rivista anarchica
anno 38 n. 332
febbraio 2008


 

Il terremoto, il Sud
e Carmelo Bene

“Essere miserrimi servi dello Stato, della famiglia, della coppia. Di se stessi a volte. Una ventata di grande poesia può benissimo spazzare a zero e fare i conti con millenni” e ancora “Adoro questo di Napoli, la sua non disponibilità a lasciarsi governare da nessuno” oppure “Ma io non credo in questa parola masse, credo nell’unicità di ciascuno”. Parole dure, parole di un grande provocatore e maestro del paradosso. Parole di Carmelo Bene. Parole che ritroviamo nel libro-intervista, della Plectica Edizioni, La voce mancante. Dialogo con Carmelo Bene (a cura di Michele Schiavino e Lucia Di Giovanni, postfazione di Marco Dotti, collana Corpo Novecento, Plectica Edizioni, 2007. Il libro di 53 pagine, € 8,00, può essere richiesto a: Edizioni Plectica, casella postale 146, 84100 Salerno; oppure a: plectica@tiscali.it).
Un libro con Carmelo Bene che parla di libertà, di Napoli, del teatro, del Sud, dei politici e del terremoto. Ed è proprio a partire dal terremoto dell’Ottanta che questo prezioso dialogo trova una prima idea. La data è di quelle che lasciano ferite nella memoria: 23 novembre 1980, quando il terremoto squarciò larghe zone della Campania e della Lucania. E proprio l’evento sismico sarà anche un “pretesto” dalla lacerante forza provocatoria di quel grande visionario delle arti che fu Carmelo Bene. A distanza di due anni dal terremoto, il Carmelo nazionale sarà a Salerno per un’insolita Lectura Dantis per ricordarne le vittime, poi a Modena con Pinocchio e a breve giro nuovamente a Napoli al Teatro San Carlo ancora con il suo Pinocchio “più napoletano di Pulcinella” e con dentro il fragore della devastazione sismica.
Da questo preciso momento storico e dopo una serie d’incontri tra Schiavino, Di Giovanni e Bene matura l’intervista. Un’intervista che inizialmente, nel 2002 su invito di Pasquale De Cristofaro, era stata “tradotta” in immagini ovvero un cortometraggio dal titolo A piena voce, firmato dallo stesso Schiavino, dove la voce off di Carmelo Bene taglia, attraversa, scompone, decompone (con un montaggio di lucida pienezza situazionista) immagini delle macerie post-terremoto. Ora quest’intervista trova la veste del libro, accompagnato da un’analitica postfazione di Marco Dotti (già curatore con Antonio Attisani dello splendido volume di Carmelo Bene e Umberto Artioli Un dio assente. Monologo a due voci sul teatro, edito da Medusa nel 2006).
La voce mancante ha un andamento interamente giocato sul paradosso, ciclicamente abitato dalla personale lettura-non lettura del terremoto dell’Ottanta da parte di Carmelo Bene. Nella grandiosità della sua voce ritroviamo lo scultore della “phoné” che sin dai suoi esordi “scandalosi” ha saputo muoversi sulla “tragica” soglia di un negativo che nel suo dirsi conduce alla costruzione delle cose. Rivediamo il visionario elisabettiano nelle sue ridondanti narrazioni, nella densità dei suoi attentati formali e nei suoi curatissimi decentramenti del gusto.
Ripensiamo il poeta dell’inattualità nella sua vorace piega da cui emergono (per citare solo dei frammenti): pieni omaggi a quel “grande teatrante” di Jacques Lacan e continui riferimenti a Dante Alighieri, Eduardo De Filippo, Heidegger, Schopenauer, Nietzsche e Pasolini. Insomma, in questo libro ricompare un Carmelo Bene al massimo della propria ansia visionaria e provocatoria. È sconvolgente rileggere un potente devastatore della scena, dello schermo, del Novecento che, con celato dolore, parla delle radici della storia di un Sud sempre sull’orlo del baratro. È semplicemente emozionante ritrovare quel raro magister che è riuscito ad inventare un nuovo modo di “essere spettacolo”: nella ferocia, nella beffa, nella libertà, nella eroicità di vita, nel numero infinito di progettualità. E di vere provocazioni di grande tensione libertaria che ancora oggi colpiscono nel segno e fanno pensare.

Alfonso Amendola

 

 

Nero come
il caffè

È difficile scrivere dell’Africa, quasi totalmente ignorata dai libri di storia, se non fosse per quei brevi paragrafi che ne parlano, in cui, però, è presentata come oggetto di contese territoriali e non come soggetto di una propria tradizione. In che modo, allora, avvicinarsi, nel rispetto più totale? Personalmente ho scelto di ascoltare quelle voci che sono state sopraffatte dalle urla del consumismo, dell’immagine, della finzione, del guadagno, della fama; quelle voci in attesa di essere comprese, perché tanto hanno da raccontare. Si tratta di storie vere, di storie immaginarie, intrise – a prescindere dalla loro veridicità – di una sofferenza secolare che ha fermato lo sviluppo e la libera vita dei Paesi africani, e della quale i responsabili siamo noi occidentali, noi che ci vantiamo di avere la supremazia sulle altre razze, di essere i più evoluti.
Chi mi può insegnare, più di un africano, cosa significa essere africano?
Dell’Angola, paese fra i tanti ad aver subito lo strazio dello sfruttamento colonialista, ha scritto Pepetela (1) nel suo lavoro più importante, Mayombe (2).
Il Mayombe è la foresta tropicale in Cabinda, enclave in terra angolana a ridosso del fiume Congo, e nella quale è ambientata la lotta indipendentista del nucleo dell’MpLA (3) narrata dall’autore: in realtà non si tratta di un’esperienza autentica, anche se di fittizio ci sono solo i personaggi con le loro fragilità; ad una prima lettura ciò che appare evidente è la guerriglia portata avanti dai protagonisti, ma uno sguardo più profondo permette di vedere oltre la superficie. Il vero senso, il vero messaggio, arriva per bocca dei personaggi, tutti caratterizzati da un soprannome che in parte li priva di una precisa identità, rendendoli d’altro canto, universali.
Teoria, l’intellettuale del gruppo, è il primo a parlare di sé, in una confessione che abbraccia il dolore di un’esistenza passata alla ricerca dell’approvazione del resto del mondo: «Sono nato in Gabela, la terra del caffè. Dalla terra ho ricevuto il colore scuro del caffè, eredità di mia madre, mescolato al bianco spento di mio padre, commerciante portoghese. Racchiudo in me l’inconciliabile e questa è la mia forza motrice. In un universo di sì e di no, di bianco o di nero io rappresento il forse. Forse significa no per chi vuol sentir dire sì e significa sì per chi si aspetta un no. La colpa è mia se gli uomini esigono purezza e rifiutano le combinazioni? Sono io che devo trasformarmi in sì o in no o sono gli uomini che devono accettare il forse? […] La mia storia è quella di un alienato che si aliena, sperando di liberarsi. Ancora bambino volevo essere bianco, perché i bianchi non mi chiamassero negro. Adulto volevo essere negro perché i negri non mi odiassero. Qual è il mio posto, allora? […] La mia vita è lo sforzo di dimostrare a tutti che c’è sempre posto per il forse» (4).

La guerra e la libertà, la povertà e l’indipendenza, la voglia di trovare in sé la forza di creare un governo che non succhi la linfa e le risorse dell’Angola a favore di pochi – e stranieri – ma che offra invece, a tutti, la possibilità di condurre una vita dignitosa, senza sopraffazione dell’uomo sull’uomo. Sono presenti tutti i temi che, più che mai, sono attuali e urgenti. Di nuovo Pepetela lascia trasparire il suo pensiero attraverso un personaggio, Mondonuovo (non è già il soprannome un invito alla speranza?): «La gente deve studiare perché è il solo modo per poter pensare con la propria testa, e non con quella degli altri. L’uomo deve sapere molto, sempre, e sempre di più, per conquistare la sua libertà, per essere in grado di giudicare. Se non capisci le parole che pronuncio, come puoi sapere se sto dicendo cose giuste o no? Dovrai domandare a qualcuno. Dipenderai sempre da un altro, e non sarai mai libero. È per questo che tutti devono studiare; l’obiettivo principale di una vera rivoluzione è far studiare tutti quanti» (5).
Nel 1961 la rivoluzione c’è stata, i dati ufficiali parlano di 20 mila morti, vittime di una fra le più sanguinose repressioni della storia dell’intero continente africano. La verità, però, è rimasta solo nei cuori di chi, quegli orrori, li ha vissuti.
«La mia terra è ricca di caffè, ma mio padre è sempre stato un povero contadino […]. Ero piccolo nel 1961 ma mi ricordo ancora le scene di bambini sbattuti contro gli alberi, di uomini interrati fino al collo, la testa fuori e il trattore che avanzava tagliando le teste con la lama fatta per aprire la terra e dare ricchezza agli uomini» (6).
Concludo con un’ultima citazione, che esprime, in tutta la sua profondità, l’idea chiave della vita umana attraverso l’immagine – mutuata da tantissime culture – del mare. Di fronte a tutta la sofferenza dell’Africa, restare impassibili significa perpetrare la violenza.
«Sono nato fra i diamanti, e non li ho mai visti; e forse proprio perché nacqui fra i diamanti, ancor giovane cominciai a sentirmi attratto dal mare […]. L’immensità del mare che non può essere modificata da nulla, mi ha insegnato la pazienza. Il mare unisce, avvicina, lega. Anche noi possediamo il nostro mare intimo […]. Il nostro mare è formato da gocce di diamante, sudore e lacrime schiacciati» (7).

Laura Scaglione

Note

  1. Pseudonimo di Artur Carlos Maurício Pestana dos Santos (Benguela, 1941 – ).
  2. Pepetela, Mayombe, introduzione di Basil Davidson; traduzione di Anna Maria Gallone, Lavoro, Roma, 1989.
  3. Movimento Popular de Libertação de Angola: era un gruppo armato che, contrariamente ai regionalismi e ai tribalismi tradizionali, si proponeva l’unità dell’intera Angola. Attivo fin dalla rivolta del febbraio 1961.
  4. Pepetela, Mayombe, introduzione di Basil Davidson; traduzione di Anna Maria Gallone, Lavoro, Roma, 1989, p. 6 e p. 11.
  5. Ivi, p. 71.
  6. Ivi, pp. 28-29.
  7. Ivi, pp. 121-122.

 

Da Lenin
a Stalin

Sono pochi i libri che meritano davvero di essere letti dopo settant’anni dalla loro pubblicazione. Nel paese della grande menzogna. URSS 1926-1935 (prima edizione integrale a cura di Paolo Sensini, Jaca Book/Fondazione Micheletti, Milano, 2007, pp. LXVII + 503. euro 35,00) di Ante Ciliga è uno di questi pochi libri da conservare in ogni biblioteca. Sembra un romanzo e invece è un libro di memorie.
Nel paese della grande menzogna è un testo doppio. Si tratta di un’opera pubblicata in francese a Parigi in due tomi, il primo dei quali, Au pays du grand mensonge, appave mutilato nel 1938 e il secondo, Sibérie, terre de l’exil et de l’industrialisation, è uscito solo nel 1950. Il traduttore e curatore, Paolo Sensini, ha il grande merito di avere riproposto al pubblico italiano questo testo assolutamente centrale della storia del Novecento.
L’autore di questo libro, il rivoluzionario istriano Ante Ciliga, sembra uscito da un romanzo di avventura. Nasce nel 1898 in Istria da famiglia croata, nel Regno di Ungheria. Prima simpatizza per l’irredentismo croato, poi con la fine della guerra diviene socialdemocratico e partecipa alla fondazione del Partito comunista jugoslavo (KPJ). Ciliga è quindi un dirigente comunista jugoslavo di lingua croata ma è cittadino italiano dal 1919. Dopo una dura polemica con i vertici del KPJ, nel 1926 è inviato a Mosca dalla frazione di sinistra come insegnante nelle scuole del partito. A seguito dell’impatto con l’URSS matura le proprie convinzioni. Partecipa ai lavori del IV Congresso dell’Internazionale Comunista e aderisce all’opposizione trockista. Prima funzionario del Comintern, poi professore universitario, è arrestato poco dopo con tutto un gruppo di militanti rivoluzionari russo-jugoslavi.
L’arresto di Ciliga avviene nel momento in cui Stalin ha preso il controllo del partito. Prigioniero della polizia segreta è inviato nella prigione di Verhneural’sk, ove si trovavano segregati ormai da diversi anni gli oppositori politici “di sinistra” del regime sovietico. Il carcere è un “isolatorio politico”, una specie di incrocio fra un confino strettamente vigilato e un’istituzione carceraria in cui congelare quei militanti politici che comunque hanno fatto parte della sinistra rivoluzionaria (in genere anarchici, socialrivoluzionari, menscevichi e bolscevichi dissidenti). Tre anni dopo, scontata la pena, è mandato in esilio interno in Siberia. Croato di nascita ma cittadino italiano, grazie a una serie di elementi fortuiti, ottiene il passaporto italiano e viene espulso dall’URSS nel dicembre del 1935.
Poco dopo, prende subito contatti con Trockij e si stabilisce a Parigi dove propone un’azione comune agli antistalinisti di diversa estrazione a sostegno dei detenuti politici. Appoggiato da Trockij, Ciliga scrive Au pays du grand mensonge, pubblicato nel marzo1938 da Gallimard e subito dimenticato con la Seconda Guerra Mondiale. I rapporti con Trockij si raffreddano e poco dopo è attaccato personalmente dallo stesso futuro maresciallo Tito. Dopo l’uscita del primo libro, scrive la continuazione riguardante il periodo di esilio interno. Il testo, redatto fra il 1938 ed il 1941, ha il titolo Sibérie, terre de l’exil et de l’industrialisation, e sarà poi pubblicato nel 1950 sempre in Francia.
Nel paese della grande menzogna è molto di più di un libro di memorie scritto da un mancato dirigente della Terza Internazionale. L’opera di Ciliga è un documento di prima mano sui meandri delle vicende sovietiche, ma è anche il tentativo di elaborare delle soluzioni teoriche innovative. Il problema era chiaro: “Perché la rivoluzione più audace ha dato origine alla peggiore delle schiavitù? Come si è riusciti cancellare l’essenza della Rivoluzione d’Ottobre pur conservando le sue forme esteriori? In che modo è stato possibile resuscitare lo sfruttamento degli operai e dei contadini senza tornare al capitalismo? Perché la rivoluzione che voleva sopprimere lo sfruttamento ha istituito a sua volta un nuovo tipo di sfruttamento?” (cfr. p. 114).

Al centro di tutto il libro vi è l’intenso dibattito politico che attraversava Verhneural’sk. I termini del dibattito e le informazioni presentate spesso sono difficili da valutare per la loro unicità. Il tono mantiene un profilo basso e indica la volontà di fornire informazioni “ragionevoli” con lo scopo di essere poi creduto sull’essenziale della questione. In questo luogo hanno vissuto per anni molti degli interlocutori personali di Trockij di cui, prima di scomparire nel nulla nell’epoca delle grandi purghe, oggi resta solo il nome. Gran parte di questo dibattito si è inabissato nel nulla negli archivi della polizia segreta sovietica e la fonte principale di questo dibattito sono questo resoconto di Ciliga e qualche documento giunto fortunosamente nelle mani di Trockij.
Il resoconto di questo dibattito e la stessa esperienza personale di Ciliga hanno il merito di aprire molte questioni che riguardano sia la Rivoluzione Russa sia tutta l’esperienza novecentesca.
La prima è abbastanza semplice. Ciliga e gli altri comprendono che il nesso logico fra la statalizzazione della vita economica e sociale e il cosiddetto socialismo risale all’epoca del “comunismo di guerra”. In questa fase i bolscevichi riescono a sopravvivere al potere perché, a prezzo di sforzi sovraumani, sono capaci di organizzare un esercito rivoluzionario e ad alimentare le città. Il “socialismo” in questa fase appare come una completa statalizzazione della vita sociale; un allargamento alla produzione di alcune forme statali di distribuzione annonaria che già erano presenti nella vita sovietica. Nella sua forma compiuta, il nuovo Stato rivoluzionario è un capitalismo monopolistico di Stato che, per il gruppo dirigente bolscevico, coincide con la preparazione materiale del socialismo, una specie di anticamera dell’età futura che per ragioni contingenti deve essere una spietata dittatura.
Ciliga comprende che la rivoluzione bolscevica ha inaugurato un modello di sviluppo che in epoca staliniana continua a perfezionarsi. Fra i due momenti vi è un’apparente cesura ma, di fatto, il modello di sviluppo staliniano è anche il risultato di un modello di difesa della rivoluzione e di gestione del sistema industriale scelto dal gruppo dirigente bolscevico quando Lenin era ancora in vita. Con la vittoria il Partito-Stato si impone sia come regolatore del soddisfacimento dei bisogni sociali (lato della domanda aggregata), sia come capitalista collettivo capace di sostituirsi nel settore industriale ai capitalisti privati che prima della guerra fungevano da catalizzatori dell’investimento e dell’accumulazione (lato dell’offerta aggregata). Questo modello economico trova il suo compimento nella “collettivizzazione delle campagne” voluta da Stalin, che è semplicemente un tentativo riuscito da parte dello Stato di prendere con la forza il controllo politico dell’agricoltura. In questo senso, il modello staliniano è un erede diretto del modello leninista. In entrambi i casi, infatti, il soddisfacimento della domanda di beni di consumo e il processo di accumulazione di capitali sono regolati, in modo coatto, da uno Stato autoritario. Ciliga si ferma criticando Lenin e mostrando come il regime staliniano sia inscritto, almeno come possibilità oggettiva, nella Rivoluzione d’Ottobre. Non vi sono automatismi: Lenin il Rivoluzionario e Stalin il Tiranno sono sempre distinti, tuttavia il nesso fra i due alla fine appare con notevole chiarezza.
Se noi cercassimo di vedere la Rivoluzione russa non come una parabola che segna Il secolo breve, per dirla alla Hosbawm, ma come un paragrafo del processo di espansione del ruolo dello Stato, allora l’Ottobre sarebbe solo da considerare come un prologo di un processo molto più grande di cui ancora non si scorge la fine. Il punto è che con la rivoluzione Lenin cerca di seguire il processo storico. Il gruppo dirigente bolscevico non fugge nell’utopia, al contrario cerca di accelerare la dinamica storica. Lenin punta all’allargamento dei poteri dello Stato perché capisce che la tendenza ha il suo centro nella crescita esponenziale dell’intervento dello stato sulla società e sull’economia. Del resto la creazione dopo il 1945 del Welfare State e la regolazione della domanda aggregata con politiche keynesiane, sono solo forme più elaborata di quegli stessi meccanismi di soddisfazione dei bisogni immediati e di gestione economica che troviamo nel “comunismo di guerra”.
La verità è che non esiste nessun Secolo breve centrato sulla (mancata?) Rivoluzione russa. I meccanismi che hanno portato alle tragedie del Novecento sono ancora in atto. I processi che lo hanno attraversato sono ancora tutti ancora in azione. Il passato non è ancora passato.

Alfio Neri