rivista anarchica
anno 38 n. 332
febbraio 2008


società

Lo sconquasso della politica istituzionale
di Andrea Papi

 

Contro il pensiero unico, la necessità di pensare e proporre nuove strade.

 

La politica istituzionale si sta ridefinendo, in gran confusione in verità, tutta però all’insegna del riproporsi pari pari a ciò che è ed è sempre stata da quando siamo repubblica. Non si ridefinisce per l’insorgenza di nuove idee, bensì perché si è ritrovata vecchia, non adatta a gestire politicamente il presente. Non è dunque una ridefinizione dettata da uno stimolo a ripensarsi, in quanto pensiero che sente il bisogno di innovarsi, ma un tentativo di riadattarsi come tecnologia gestionale e amministrativa in un vortice di spudorato bisogno di conservazione. Dal mio punto di vista venendo meno completamente al senso originario per cui prese avvio il pensare politicamente.
Tutto avviene con una concomitanza strabiliante tra centrodestra e centrosinistra, come pure tra destra e sinistra. Il che vorrebbe significare che gli uni e gli altri, a mo’ di funamboli, scivolano concordemente sulla stessa corda tesa, in parte pericolosamente, ma soprattutto spinti e stimolati da una comune tensione. Il fine principale dichiarato è il raggiungimento di una pratica dell’alternanza governativa, cioè a dire che l’una e l’altra sono e vogliono essere concorrenziali solo come proposizione gestionale dello stesso sistema, non come visioni alternative l’un l’altra. Ciò che è considerato centrale è il funzionamento del sistema vigente, unico ineludibile riferimento della programmazione della democrazia rappresentativa.
Non si discute più se ha senso, se come struttura portante è veramente in grado di rispondere agli sbandierati bisogni sociali cui dovrebbe dare risposte. No! È dato per assodato che non se ne può fare a meno, soprattutto, ancora più grave, che non possono esistere altre possibilità strutturali in grado di sostituirlo. Eletto più o meno consapevolmente a immortale “moloc” dell’impostazione e della direzione delle società, il sistema di poteri economico e politico in atto da esperimento originario per realizzare “la felicità e la ricchezza delle nazioni” (vedi Adam Smith) si è trasformato, di grado in grado, nell’unico ritenuto accettabile e perseguibile, indipendentemente che realizzi o no ciò per cui è stato pensato e impostato. C’è quasi un rifiuto aprioristico di poterlo mettere in crisi. Per usare un eufemismo popperiano, da diversi decenni non è più sottoponibile a una metaforica “cartina di tornasole della falsificazione”, perché c’è e ci deve essere al di là che funzioni o no, al di là che abbia senso continuare nella follia endemica di cui è portatore e causa.

Percorsi e riflessioni

Ci troviamo così tra capo e collo il malefico regalo, non richiesto e non voluto dai più, di un pensiero e di una struttura di sistema unici, che ci impongono un modo di vivere e un insieme di valori omologati in molti casi aberranti, che non ammette altre possibilità al di fuori di sé. In modo non dichiarato e non scientifico il sistema imperante è stato subdolamente elevato a dogma esistenziale assolutizzante e assolutista, con la grandissima capacità d’imporci un’ineguaglianza di base. Spietatamente siamo divisi tra chi può e chi non può, tra chi ha moltissimo e chi ha poco o addirittura nulla, tra chi decide e comanda e chi può solo subire, tra chi si arricchisce spudoratamente all’ennesima potenza e chi non arriva alla fine del mese, o addirittura si trova costretto a morire di fame e di stenti, tra chi gode a vari livelli della ricchezza creata e chi vive in stato di schiavitù. Questo contesto strutturale, che non può che essere visto e vissuto come aberrante per ciò che naturalmente genera, per interesse di pochissimi sui moltissimi è invece diventato l’unica vera e potente religione accreditata e imposta all’insieme del genere umano. Ogni altro tentativo è sistematicamente relegato nelle cripte del pensiero e della conoscenza informata, tacciato di eresia e perciò condannato e messo bellamente da parte.
Eppure la politica non è nata e non esiste per realizzare questa parodia di sé. Fin dai tempi dei Greci, che fiorirono allo splendore dopo esser riusciti miracolosamente a non soccombere all’impero persiano, la politica è stata una branca del pensiero filosofico e fin da allora si è assunta il compito di scandagliare a fondo e di mettere in crisi i sistemi di potere in atto, riflettendo soprattutto su quale tipo di società fosse migliore, nel tentativo di superare le storture delle strutture dominanti. Non a caso Platone e Aristotele, sommi pensatori, scavando nel presente che avevano davanti ipotizzarono anche utopie e situazioni altre. Poi venne Roma, che tentò d’imporre al mondo la filosofia del suo impero. Ma nei secoli si disgregò e lasciò l’eredità al cristianesimo, che attraverso l’imperio dei suoi cleri ha sempre tentato, senza però riuscirci mai fino in fondo, di teocratizzare il mondo ad essa sottoposto. Poi è sopraggiunta la modernità, che con le rivoluzioni americana e francese in particolare è riuscita a rimettere tutto in discussione.
Soprattutto dalla rivoluzione francese in poi il pensiero politico moderno ha messo in crisi sistematicamente i sistemi di potere vigenti e ha pensato continuamente l’alternativa, ipotizzando altri modi di vivere convivere e gestire la società. Prima dell’oggi la politica ha rappresentato sempre percorsi e riflessioni per comprenderne funzionamenti e senso, in molti casi per la ricerca di tipi di società altre dal presente nel tentativo di superarne le storture e le ingiustizie. Solo in questa fase mediatizzata, dove i bisogni della spettacolarizzazione mercificata sopravanzano di prepotenza capacità e bisogno di riflettere per capire, è stata momentaneamente ridotta a scienza della gestione pragmatica e della burocrazia amministrativa, diventando un sostegno del delirio di strenua conservazione in atto.
Alla luce di questo percorso di adattamento opportunista che caratterizza la politica istituzionale, ci troviamo di fronte ad una frenetica ridefinizione delle forze politiche parlamentari, tutte in qualche maniera alla ricerca spasmodica di accaparrarsi poltrone governative, perché è di lì che si può sperare d’incidere con qualche efficacia. Così nel giro di poco più d’un paio di mesi abbiamo avuto, con una successione da film d’azione effetti speciali compresi, il nuovo Pd, il rinnovato Psi, i nuovi liberaldemocratici diniani, la nuova destra di Storace, il “popolo della libertà” berlusconiano che in quattro e quattr’otto ha affossato Fi e casa delle libertà, la nuova federazione sinistrese “sinistra arcobaleno”, con conseguenti defezioni in diversi rivoli da rifondazione e dai dilibertiani. A guardarli in modo disincantato sembrano tutti affluenti, di destra e di sinistra, che rimpolpano lo stesso fiume. Ma proprio come il Po, questo fiume è talmente inquinato già di suo che il continuo fluire di acqua, altrettanto sporca e marcia, non fa che aggravare in continuazione il suo stato.

Alternativa radicale

In tutto questo bailamme il dramma maggiore, almeno dal nostro punto di vista, lo sta vivendo la sinistra, perché sistematicamente, una volta dopo l’altra, sta ripudiando le sue radici ideali di esserci per l’alternativa. Pur ridefinendosi anch’essa, la destra in fondo non fa che tentare di adattare ai tempi la sua coerenza di polo ideale della conservazione. Guardando la sinistra ci accorgiamo che non mira più alla trasformazione radicale e si trova compromessa. Stiamo vivendo all’interno di un paradosso: il sistema di potere arranca ed è sempre meno funzionale a se stesso, eppure il pensiero e la pratica di sinistra, che per questo in teoria dovrebbero acquistare forza, si trovano al contrario sempre più subalterni. Una debacle dovuta al fatto che le alternative sperimentate sono del tutto fallite. La socialdemocrazia ha rinunciato al socialismo ed è stata costretta a diventare parte integrante della vecchia borghesia. Il bolscevismo è invece imploso perché aveva messo in piedi una struttura incapace a reggersi. Sono entrambe fallite perché in realtà non erano un’alternativa, ma sistemi di potere diversi per gestire e mantenere la stessa cosa. Si può dire allora che la sinistra autoritaria storica è rimasta solo vessillifera dell’autorità smettendo di essere sinistra.
Questo clima emanato dai flussi istituzionali, che si abbattono su tutti noi con un bombardamento mediatico incessante, sembra far aleggiare la paura di ridefinire una strategia in grado di porsi veramente in alternativa radicale al sistema vigente. Sembra predominare uno stato psicologico di adeguamento, con la capacità di risucchiare ogni forza all’interno di un gorgo magmatico di presunto pragmatismo realista. Certo! Ci si continua a ribellare alle tante ingiustizie, soprattutto dal basso. Ma sempre solo nell’ottica di aggiustarle e renderle accettabili. Non sono mai l’occasione di ragionare in termini di costruire il nuovo e veramente diverso. Si denunciano i problemi e si offrono soluzioni, ma sempre interne al sistema. L’unica strategia politica elaborata ultimamente un po’ diversa è la democrazia partecipativa. Purtroppo non è altro che una stampella del sistema stesso.
È ora di riprendere a ragionare ed operare seriamente in termini autenticamente politici. È ora di rimettere nuovamente in discussione il presente stato di cose, scandagliandolo e conoscendolo a fondo per denunciarne la sostanziale non riformabilità. Ogni tentativo di riforma, guarda caso infatti, si risolve sempre in un adattamento conservativo, permettendo il perpetrarsi all’infinito della riproduzione continua degli stessi effetti sistemici: disuguaglianze e ingiustizie sociali, incremento di militarismo e logiche di guerra, recrudescenza dello sfruttamento del lavoro e della subordinazione sociale, accumulo crescente di ricchezze finanziarie in pochissime voraci mani, aumento costante di povertà indigenza morte per fame e stenti. Bisogna prendere in pieno coscienza, traducendolo in trasmissione e diffusione di un’ampia cultura libertaria, che i problemi che ci sono non sono separati dal problema vero, di sostanza, che altri non è che il sistema stesso che incombe e ci opprime. I problemi che ci sono non possono essere risolti da soli, separatamente uno dopo l’altro, perché rimanendo intatto e integro il problema principale, non possono che riformarsi e riprodursi, nella massima parte dei casi in modo amplificato. Bisogna riappropriarsi della coscienza che la soluzione definitiva ed autentica non può che risolversi nel superamento dello stato di cose presente.

Libertà vera

L’alternativa però va definita. Bisogna chiarire qual è la direzione di marcia, verso dove si vuole andare. Il perché è chiaro! Questo mondo, coi tipi di società che ci costringe a subire, fa schifo e tende a far sempre più schifo. Non solo non permette di vivere la felicità, tensione eudemonistica cara a Fourier, ma soprattutto genera senza tregua infelicità, perché c’impone condizioni di vita tristi e nella maggioranza dei casi inaccettabili. Noi tutti dobbiamo cominciare a volere riprendere con forza le redini dei nostri destini, scrollandoci di dosso l’imposizione autoritaria e criminale dei poteri costituiti, di quelli forti e di quelli occulti. Per questo dobbiamo desiderare e proporre di costruire una società fondata su principi e presupposti forti, irrinunciabili e realmente alternativi: libertà vera, eguaglianza dei diritti e delle possibilità, fratellanza/sorellanza e solidarietà, assieme a un rinnovato rapporto tendenzialmente armonioso col contesto naturale di cui siamo parte. Questi e non altri debbono e possono essere i desideri espressi della nuova società cui auspichiamo.
Dobbiamo allora ripensare, esistenzialmente culturalmente e politicamente, come e cosa fare, sia per ribellarci contro il presente oppressore sia per costruire il nuovo cui tendiamo. Per farlo è indispensabile discutere, progettare, sperimentare e lottare, mettendo in campo metodi e mezzi coerenti coi fini e funzionali alla realizzazione delle nostre proposte. Un processo d’azione, di pensiero e di costruzione politica che tenda ad espandersi come partecipazione e credibilità, rifuggente ogni richiesta di fiducia in dirigenze che ci vogliano comandare, perché se c’è, la libertà non può che essere contagiosa e fondata su parità e reciprocità. Sopra ogni cosa bisognerebbe diventare capaci di espandere e diffondere una solida cultura libertaria, che chiami a partecipare tutti gli esseri umani nella volontà comune di sganciarsi da ogni forma di oppressione e sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di costruzione condivisa di nuovi ordini della molteplicità sociale, elastici, non impositivi e aperti al sincero apporto di ognuno.

Andrea Papi