rivista anarchica
anno 38 n. 338
ottobre 2008


scuola

Colori
di Carlo Oliva

 

Dal grembiule al voto in condotta, tutto il “rinnovamento” promosso dalla ministra della (pubblica?) istruzione Gelmini è teso a restaurare vecchi valori e una vecchia concezione della scuola: uniforme, inquadrata, senza spazio per le diversità. E la sinistra…

 

Lo scorso giugno, una mia giovane amica di origini peruviane che ha frequentato la seconda elementare a Cinisello Balsamo mi ha mostrato la foto della sua classe. Era una immagine coloratissima e non soltanto per via delle sfumature delle faccine sorridenti dei piccoli alunni, che tradivano una molteplicità di origine etniche piuttosto notevole, ma anche per le felpe, le magliette, le tute che indossavano, secondo una varietà di gusti personali e familiari che, senza negare una certa uniformità di fondo (si capiva che quegli indumenti venivano tutti, più o meno, dagli stessi negozi a poco prezzo), affermava tuttavia la individualità di ciascuno. Anche le tre maestre, tutte di un’età che, ai miei occhi di osservatore irrimediabilmente anziano, non sembrava poi molto più alta di quella dei loro alunni, vestivano in jeans e maglietta. Erano, quei ragazzini, tutti diversi l’uno dall’altro e tutti tra loro abbastanza simili e proprio per questo la loro foto, in definitiva, anche se non aveva implicazioni programmatiche particolari e voleva solo testimoniare di un anno di vita in comune, che avrà avuto, figuriamoci, i suoi problemi e i suoi momenti scabrosi, confortava e metteva allegria. Faceva capire, in qualche modo, come in quel centro non esattamente ameno della cintura milanese, nonostante le ovvie difficoltà e una evidente penuria di mezzi, un certo numero di famiglie e operatori scolastici si fossero impegnati per la loro parte in quel difficile esperimento di convivenza multiculturale e multietnica dalla cui maggiore o minore riuscita, su un piano più generale, dipende il futuro stesso della nostra società.

C’era una volta il grembiulino nero

Leggo oggi che la ministra della Istruzione (non ho capito bene se ancora “pubblica”) si propone, per quanto le compete, por fine a quella varietà di colori. E non potendo intervenire, per ora, sulla composizione etnica delle classi – che è compito cui si dedicano con zelo altri membri del Gabinetto – si è prefissa l’obiettivo di uniformarne il vestiario. Ai suoi tempi a scuola, almeno alle elementari, si andava in grembiulino nero e non si vede perché non si dovrebbe fare altrettanto oggi. E così, nel pacchetto di riforme che la brava donna ha proposto al Consiglio dei Ministri, tutte ispirate, si direbbe, al principio di riportare l’immagine della scuola primaria a quella del tempo che fu, alle proposte di reintroduzione del maestro unico, delle valutazioni in cifre, del voto in condotta, dell’abolizione delle classi miste e simili piacevolezze (manca ormai poco, suppongo, a che a qualcuno venga in mente di reintrodurre le bacchettate per i riottosi, sul palmo della mano nelle classi ancora miste, sulle terga in quelle finalmente uniformate), ha aggiunto quella del ritorno al grembiule uguale per tutti. Non sono stati definiti ancora tutti i particolari, si ignorano le proposte ministeriali in tema di taglio, modello e colore, ma la proposta è stata fatta e, vista la determinazione con cui il centrodestra persegue i suoi fini, andrà sicuramente avanti.
Alle persone di media intelligenza e normale sentire il fatto che una ministra della repubblica si occupi di queste frivolezze, sottraendo tempo ed energia a chissà quali compiti di maggiore portata, può sembrare strano, se non disdicevole. La scuola italiana, verrebbe fatto di dire, è afflitta da ben altri problemi, a partire da quello, che nessun ministro in tutta la storia repubblicana ha mai saputo, non che risolvere, affrontare, della definizione di un progetto culturale più adeguato ai tempi di quello che ha ispirato, ottant’anni fa, la riforma Gentile e, per quanto acciaccato qua e là, a tutt’oggi permane. Tra le articolazioni di questa tematica di base c’è anche, inutile negarlo, un’esigenza di integrazione, di una sorta d accettabile riduzione a unità delle varie (troppe) differenziazioni socioculturali che dividono il corpo studentesco, ma visto che l’abito, notoriamente, non fa il monaco può sembrare futile, come minimo, affrontare il problema a partire dagli indumenti. Per non dire che quanti sono abbastanza anziani da aver vissuto in prima persona l’età del grembiule, non possono non ricordare il senso di funerea malinconia che promanava da tutte quelle classi in nero (a parte il collarino bianco e il fiocco azzurro, quando c’erano) né negare che il fatto che quella mise fosse obbligatoria, alle medie e alle superiori, solo per le studentesse (e per le insegnanti, che però godevano di abbastanza potere contrattuale per potervisi, sia pure illegittimamente, sottrarre), comportasse una certa evidente volontà di discriminare l’elemento femminile, di imporgli una sorta di umiliazione esteriore non dissimile, nella sostanza, da quella del velo islamico. Ricordo ancora, da quando, nei primissimi anni ’60, frequentavo il liceo, i battibecchi insistenti tra certe mie compagne, ostinate nel “dimenticare” a casa quell’indumento o, per lo meno, nel tenerlo sbottonato sul davanti, e certi docenti ben decisi a non concedere loro, in quello stato, l’accesso in classe. E prima ancora non ci si fermava al liceo: mia madre, che ha frequentato a suo tempo, non per sua scelta, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, in Milano, diretta allora dal celebre padre Gemelli, ricordava come l’unico contatto diretto che le fosse toccato con quel pilastro del neotomismo fosse consistito nel riceverne l’invito, in occasione di un casuale incontro in un corridoio, a tenere, appunto, allacciato il grembiule.

Il ruolo dei simboli

Qualche spirito sospettoso, in realtà, potrebbe chiedersi se quelle proposte, dall’introduzione dell’uniforme in giù, siano poi così futili. Attengono tutte, in effetti, alla sfera dell’esteriorità, tranne forse quella sul maestro unico, per giudicare la quale occorrerebbe una competenza didattica che, per quel livello scolastico, mi manca (ma sono pronto a scommettere che manca anche alla ministra Gelmini), ma non è detto che la sfera dell’esteriore e quella del futile debbano coincidere a ogni costo. È affatto indifferente, in sostanza, che i giudizi sul profitto siano espressi mediante una scala di cifre numeriche o con l’uso di certi aggettivi chiave, consistendo il vero problema, in realtà, nell’individuazione dei criteri da applicare in quel frangente, ma, certo, l’uso delle cifre è associato, nella tradizione, a una certa immagine di severità che alle gelmini di questo mondo non dispiace rievocare. Analogamente, esistono strumenti ben più efficaci per scoraggiare i comportamenti devianti in classe di quanto non sia il classico voto in condotta, ma al voto in condotta vanno le simpatie di chi ritiene, a torto o a ragione, che oggigiorno non li si scoraggi abbastanza. Certo, se proprio volessimo sforzarci di riconoscere un minimo di logica ai fautori di queste patetiche restaurazioni, potremmo riconoscere che l’uso dei voti numerici impone una più rigida suddivisione delle scolaresche in gruppi gerarchicamente ordinati, mentre altri metodi di valutazione (che so, i cosiddetti “giudizi analitici”) sono stati inventati proprio al fine di valutare scolari e studenti senza stabilire delle graduatorie, riconoscendo la peculiarità intrinseca di ciascun soggetto discente, che per certi aspetti può eccellere e per certi altri rivelarsi deficitario, senza che questo determini la necessità di affermare una sua “superiorità” o “inferiorità” rispetto agli altri. Ma chiunque abbia pratica di scuola sa che anche quando si va per giudizi le graduatorie e le gerarchie finiscono per (ri)stabilirsi comunque, sì che la scelta tra le cifre e le parole si riduce, tutto sommato, a qualcosa che attiene all’ordine del simbolico. Lo stesso, ovviamente, in cui si iscrive la decisione di imporre il grembiule, simbolo esteriore di una pretesa uguaglianza di fronte alla istituzione della quale chi all’uguaglianza non è davvero interessato riesce assai facilmente ad accontentarsi.
Il fatto è che di simboli, da qualche tempo, vivono il dibattito ideologico e la lotta politica nel nostro sventurato paese. La cultura di destra, così ostensibilmente maggioritaria tra i nostri concittadini, esprime attraverso quei simboli la propria preferenza per una scuola normalizzata, da cui siano allontanati i diversi (da confinare, se proprio necessario in settori ben separati), in cui sia affermata senza mezzi termini la differenza di genere e in cui sia data decisiva importanza ai valori della disciplina e dell’addottrinamento passivo. E pazienza se a questo sconfortante programma una sinistra minoritaria ma pugnace contrapponesse con decisione i valori opposti della uguaglianza e della libertà, della conciliazione e della convivenza. Non sono, questi, argomenti con i quali perseguire la ricerca del consenso (tanto più nella forma minimale cara a quei giganti del pensiero che guidano e organizzano le forze dell’opposizione, dell’accordo con la Lega e dell’alleanza con l’Udc): onde lo sforzo titanico di cercare disperatamente dei termini diversi con cui esprimere lo stesso programma, in cui credo si possa compendiare il travaglio ideologico del Partito democratico. Che di tutto ciò debbano essere le prime vittime proprio i ragazzini delle elementari non fa che rendere il tutto ancora più malinconico.

Carlo Oliva