rivista anarchica
anno 38 n. 335
maggio 2008


urbanistica

Comunità etiche e comunità estetiche
di Davide Bazzini e Matteo Puttilli

 

Si intitola “Il senso delle periferie” il libro che Elèuthera manda in libreria in queste settimane. Eccone uno stralcio.

 

Nel mondo globalizzato, dominato da una moltitudine di flussi economici e da produzioni non più legate stabilmente ai territori, si forma una nuova élite cosmopolita, tanto economica che intellettuale, caratterizzata dal vivere una condizione di massima libertà in un’area priva di comunità e lontano dagli obblighi di appartenenza; quell’appartenenza, talvolta soffocante, che minaccia la gran parte degli abitanti del mondo, quelli più deboli.

La nuova élite cosmopolita costruisce per sé un mondo dai confini sempre più confusi, con mappe di potere sempre più contorte e aggrovigliate. Le città, pianificate in età moderna a griglia o ad accampamento romano, come proiezioni sul paesaggio della razionalità ordinata e classificatoria, sono oggi città diffuse, disseminate di aree ghetto, no go area con valenza duplice: no go in e no go out. Aree periferiche ed esclusivi quartieri residenziali sono entrambi il risultato di questo processo. In tale reciproca esclusione, metaforicamente rappresentata dalle aree periferiche e dai quartieri esclusivi, la voglia di comunità di cui parla Bauman assume due radici diverse e si connota a partire da esperienze di vita altrettanto diverse.
Da una parte i nuovi cosmopoliti, gli attori sociali inseriti positivamente nei processi di globalizzazione, tendono a evitare gli obblighi di confraternita che il legame comunitario porta con sé. Vivono quella comunitaria come una richiesta dei soggetti deboli, rifuggono dalle radici che giustificano forti legami sociali. Il bisogno di comunità viene in questo modo trasfigurato e finisce con il fondarsi su basi «estetiche». Insomma, comunità estetiche basate sul riconoscimento reciproco dei propri (grandi o piccoli che siano) privilegi, costruite cercando di massimizzare libertà e autonomia, affrancate dalle richieste di egualitarismo e redistribuzione da parte dei deboli, dalla viscosità e dall’invadenza delle comunità tradizionali. Non c’è, nella costruzione estetica di queste comunità, la necessità di rispettare radici o luoghi. Semplicemente, i luoghi e le radici non esistono; o meglio, vengono sostituiti dalle loro rappresentazioni.
Il patto sociale posto all’origine delle comunità salta, il concetto stesso di distribuzione si estingue. E la comunità, quale luogo in cui quella redistribuzione diventava possibile e necessaria, evapora, si fa così leggera da diventare una comunità usa e getta, rimpiazzata dalla geografia variabile e tematizzata dei luna park, dei parchi a tema, dei villaggi esclusivi, dei quartieri residenziali così belli da dover essere protetti da sbarre e guardie. Come si diceva poc’anzi, le rappresentazioni dei luoghi, siano essi ricostruzioni artificiose di storia o socialità in quartieri di nuova costruzione o le stucchevoli citazioni della realtà operate nei parchi a tema, sostituiscono i veri luoghi.
Siamo di fronte a comunità artificialmente ricreate, flessibili e temporanee, che si possono smontare facilmente e che fanno leva unicamente su sogni e desideri. Più che sull’identità si basano sulla replica seriale di gesti e comportamenti che generano identicità. Comunità, dunque, che vivono sul paradosso di fondarsi su identità flessibili, costruite su presupposti contraddittori, realizzate fin dall’origine su non-appartenenze. Quella estetica è una comunità immaginaria ma non per questo disattivata; è una comunità, insomma, priva di appartenenze ma reale nelle sue conseguenze, priva di memoria ma capace di inventarsi tradizioni. Bauman le chiama anche «comunità-gruccia», sulle quali la gente appende insieme le proprie preoccupazioni altrimenti vissute individualmente.
Dall’altra parte, chi è espulso dal nuovo cosmopolitismo, e vive conseguentemente all’interno del precariato (sociale ed economico) indotto dalla nuova economia globalizzata, tende ad aumentare la richiesta di sicurezza, a rivendicare i legami sociali e le radici che li possono giustificare. Chiede, cioè, più comunità; ma la sua richiesta rimanda in questo caso a una comunità basata su un impegno etico, su una condivisione dell’appartenenza e dell’identità, su una reciprocità tesa a garantire pari trattamento ai membri della comunità.
Se nel caso delle comunità estetiche i legami comunitari devono essere senza conseguenze, le comunità etiche sono invece basate sul permanere dei legami a lungo termine. Le comunità etiche devono appagare i bisogni di sicurezza e di appartenenza, anziché quelli di libertà e di autonomia. La dialettica, l’inversa reciprocità tra sicurezza e libertà, tra autonomia e dipendenza, che già Tonnies individuava come fondante del passaggio da comunità tradizionali a società moderne, si ripresenta ora sotto nuova veste.

Il ritorno alle «comunità locali»

Se la richiesta di comunità si sdoppia, assumendo su di sé la dialettica tra etica ed estetica, tra appartenenza e libertà, il risultato è quello di una crescita della percezione del valore dei luoghi di vita. Se le istituzioni economiche si de-territorializzano, cessano di appartenere a luoghi specifici, il coinvolgimento emotivo dei cittadini cresce proprio nel loro senso di appartenenza a luoghi e/o comunità. Si sviluppa un senso di fedeltà e di coinvolgimento che è espressione di un bisogno di attaccamento al luogo. Il risultato, insomma, è quello di una continua evocazione di «comunità locali», di comunità di appartenenza a un luogo. È questa stessa appartenenza a essere individuata come sufficiente, a prescindere dalle condizioni economiche, sociali, culturali e dalle differenze che queste generano all’interno delle comunità locali. Nel momento in cui vengono evocate, le comunità locali appiattiscono i conflitti interni e danno spazio alle rivendicazioni esterne.
La difesa del luogo diviene così sinonimo di richiesta di sicurezza. Lì dove tutta la modernità ha fallito, con il suo individualismo e con il suo monopolio della forza e dell’autorità affidate allo Stato-nazione, è ora la comunità locale, fisicamente visibile in un territorio, a proiettare e costruire sicurezza. Il territorio è nostro, in quanto abitato da noi, e nessun altro ci può stare: questo è l’assunto fondamentale insito nella apologia delle comunità locali. L’appartenenza e la sicurezza delle comunità locali sono costruite sull’esclusività e sulla separazione.
Di certo siamo di fronte a un’enfasi, a un protagonismo della dimensione «locale». La crisi del tradizionale modello di welfare, unitamente al venir meno del potere dello Stato-nazione nell’occuparsi delle politiche territoriali e sociali, hanno portato a una crescente enfatizzazione delle azioni condotte alla dimensione locale, diventate di conseguenza attente al contesto territoriale, all’integrazione con il territorio, alla costruzione di partenariati locali, alla creazione e al mantenimento del capitale sociale. In particolare, nell’ambito delle politiche di riqualificazione urbana, nella progettazione e nella gestione di servizi sociali e di proposte educative, nella costruzione di strategie per l’incremento delle attività economiche, nella conduzione di processi di incremento dello sviluppo sostenibile locale, il richiamo alla partecipazione degli attori sociali è diventato preponderante, talora ridondante.
Per capire se ciò va ascritto a una generale ripresa di interesse per la sperimentazione di approcci bottom-up (orientati cioè a valorizzare e a far crescere le competenze presenti all’interno della società locale), mettendo – almeno parzialmente – in discussione il modello top-down (caratterizzato dalla volontà di «calare dall’alto» decisioni e strategie da «applicare» ai contesti locali o agli stili di vita dei singoli attori sociali), occorre prestare attenzione alle (forse implicite e inconsapevoli) forme di riduzionismo adottate:

– nel definire il contesto locale;
– nel definire ciò che è comunità;
– nel promuovere la partecipazione;
– nello scegliere gli strumenti e le strategie di lavoro;
– nel gestire i conflitti connessi all’incremento della partecipazione.

Qui si vuol dire esplicitamente che si deve prestare attenzione nell’evocare le «comunità locali». In tempi di globalizzazione vediamo l’emergere di un neocomunitarismo che si manifesta a volte con il volto struggente della nostalgia per l’epoca premoderna e con la tendenza al ripristino dei luoghi e delle tradizioni, altre volte con quello più inquietante, violento e feroce del nazionalismo o della rivendicazione etnica.
Se la richiesta di comunità locali si identifica con la richiesta di «comunità sicure», il ritorno alle comunità locali rischia di essere fondato sulla paura, sull’allontamento della diversità. E i luoghi, quei luoghi così amati e difesi da essere posti a fondamento della comunità stessa, rischiano di diventare ghetti dorati, sicuri, efficienti; «ghetti volontari» protetti da sbarre, telecamere e polizie, come sono ormai molti quartieri residenziali, oppure «ghetti obbligatori», come sono invece molte periferie.
Mike Davis è un acuto osservatore di questa deriva. In City of Quartz descrive la militarizzazione dello spazio cittadino, la rincorsa all’acquisto di armi, il «technoapartheid» costruito sulle differenze di razza e censo. Los Angeles nel suo racconto diventa metafora della postmodernità: dal sogno utopico e popolare della «conquista del west», in cui trovare lavoro e libertà, alla Los Angeles «città fortezza», controllata, presidiata da esercito, polizia e mercenari. La città si modella a partire dalla difesa oltranzistica dell’alta borghesia bianca, alla cui sicurezza vengono sacrificate libertà e privacy.

Immaginare comunità consapevoli

Tra comunità etiche ed estetiche, dobbiamo individuare altre forme che ci permettano di superare la voglia di esclusione indotta dalle «comunità locali». Dobbiamo immaginare comunità consapevoli, facilitando la costruzione di società locali attente al proprio territorio ma aperte al mondo, coscienti della propria storia e identità ma capaci di futuro.
La consapevolezza che può caratterizzare queste nuove comunità può essere costruita a partire da una ridefinizione della percezione del luogo, del carattere territoriale della comunità.
Come si è visto nel capitolo precedente, il «locale» che caratterizza le comunità consapevoli non è solo un oggetto, una cosa, uno spazio geograficamente delimitato, un piccolo contrapposto a un grande. La dimensione locale delle comunità consapevoli non è solo un luogo, un contesto, sia esso geografico (la valle, il fiume), amministrativo (il comune, la provincia, la regione) o storico-culturale (le usanze, le tradizioni, i linguaggi). È un campo di forze, di relazioni, di significati che viene costruito di volta in volta. È la dimensione territoriale in cui è osservabile una densità dei fenomeni sociali.
Riferirsi al locale significa accettare che esistano non uno, ma più modelli di sostenibilità sociale delle comunità, in quanto variano le caratteristiche sociali e le capacità di carico di ogni territorio. È Robert Putnam in Better Together a descrivere, in maniera insieme documentata e partecipe, le diverse e interessanti esperienze di aggregazione, di sviluppo di comunità, di costruzione di una positiva identità dei luoghi. Dopo la visione pessimistica che caratterizzava il suo scritto precedente (non a caso intitolato Bowling Alone), in cui era prevalente la descrizione di un impoverimento progressivo e inarrestabile del capitale sociale, in Better Together emergono molteplici presagi di speranza, che riescono a delineare delle «comunità consapevoli».
Nelle esperienze che Putnam racconta, gli individui – isolati, spaventati, sfiduciati – cominciano a esprimere nuovamente la necessità di una prospettiva comune. Proprio nell’America di Bush, nell’America che ha sostituito il sorriso timido e sensuale di Marilyn Monroe con il ghigno aggressivo e inquietante di Condoleeza Rice, nell’America dell’individualismo più sfrenato, aggressivo e competitivo, Putnam riesce a scorgere qualcosa che si muove, che cambia, che si trasforma. Nelle periferie delle città texane, nel sindacalismo di base, nelle ricche società californiane, ci sono esempi di crescita della partecipazione, di bisogno di appartenenza e di relazione, di voglia di comunità, che disegnano una inversione di tendenza rispetto all’ineludibile destino individualistico che sembrava connotare il futuro di noi tutti.
Qui l’analisi dello studioso americano diventa più pungente. Per evitare che la voglia di comunità prenda la strada del localismo, della costruzione di società locali che trovino nell’esclusività e nella chiusura la riposta alle proprie difficoltà, diventando, come abbiamo visto, comunità-ghetto in cui l’esclusione sociale viene giustificata con la retorica della sicurezza, Putnam afferma che non esiste un’unica forma di capitale sociale, richiamando la nostra attenzione su una distinzione analitica tra:

– capitale sociale brinding (inclusivo), orientato verso l’esterno;
– capitale sociale bonding (esclusivo), orientato verso l’interno del gruppo o della comunità.

Allo stesso modo è utile la distinzione tra fiducia allargata, sulla quale si costruiscono potenziali circuiti virtuosi di utilizzo e incremento del capitale sociale, e fiducia ristretta, limitata cioè al gruppo dei pari, alla cerchia parentale, ad ambiti di affinità (sia culturale sia geografica) sempre più ristretti. A questo punto l’ipotesi diventa: non è il capitale sociale in quanto tale a generare fiducia allargata, ma è solo quello di tipologia brinding, mentre quello bonding rinsalda forse l’identità di gruppo ma genera fiducia a corto raggio.
Le riflessioni che Putnam porta alla nostra attenzione con Better Together assumono particolare valenza per la costruzione di comunità consapevoli. L’invito è a evitare un’enfasi sulla comunità e sui suoi impliciti valori; un’enfasi che nasconde il rischio di una concezione solamente estetica della partecipazione (partecipare è giusto, bello e sano) e che evita nel contempo di confrontarsi con la fatica, il conflitto, il confronto con il potere che l’incremento di una partecipazione reale comporta. L’invito è di provare a definire in maniera più precisa il ruolo dell’operatore di comunità, includendo la funzione di facilitatore della costruzione di capitale sociale brinding (inclusivo), di fiducia estesa, di futuri possibili. L’incremento della capacità di autogoverno, l’aumento degli spazi e degli strumenti di autodeterminazione diventano gli indicatori con i quali misurare la consapevolezza e la sostenibilità sociale di una comunità. La community participation diventa così una condizione centrale della creazione di comunità consapevoli. Termini come consultazione, coinvolgimento, progettazione partecipata, capacity building, empowerment descrivono altrettante azioni e attenzioni necessarie alla costruzione di una comunità consapevole.
Costruire una comunità consapevole significa allora pensare a un progetto collettivo, a un’idea di futuro, a un mutamento sociale, a una produzione di società. Per citare Alain Touraine, potremmo definire consapevole quella comunità che «fornisce ai suoi membri gli strumenti per l’autogoverno delle proprie condizioni di esistenza e delle possibilità del proprio divenire personale, cioè dei propri diritti sociali e culturali»; ovvero soggetti che siano consapevoli di poter costruire il loro futuro e in grado di resistere alla distruzione del loro passato e presente, assorbiti dall’omologazione, dalla stereotipia, dalla puntiformità.

Davide Bazzini e Matteo Puttilli