione e molti produttori; la preoccupazione si diffonde non solo per quanto in atto ma per gli scenari futuri che prevedono solo ed esclusivamente peggioramenti delle condizioni di alterazione già così gravose. Gli sforzi di molti a marginalizzare il problema non sono più motivabili ed in ragione di ciò i governi sono stati costretti a passare da una fase di negazione o disinteresse ad una fase attiva, non sempre sostanziale, nei confronti del problema.
Ma la questione per i governi non è così semplice in quanto la risoluzione del problema dei mutamenti climatici comporta alcune imprescindibili operazioni:

  • la prima ridurre i consumi complessivi ovvero ridurre l’energia necessaria a produrre, trasportare, distribuire, utilizzare e smaltire miliardi di tonnellate di merci inutili costruite appositamente per fare spendere di più e per permettere profitti.
  • la seconda ridurre la produzione ed i consumi di energia derivante da risorse fossili sostituendole con fonti rinnovabili in tempi ridotti e sicuramente prima dell’esaurimento delle risorse fossili disponibili.

Questi due punti che sono condizioni necessarie e sufficienti per risolvere il problema dei mutamenti climatici in tempi brevi e che appaiono, almeno a noi, del tutto ragionevoli divengono di una difficoltà insormontabile se operate all’interno delle “leggi del mercato”.
La riduzione dei consumi, infatti, comporta il cambiamento delle regole dell’economia contemporanea che si basa sulla continua crescita del PIL, sul recupero da parte del mercato, anche in anticipo attraverso i prestiti, di tutti i soldi delle retribuzioni disponibili, e sulla commercializzazione non solo di prodotti ma anche di servizi, attività e relazioni interpersonali. La sostituzione delle fonti fossili con quelle rinnovabili, invece, implica la sostituzione di gruppi di potere economico, politico e militare che in questo momento governano il mondo contemporaneo.
Non volendo né ridurre i consumi, né sostituire le fonti di produzione energetica, i governi si affannano a trovare la risposta senza modificare l’attuale assetto produttivo, economico e sociale ed hanno concentrato la loro attenzione, con il supporto di parte della produzione, sull’aumento dell’efficienza energetica nella costruzione e nel funzionamento delle merci e sull’integrazione, e non sostituzione come necessario, della produzione energetica da fonti fossili con fonti rinnovabili.
L’evidente incongruenza delle politiche avviate in relazione alla enormità dei fenomeni innescati pone in imbarazzo i governi.
In questo contesto si inserisce la politica degli adattamenti ai mutamenti climatici recentemente sostenuta in ambito internazionale e nazionale.
Considerando che i mutamenti climatici modificano delle condizioni fisiche del nostro ambiente e che ciò può incidere negativamente sulla produzione e sugli insediamenti, la politica dell’adattamento si propone la messa in opera di trasformazioni atte a mantenere costante la condizione operativa o adattare le attività e gli insediamenti alle modificazioni sopravvenute.
L’adattamento alle condizioni ambientali locali è stato il modo con cui gli uomini hanno da sempre operato nel pianeta. Le comunità ponevano in essere modalità costruttive, insediative e produttive connesse appunto con le condizioni locali. Ed è questa la motivazione per cui vi sono stati popolazioni nomadi e stanziali, di raccoglitori-cacciatori e di agricoltori, villaggi in pietra, in fango, in paglia e così via in una infinita varietà di soluzioni per una infinita varietà di ambienti.
Ci si attenderebbe dunque che questa politica potesse riprendere ciò che è già stato carattere degli umani ovvero quella capacità di adattare i luoghi adattandosi al contempo ad essi, proprio attraverso la definizione di comportamenti e soluzioni specifiche in risposta a condizioni specifiche.
Ma anche in questo caso il sistema culturale, produttivo e politico esistente propone risposte praticando gli stessi criteri che hanno generato i mutamenti climatici.
Secondo queste logiche, ad esempio, in presenza di un innalzamento del livello medio marino si possono fare delle dighe, quando si riscontri un’insufficienza delle risorse idriche disponibili si possono costruire bacini artificiali, all’irregolarità della piovosità si può rispondere con l’aumento delle coltivazioni in serra, mentre alla riduzione della piovosità si ricorre a specie agricole che richiedono meno acqua (ed in questo i transgenici rappresentano la soluzione principe), e quando l’innalzamento delle acque marine lambirà le infrastrutture costiere queste potranno essere ricostruite altrove.
Tutto ciò lascia invariata la struttura sociale e produttiva, garantisce (o tenta di garantire) gli stessi vantaggi per le stesse popolazioni che oggi li posseggono, e avviando una nuova stagione di interventi regolatori dell’ambiente incrementa il mercato.
Vista la rapidità e l’entità dei fenomeni connessi alle modificazioni climatiche è difficile ipotizzare che non vi sia la necessità di un adattamento delle popolazioni alle nuove instabili condizioni, ma farebbe piacere se questo avvenisse mirando alla modificazione di quanto nel modello praticato non ha funzionato.
Ad esempio praticando un modello insediativo, produttivo e comportamentale meno energivoro e basso emissivo. Partendo dal presupposto che la principale causa del riscaldamento del pianeta derivi e dalle emissioni prodotte dalle attività umane è consequenziale ipotizzare che se si volesse ridurre il riscaldamento planetario sarebbe necessario rallentare le attività (e quindi mobilità e produzione) degli uomini. Ciò consentirebbe un immediato raffreddamento del pianeta.
Ed allora le misure di adattamento dovrebbero essere volte a capire come ridurre le percorrenze in auto, la quantità delle merci prodotte e spostate, i consumi per riscaldamento e raffrescamento o come organizzare insediamenti a dimensione umana e così via.
Si tratta di comporre un sistema culturale, produttivo e insediativo che possa consentire una maggiore qualità della vita in presenza di un peggioramento delle condizioni ambientali e contemporaneamente influisca positivamente sulle condizioni stesse.
L’ampliamento dei deserti e la riduzione della piovosità in vaste aree del pianeta è una condizione che peggiora la qualità della vita di miliardi di persone e non c’è intervento materiale (diga, sbarramento, rimboschimento, irrigazione) che può essere compiuto, per dimensione, per costi, per mancanza di interesse economico al fine di migliorare tale condizione.
Al limite si può tentare di limitare gli effetti negativi in alcune aree e contenerne i processi di alterazione ma l’artificializzazione dei sistemi naturali peggiora le condizioni della popolazione concentrando ulteriormente la produzione in un numero ridotto di soggetti ed abbandonando intere popolazioni ad un destino di povertà e di sofferenza in quanto non in condizioni di operare quegli investimenti che gli consentirebbero di mettere in pratica quelle misure materiali di adattamento.
Si deve dunque operare in maniera più generale riducendo la capacità discriminatoria connessa ai mutamenti climatici e riportando su tutti, ed in particolare sui ricchi, i danni promossi principalmente dal loro insostenibile comportamento.
Solo trasformando profondamente i caratteri della società contemporanea globale, differenziandone i modelli per le situazioni locali, riducendone i consumi e le emissioni, solo in questo caso le azioni di adattamento, indispensabili, non saranno un ennesimo strumento per fare affari ma diventeranno uno strumento utile a consentire con il minimo danno il trascorrere di quel tempo necessario a recuperare condizioni di equilibrio planetario.


testimonianze


Società e mutamenti climatici: quei selvaggi degli inuit

In quel bel libro che è Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere di Jered Diamond (Einaudi, 2005) è raccontata la storia della colonizzazione norvegese di alcuni territori della Groenlandia. Sulla base di queste informazioni si sono sviluppate le seguenti considerazioni sui rapporti tra società e mutamenti climatici.
La Groenlandia non può essere definita un territorio facile per insediarsi. Un gran freddo, molto ghiaccio, forti venti, inverni lunghi, scarsa vegetazione.
Nel 984 si insediò in alcune pianure con pascoli rigogliosi una colonia di norvegesi divisa in due gruppi che arrivò ad avere complessivamente una popolazione di circa 5000 individui.
Nel 1440 circa questa popolazione si estinse.
Quando i norvegesi si insediarono le condizioni climatiche della Groenlandia erano simili alle attuali, quindi più miti rispetto a quelle che prima e dopo sarebbero state, mentre nel corso dei secoli successivi progressivamente ritornarono ad essere meno miti e più estreme.
La ragione della scomparsa della colonia può essere addebitato principalmente alle mutazioni climatiche.
Eppure quando i norvegesi arrivarono in quei territori questi erano già abitati e rimasero abitati anche dopo la loro scomparsa. La popolazione che viveva in quei luoghi era gli inuit, ovvero gli eschimesi, e sopravvissero a quei cambiamenti climatici che furono così determinanti per i norvegesi.
I norvegesi quando sbarcarono portarono con sé le proprie abitudini che modificarono solo relativamente per adattarsi ai luoghi; anzi forzarono i caratteri dell’ambiente locale per permettere di mantenere quelli che erano i propri modi di vita.
Tutta la loro economia era basata sull’allevamento di animali (in particolare bovini ed ovini). L’inverno era lungo e quindi per permettere il sostentamento delle mandrie e dei greggi era necessario tenerli al riparo e accumulare il fieno per la loro alimentazione. Non solo ma viste le condizioni inappropriate e la domanda del modello alimentare dei norvegesi il numero di questi animali doveva essere abbastanza alto per permettere la sopravvivenza della specie e per rispondere alle richieste di latte e carne.
Ciò implicava che i pascoli disponibili furono sottoposti ad un elevato prelievo nei tre mesi in cui erano utilizzabili per fornire il fieno necessario per tutto l’anno. I pascoli gli anni in cui gli inverni erano più rigidi e lunghi non riuscivano a soddisfare l’esigenze, riducevano di anno in anno la loro produttività e la frequenza del prelievo della vegetazione impoveriva i suoli sottoposti all’erosione del vento e della pioggia.
Ovviamente di pastorizia e di allevamento gli inuit non ne praticavano alcuna forma.
I norvegesi cacciavano le stesse specie degli inuit ovvero mammiferi terresti e marini (caribù e foche) oltre ad altra piccola selvaggina, ma non cacciavano che un solo tipo di foca (mentre ne erano presenti diverse varietà) non cacciavano le balene e non mangiavano pesce. Tutte cose che invece facevano gli inuit.
I norvegesi costruirono 250 fattorie e 14 chiese utilizzando come materiale da costruzione principale la legna e zolle di torba. Gli alberi non erano molti e il prelievo superiore alla disponibilità ridusse notevolmente la copertura forestale e le potenzialità naturali dell’area.
Per costruire gli edifici ci volevano circa 4 ettari di superficie erbosa e molti altri per la continua manutenzione. Ma la superficie era la stessa che dava alimentazione agli allevamenti e quindi la costruzione di edifici era in diretto contrasto con l’alimentazione.
Gli inuit costruivano case utilizzando le risorse più abbondanti e rinnovabili li presenti: la neve per gli igloo e le pelli di foca per le abitazioni estive.
I norvegesi si riscaldavano bruciando legna e quindi incominciarono a tagliare anche alberi non grandi e poi i cespugli in tale maniera disboscarono quasi tutte le aree boscate esistenti (tra l’altro incrementando ulteriormente la perdita di suolo fertile); finiti i boschi incominciarono a bruciare la torba riducendo ulteriormente la disponibilità di terreni utili per il pascolo.
Gli inuit bruciavano per scaldarsi (meno di quanto si scaldavano i norvegesi) e per illuminare il grasso di foca.
La popolazione dei norvegesi era molto elevata rispetto alle capacità dei luoghi e riconcentrava in due limitati territori; si muoveva poco al di fuori dei pascoli e non andava a prelevare risorse in altri ambiti.
Gli inuit erano diffusi su tutto il territorio della Groenlandia, la loro densità era bassissima, i loro insediamenti di piccole dimensioni, la loro mobilità elevatissima.
I norvegesi avevano contatti con il loro paese di origine con cui commerciavano facendosi portare ferro e altri materiali che erano necessari al loro modo di vita in cambio di denti di tricheco (a quei tempi unico avorio disponibile). Sebbene pochi (una due navi l’anno) questi scambi erano fondamentali. Intorno a metà del XIV secolo la Norvegia ebbe una profonda crisi economica e sociale determinata anche da una persistente pestilenza e sul mercato nord occidentale cominciò ad affluire altro avorio. E nessuna imbarcazione partì più per la Groenlandia.
La modalità di vita degli inuit era strettamente fondata sulle risorse locali anche a costo di significative restrizioni.
I norvegesi avevano una struttura sociale gerarchica e il potere era concentrato nei capi politici e religiosi a cui apparteneva la maggior parte delle terre, le imbarcazioni e il controllo del commercio con l’Europa. Furono essi che fecero dedicare parte significativa delle attività delle comunità a procurare e produrre i prodotti da esportare (avorio e pelli d’orso e lana con connesso l’aumento dell’intensità di pascolo) che consentissero i profitti degli scambi.
Gli inuit avevano una struttura sociale che non produceva accumulo e garantiva una notevole autonomia alle scelte individuali e delle micro comunità.
I norvegesi ritenevano alcune azioni degli inuit incomprensibili. Ed in particolare la caccia alla foca dal cappuccio (Cystophora cristata) che loro non praticavano forse non ritenendola consona alla loro cultura e che ancora oggi è frequente oggetto di vignette.
La foca dal cappuccio è una delle poche cacciabili nel lungo e buio inverno. Essa vive praticando numerosi e piccoli buchi nel ghiaccio per respirare, buchi sono difficilmente individuabili e molto numerosi. Per cacciarla bisognava sedersi vicino ad un buco ed attendere al buio che si avvicini la foca e poi, senza poterla vedere, arpionarla. Una caccia lunghissima, scomoda, dall’esito incerto che però forniva alimentazione invernale e che gli inuit praticavano.
Disboscamenti, riduzione delle superfici di terreno vegetale, sovraccarico di pascolo, incapacità ad utilizzare le risorse minori, incapacità di garantire un equilibrio stabile tra insediamenti e risorse tutti questi elementi che già erano presenti dal momento dei primi insediamenti e dimostrano quanto i coloni non avesse capito quanto le condizioni dell’ambiente influiscano sulle modalità di vita.
Gli inuit avevano adattato le loro necessità alle disponibilità la loro vita seguiva i corsi delle risorse, con fatica, ma in equilibrio con l’ambiente. Prima e dopo i norvegesi.
Ma i norvegesi consideravano inuit dei selvaggi e le uniche relazioni che ebbero con loro furono le violenze apportate per allontanarli dai terreni di cui si appropriavano.


osservazioni sulla contemporaneità


In balìa di una società bàlia

Il modello culturale e sociale auspicato e sostenuto dalle norme è teso a uniformare i comportamenti all’interno di regolamenti specifici per uso e gestione degli strumenti e delle attività.
La regolamentazione dei comportamenti quindi non afferisce più esclusivamente all’ordine etico, alla disciplina morale, ma alle modalità del fare che in tempi passati, seppur recentemente, era invece affidata alla capacità tecnica ed al discernimento delle persone.
I regolamenti si rivolgono a come si utilizzano gli strumenti, come si guidano le macchine, si usano gli elettrodomestici, i computer etc. ma anche a come ci si muove, attraversa una strada, prende un autobus, ci si siede su di un treno, a come si mangia (le indicazioni di scadenza degli alimenti, le modalità di uso etc), alle precauzioni per i viaggi, all’uso del tempo libero, etc.
L’interesse principale è quello di garantire un uso non nocivo delle strumentazioni e dei luoghi affinché, una volta eventualmente danneggiati dal di esso uso, non si possa ricorrere in sede legale al rimborso di un danno quantificato esclusivamente in termini economici.
Il risultato vista la completa immersione in merci e la stretta relazione tra i luoghi e le stesse è che viviamo in un sistema che ci indica tutti i percorsi della nostra quotidianità non imponendoci un comportamento complessivo ma facendolo derivare dall’imposizione di una modalità d’uso dell’infinita serie di merci e di luoghi privatizzati che un cittadino medio utilizza quotidianamente.
È un complesso di indicazioni non rispondendo alle quali il nostro mondo non funziona (provate ad avviare una lavatrice con un piede o a guardare la televisione con lo schermo voltato verso il muro) ma che alla fine omogeneizza i nostri comportamenti in maniera capillare (se pensiamo anche all’uniformazione delle seggiole per rispondere alle direttive internazionali capiamo che le variazioni del nostro stare sono molto, molto relative).
Il tutto viene fatto sulla base della garanzia della sicurezza: una società quindi che non permette di sbagliare che vorrebbe che non si sbagliasse ma che in realtà non permette di capire in quanto il fruitore dello strumento non è altro che un mimo che ripete dei gesti dettati dalle indicazioni d’uso dello strumento.
Ma i manuali della vita quotidiana vengono definiti dai venditori che ci indicano come si compiono gli atti quotidiani, come si certificano se ben fatti e sono tali e tante le azioni che debbono essere svolte secondo precise indicazioni che l’individuo ha la propria esistenza definita in comportamenti dettati dal mercato

Cambiarsi per cambiare
Il percorso di modificazione dei propri comportamenti aumentando la criticità individuale rispetto a quanto viene proposto dal modello economico contemporaneo sembra essere ineludibile.
L’acquisizione di una consapevolezza critica e la pratica di una coerenza qualifica l’operato dei singoli ed è fondamento per qualsiasi modificazione non autoritaria delle società.
Ipotizzare che questo sia l’unico ambito di azione è limitativo in quanto alla indispensabile modificazione dei singoli dovrebbe corrispondere una modificazione o una limitazione dei comportamenti dei soggetti che impongono tali diffusi modelli economici.
Rimandare sui singoli cittadini scelte che dovrebbero essere comuni è un atto furbo ed interessato attuato consapevolmente dai grandi speculatori economici.
Gli stati hanno destrutturato, marginalizzato ed impedito lo sviluppo di altre forme di organizzazione sociale e gli stati sono a loro volta destrutturati dal modello liberista globale che trovava in essi quell’impedimento alla realizzazione dei propri interessi. Un impedimento che derivava dalla mediazione attuata dai governi rispetto a delle richieste di interesse comune che seppure minime comunque risultavano una limitazione alla privatizzazione delle risorse, all’esclusione degli individui e delle comunità alla realizzazione di profitti di dimensioni inimmaginabili.
Il confronto diretto cittadino mercato è molto difficile: da un lato un singolo individuo dall’altro una serie di organizzazioni strutturate per vendere, per penetrare negli apparati pubblici e, in particolare, per governare quelle strutture internazionali che gestiscono i finanziamenti (Banca mondiale, fondo monetario internazionale, etc.).
Cambiarsi è dunque azione fondamentale ma contemporaneamente è opportuno ricomporre quelle relazioni sociali che insieme si sostengano in pratiche autonome e critiche rispetto all’imperante mercato.

L’impronta di Cuba
L’“Indice di Sviluppo Umano” (HDI) del Programma di Sviluppo delle Nazioni Unite (UNDP) è calcolato su di una seri di variabili tra cui l’aspettativa di vita, l’educazione e il PIL pro capite. Considerando contemporaneamente l’HDI e i valori dell’impronta ecologica dei paesi, come fatto nell’ultima edizione del Living Planet Report. Rapporto 2006 sul pianeta vivente, curato dal WWF, risulta evidente come generalmente i paesi che superano ala soglia di sviluppo umano alto (quindi quelle che sono maggiormente qualificati rispetto ai parametri del UNDP) sono anche quelli che hanno una Impronta ecologica elevata ed hanno un deficit rispetto alla biocapacità del proprio paese (ovvero consumano più di quanto il territorio del paese produca).
Unico paese che soddisfa il requisito di essere al di sopra della soglia di sviluppo umano alto e di avere un impronta sotto la biocapacità media disponibile pro capite (1,8 ettari globali) è Cuba.
Questo dato stimola una riflessione che attiene al modello economico. Se non appare sufficiente sostenere che questo è il risultato dell’organizzazione “comunista” della società cubana, perché troppi sono stati gli esempi di stati comunisti con situazioni di consumo di risorse totalmente diverse, sicuramente la condizione può essere motivata dal lungo e continuo embargo cui il paese è sottoposto da decenni.
Questa situazione ha infatti determinato che la maggior parte delle risorse utilizzate siano quelle presenti nel paese, ovvero un modello che considera in primo luogo la capacità di operare sulle potenzialità del luogo senza danneggiarle ed in cui il commercio estero è una integrazione ed i consumi interni sono fortemente limitati dalla disponibilità di risorse locali.
Un’isola a tutti gli effetti come molte erano le isole sociali, culturali e produttive prima dell’avvento del colonialismo e poi della globalizzazione.
Indipendentemente dai limiti riscontrabili nel governo di quei territori e delle condizioni in cui vive la popolazione, e ponendosi come ambito di riflessione esclusivamente il rapporto con le risorse questo dato fa riflettere sulle possibilità di attuare un sistema aperto ma equilibrato in cui non coercivamente la popolazione sia connessa alle potenzialità ambientali locali.

Adriano Paolella

La prima puntata di questa rubrica, dedicata a “Energia e comunità”, è stata pubblicata sul n. 295 di “A” (dicembre 2003-04). La seconda, dedicata a “Governi, comunità, mutamenti climatici”, è stata pubblicata nel n. 296 (febbraio 2004). La terza, “Deindustrializzarsi”, è stata pubblicata nel n. 298 (aprile 2004). La quarta, dal titolo “Fuori”, dedicata alla necessità di modificare quei comportamenti quotidiani che sostengono l’attuale modello culturale, sociale, economico, è stata pubblicata nel n. 301 (estate 2004).