rivista anarchica
anno 39 n. 344
maggio 2009


cinema

Chaplin, Charlot e l’antimilitarismo
di Arianna Fiore

Quando il cinema comico fa ridere, fa piangere e fa pensare.

 

Nel 1918, sul finire della Prima guerra mondiale, uscì Shoulder Arms; per Charlie Chaplin, regista e protagonista, rappresentò un enorme successo di critica e di pubblico. Tra i numerosi spettatori c’erano i soldati, che si riconoscevano nel buffo personaggio e riuscivano finalmente a sorridere della loro condizione grazie alle avventure dell’antieroe di celluloide.
Chaplin aveva ricevuto critiche molto aspre per non aver preso parte alla guerra. Nel 1918 decise quindi di parteciparvi con le sue armi personali, l’ironia e la recitazione, e scrisse Shoulder Arms, secondo film per la First National e prima feroce satira antimilitaristica della sua carriera. In realtà il regista aveva vissuto in prima persona gli sconvolgimenti dell’epoca e in più occasioni aveva avuto modo di ripetere che una fase della civiltà era tramontata: dopo la guerra nulla sarebbe più potuto essere stato uguale a prima. Questa sua convinzione rispecchiava sia la sua personale ideologia politica che la sua produzione cinematografica: dopo la guerra nemmeno i film di Chaplin furono più gli stessi. Mi riferisco ai tre contributi che Chaplin dedicò al tema bellico o, più precisamente, all’antimilitarismo: il già citato Shoulder Arms (Charlot Soldato), nel 1918; The Great Dictator (Il Dittatore) nel 1940 e Monsieur Verdoux, del 1947. Questi tre film non solo si riferiscono a tre momenti epocali della storia del ventesimo secolo, rispettivamente Prima e Seconda guerra mondiale e Guerra fredda, ma costituiscono anche tre tappe fondamentali di un processo di evoluzione del cinema di Chaplin.

Abbiamo detto che nel 1918 Shoulder Arms riempì le sale di spettatori. Il pubblico aveva imparato ad amare e a riconoscersi nelle avventure del piccolo omino del grande schermo, che questa volta aveva deposto il lacero e innocuo costume per indossare la divisa e imbracciare il fucile. La trama è semplice: Charlot al fronte di battaglia, noto tra commilitoni e superiori per la sua goffaggine, si trasforma da maldestro soldato in coraggioso eroe che tutto solo riesce a catturare il Kaiser. Ma è solo un sogno e la recluta si risveglia nella branda circondato dalla squallida realtà quotidiana del fronte. Nonostante la dimensione onirica, fu proprio il crudo realismo della pellicola a conquistare le simpatie dei soldati. Dietro alle gag è la dura realtà della retroguardia che fa da sfondo, con le trincee allagate, la solitudine, l’inutile attesa della posta, l’assurda disciplina, la fame. Charlot si muove in mezzo alle privazioni e alla pesantezza con la leggerezza di sempre e riesce a strappare un sorriso quando cerca di consolarsi leggendo la lettera di un commilitone, già che nessuno si ricorda di lui, o quando si allagano le trincee e lui si ingegna a respirare attraverso la tromba di un grammofono. La denuncia di Chaplin è molto chiara: tra l’evidente ironia delle scene la vita militare è contraddistinta da solitudine e inutilità, è uno stupido sacrificio che costringere i soldati a sopravvivere in uno stato di alienazione. Solo il sogno gli permette di vivere. Charlot ha una sua vita, un suo ruolo, solo quando sogna. Il suo assurdo quotidiano è rappresentato con immagini satiriche e paradossali proprio per simboleggiare l’inutilità della guerra: le pallottole servono solo come apribottiglie e ad accendere le sigarette, le maschere antigas diventano imprescindibili strumenti per tagliare una puzzolente forma di formaggio stagionato. Il simbolo della feroce denuncia chapliniana appare in una delle primissime scene del corto: un sergente urla e sbraita al soldato Charlot di allineare i piedi (“Raddrizza quei piedi!”) e il suo inutile sforzo rappresenta la volontà insita nell’uomo di resistere a una disciplina che mira ad annullare l’individuo e a creare macchine in serie, marionette nelle mani dei superiori. L’uomo fantoccio, addomesticato dal potere e sottomesso agli ordini e alle gerarchie, non riuscirà più a interrompere i movimenti meccanici nemmeno nei momenti di riposo, li ripeterà in maniera isterica e incontrollata.

“Il silenzio è l’essenza del cinema”

Nel 1918 l’omino “vagabondo” partecipa alla guerra, ma è una fantasia, forse perché le immagini del film sono a volte così concrete e reali che solo un escamotage onirico avrebbe potuto tenere lontano l’intervento della censura. Chaplin pensa ancora che: “il silenzio è l’essenza del cinema. Nei miei film non parlo mai. Non credo che la voce possa aggiungere alcunché alle mie commedie. Al contrario, distruggerebbe l’illusione che voglio creare, quella di una piccola immagine simbolica buffa, non un personaggio reale, ma un’idea umoristica, un’astrazione comica”. Ma nel 1940, anno de Il Dittatore, Chaplin non voleva più fare un nuovo film per la sua “piccola immagine simbolica buffa”, né creare “un’astrazione comica”. Oltre ai due personaggi interpretati da Chaplin, Hynkel, dittatore della Tomania e spietata parodia di Hitler, e il piccolo barbiere ebreo, irrompe infatti lo stesso Chaplin, nuovo inaspettato personaggio che non ha nessuna intenzione di far ridere.
Il nuovo film inizia riallacciandosi a Charlot Soldato, alla guerra imperialista del 1914-1918. Nelle prime fasi de Il Dittatore ci troviamo al fronte, in mezzo alle trincee, e il piccolo barbiere è costretto a servire la patria in mezzo alle armi dell’esercito tedesco, tanto intelligenti da riuscire a prendersela con lui in maniera personale, (la munizione del cannone lo insegue in ogni sua mossa). Dopo un incidente che gli causa un’amnesia, lo ritroviamo con un salto temporale ventennale all’uscita di un ospedale psichiatrico, ricovero guadagnato grazie al servizio reso alla patria nella Prima guerra mondiale. Fuori il mondo è cambiato: la Tomania-Germania è guidata dal dittatore Adenoid Hynkel, straordinariamente somigliante al vero dittatore tedesco Adolf Hitler e al barbiere ebreo. Hynkel, tra un discorso e l’altro in cui vomita sproloqui contro la democrazia, la libertà individuale e di parola (Democratia shtunk! Libertad shtunk! Frei sprachen stunk!) progetta di invadere l’Ostria, ma deve mediare con l’ingombrante presenza di Napaloni, dittatore del paese di Bacteria (felici parodie di Mussolini e dell’Italia), che condivide le medesime mire espansionistiche di Hynkel.
Per un inaspettato scambio di persona il barbiere ebreo, in fuga dal campo di concentramento dove è stato rinchiuso, si trova a occupare il posto del dittatore proprio il giorno del discorso pubblico di invasione dell’Ostria. Piccolo davanti a un microfono e a una oceanica platea, diventa improvvisamente immenso e pronuncia quello che gli esce dal cuore, lasciando basito il popolo della Tomania.
Gli obiettivi del film sono dichiaratamente politici. Chaplin aveva deciso di vincere due sfide: la sua personale ideologia politica e il suo modo di fare i film. Negli anni Trenta il regista aveva partecipato attivamente ai circoli antifascisti e antinazisti. Nel 1940, con gli Usa pervasi da un forte sentimento antisemita e ancora neutrali rispetto alla guerra, aveva deciso di girare un film esplicitamente antinazista, in cui mettere a nudo le debolezze e la stupidità delle dittature e l’atrocità della guerra. La seconda sfida riguardava il difficile ingresso nel mondo del sonoro. Il Dittatore non è nel complesso un film dialogato; le sequenze parlate sono molto poche e il barbiere tace per tutto il tempo del film. Hynkel non pronuncia dei veri e propri discorsi: Chaplin gli mette in bocca una satira della lingua tedesca e dei discorsi del vero dittatore, ma è più un non-dire che un dire: il risultato finale è un’accozzaglia di aspirate, di suoni gutturali, aspri, duri, che gli tolgono la voce, lo fanno precipitare in un’isterica forma di balbuzie e tosse (“icht rayna struff mit a ach-uch-ich-ach-uch”).
La vera novità de Il Dittatore è lo stesso Chaplin, presente come attore e come uomo. A un livello macroscopico vediamo i due personaggi: Hynkel-Hitler e il barbiere del ghetto, interpretati da un medesimo attore che gioca con il noto espediente dello scambio di persona. Ma Chaplin aveva deciso di rivolgere contro Hitler tutto il potere della sua arte e per farlo non poteva nemmeno immaginare di mettere in bocca al suo personaggio, che era e doveva restare comico, un monologo di sei minuti. In bocca al Charlot-barbiere il proclama non avrebbe avuto senso.
E quindi non è più il barbiere-Charlot ma è l’uomo Chaplin che, alla fine del film, senza trucco, guardando fisso nell’inquadratura della telecamera, rivolge immobile il suo discorso al popolo della Tomania, a tutti noi che guardiamo il film che veniamo coinvolti, abbracciati dalle sue parole. Con un’inquadratura di primo piano che alla fine si allarga al mezzo busto rivolge il suo appello all’umanità; è lui in prima persona, che depone i costumi dell’attore per cercare disperatamente di fermare il mostro nazista. Chaplin dichiara il suo pensiero, si schiera contro la guerra e lo fa con un messaggio estremamente potente, dalle proporzioni immense.
Il mito di Charlot non poteva passare dal piano del movimento al piano verbale senza entrare in una grossa contraddizione e perdere il suo significato più profondo. In Il Dittatore esiste Charlot perché esiste la comicità del movimento. Non abbiamo davanti agli occhi il vagabondo quando, dopo aver preso un colpo in testa, si esibisce nel suo tipico balletto sui talloni, traballando malconcio lungo la strada? Ma l’emozione, la partecipazione al tema antibellico e il sentimento della tragedia costringono Chaplin a spogliarsi della maschera di Charlot che lo obbligava al silenzio. Il regista depone il costume e implora il mondo di amarsi e di smettere di farsi la guerra. E se il risultato può sembrare ingenuo bisogna ricordarsi chi lo sta pronunciando: non un militare, non un politico o un burocrate, ma un uomo, che in uno straccione sorridente aveva trovato la poesia, un regista che in un ometto felice nonostante le batoste della vita, nemico del potere e del denaro, di polizia e carcerieri, di ricchi e di borghesi vedeva il suo eroe – o antieroe. Charlot non poteva pronunciare quelle parole senza perdere la sua comicità.
A cosa avrebbe dovuto rinunciare allora il regista? Alla comicità del personaggio o alla drammaticità del discorso? Chaplin decise di non rinunciare a nulla e investito dalla sacralità del ruolo e dell’evento si presentò personalmente al popolo della Tomania, senza trucco e costumi di scena. Il film finisce quando inizia il monologo. È in scena un atto di coraggio: “Scusate ma non voglio fare l’imperatore. Non è il mio mestiere. Non voglio governare o conquistare nessuno. Mi piacerebbe aiutare tutti, se fosse possibile: gli ebrei, i gentili, i negri, i bianchi”. È ancora lo stesso Chaplin che si allontana dal personaggio Hynkel e dal dittatore Hitler, proclamando l’essenza intrinsecamente effimera del potere umano e il valore della libertà individuale e popolare: “L’odio degli uomini passerà, i dittatori moriranno e il potere che hanno strappato al mondo ritornerà al popolo. E finché gli uomini non saranno morti la libertà non perirà mai”.

Proclama contro la guerra

È sempre Chaplin, che a breve sarà accusato dagli Usa di eccessiva simpatia per le idee comuniste-sovietiche e che sarà allontanato nella caccia alle streghe della Guerra fredda (1), a rivolgersi ai soldati, ne proclama la loro umanità in un’emozionante esortazione a prendere piena coscienza della propria dignità di uomini:

“Soldati! Non consegnatevi a questi bruti, che vi disprezzano, che vi riconducono in schiavitù, che irreggimentano la vostra vita, vi dicono quello che dovete fare, quello che dovete pensare e sentire! Che vi istruiscono, vi tengono a dieta, vi trattano come bestie e si servono di voi come carne da cannone. Non datevi a questi uomini inumani: uomini– macchine con una macchina al posto del cervello e una macchina al posto del cuore! Voi non siete delle macchine! Voi siete degli uomini! Con in cuore l’amore per l’umanità! [...] Soldati! Non combattete per la schiavitù! Battetevi per la libertà! Nel diciassettesimo capitolo di San Luca sta scritto che il regno di Dio è nell’uomo: non in un uomo o in un gruppo di uomini ma in tutti gli uomini! In voi! Voi, il popolo, avete il potere di rendere questa vita bella e libera, di rendere questa vita una magnifica avventura. E allora, in nome della democrazia, usiamo questo potere, uniamoci tutti. (…) Soldati, uniamoci in nome della democrazia!”

La frattura tra il personaggio-Charlot e l’uomo-Chaplin è definitiva, senza possibilità di equivoci. Nemmeno l’accorato appello ad Hannah sembra prevedere il classico lieto fino dell’omino con la sua povera ma bella fanciulla: lei deve guardare oltre, sperare, e alzando gli occhi al cielo, deve superare ogni odio. È una speranza nel domani priva di ogni connotazione personale e cronachistica, è un appello all’amore universale:

“Hannah, mi senti? Ovunque tu sia, alza gli occhi! Alza gli occhi, Hannah! Le nubi si disperdono! E torna il sole! Usciamo dalle tenebre alla luce! Entriamo in un mondo nuovo, un mondo più buono, dove gli uomini saranno superiori alla loro ingordigia, al loro odio e alla loro brutalità. Alza gli occhi, Hannah! L’anima dell’uomo ha messo le ali e finalmente egli comincia a volare. Vola nell’arcobaleno, nella luce della speranza. Alza gli occhi, Hannah! Alza gli occhi!”

Dopo solo sette anni dall’esordio de Il Dittatore uscì Monsieur Verdoux, diverso per il tono, simile nel mancato successo di sala. È il 1947, immediato dopoguerra e periodo di dilagante imperialismo. Il distinto Monsieur Verdoux, dopo trent’anni di onesto lavoro in banca e un licenziamento causato dalla crisi dilagante, decide di fare del crimine il proprio mestiere: sceglie delle ricche signore dell’alta società, le sposa e le uccide per goderne le cospicue eredità. Sono tempi duri e, come dice Verdoux, “Il mondo è una giungla”.

Charlot è scomparso completamente dalla scena; al suo posto c’è un borghese raffinato, elegante, arguto. Chaplin usò questa “commedia dei delitti” con fini ideologici: Verdoux è il simbolo della società capitalistica, e il suo crollo individuale, la sua tragedia personale rispecchiano una tragedia comune. Il paragone, implicito nello sconvolgimento della trama del film, diventa evidente nella difesa sul banco degli imputati pronunciata dallo stesso Verdoux, processato per i delitti delle mogli:

“Per 25 anni l’ho usato onestamente [il cervello], dopodiché nessuno l’ha più voluto, e allora l’ho usato per conto mio. Come sterminatore sono un umile dilettante. Se si ammazza una sola persona si è un assassino. Se si ammazzano milioni di uomini si è celebrati come eroi. Ci si congratula con chi inventa bombe per massacrare donne e bambini. In questo mondo non si riesce se non si è organizzati. A ben rivederci, a presto, a molto presto.”

Verdoux non pensa al profitto: “Non rende il delitto, no. Non quello al dettaglio. Bisogna essere organizzati. Il numero legalizza il delitto”. È solamente una questione di proporzioni, e le stragi di massa sono assolte. Chaplin si appresta a una spietata critica della società contemporanea con il più crudo realismo. Siamo in una cella in attesa dell’esecuzione della pena capitale e Verdoux non ha più nessuna speranza. I toni che riecheggiavano nell’appello del barbiere ad Hannah, a noi tutti, sono spariti per lasciare spazio a una grande amarezza. Anche questo film si chiude con l’inquadratura del protagonista, che di spalle si avvia lungo la propria strada. Ma ora è il corridoio che lo conduce alla pena capitale e il protagonista cammina sicuro sulle sue gambe, non si dondola più in maniera spensierata con la bombetta in testa e il bastone che volteggia nell’aria.
Verdoux non suscita indignazione e odio; il suo non è il ritratto di un criminale ma la storia universale di una vittima del capitalismo borghese. È assassino perché costretto dalla crisi, e nella sua ammissione, nel suo volontario consegnarsi alla “giustizia” si autoassolve dall’ipocrisia borghese della società, reale colpevole di crimini e stragi. Verdoux uccide per necessità, per amore della moglie invalida e del loro bambino, risparmia una ragazza dalla morte perché in lei scorge la sua stessa sensibilità d’animo (“Ci vorrebbe un po’ di gentilezza per rendere la vita meravigliosa”).

L’equilibrio del terrore

Chaplin sceglie di rappresentare la crisi del capitalismo dall’interno, attraverso la vita di un suo rappresentante: la decadenza e la distruzione sono interne al sistema, che si sta disfacendo dalle radici, si sta autodisgregando. Verdoux è colpevole solo perché manca di esperienza, sbaglia perché riproduce in piccolo lo sterminio che la società e il capitalismo portano avanti su scala mondiale: non è altro che un principiante rispetto alle stragi di massa, qui il suo errore. Per i sentimenti di Verdoux non c’è posto nella società. Charlot non esiste più, questa fredda amarezza e la condanna spietata non gli possono appartenere. La trasformazione del personaggio Charlot nell’uomo Chaplin è ormai completa, nulla ci fa ricorda più l’ingenuità del piccolo omino.

In queste tre opere si assiste quindi a una progressiva accentuazione della condanna bellica. Nel 1918 in Shoulder Arms è Charlot che attraverso le gag del muto mette in ridicolo la vita militare dell’esperienza della guerra. Nel 1940 il discorso agli uomini de Il Dittatore vede già una sorta di metamorfosi di Charlot in Chaplin; lo dimostrano il trucco ridotto, la staticità dell’inquadratura, l’utilizzo della voce e un discorso assolutamente inadeguato per il personaggio di Charlot. In Monsieur Verdoux Charlot è scomparso e Chaplin senza nessun ausilio di trucchi o alcun ricorso alla mimica abbandona le gag e condanna la società. Sparisce Charlot e si esaurisce la vena artistica di Chaplin: Monsieur Verdoux venne definito dalla critica “il romanzo della fine”. Chaplin decide di far coincidere la morte di Charlot proprio con questa sua prepotente voglia di intervento nel dibattito antibellicista dell’epoca. Nel giugno 1954, in piena Guerra fredda, Chaplin affermò:

“Io non pretendo di conoscere le risposte che minacciano i problemi della pace, ma so che né l’atmosfera di odio e di diffidenza, né la minaccia di impiegare le bombe all’idrogeno consentiranno alle nazioni di risolverli. Il segreto di fabbricazione di queste armi spaventose sarà ben presto conosciuto da tutti e tutte le Nazioni, grandi e piccole, lo possederanno. Nella nostra era di scienza atomica, le Nazioni dovrebbero dedicarsi a cose meno tristi e più costruttive che il ricorso alla violenza per risolvere le loro divergenze. I tristi sforzi per indurre i popoli ad accettare la guerra con la bomba all’idrogeno, con tutti gli orrori che essa comporta, sono un crimine contro lo spirito umano e un segno di follia universale. Allontaniamo da noi questa atmosfera disperata e deleteria, sforziamoci di comprendere reciprocamente i nostri problemi, giacché in una guerra moderna non vi sarebbe vittoria per nessuno. È per questo che noi dobbiamo impegnarci a tornare a ciò che è naturale e sano nell’uomo, allo spirito di buona volontà che è la base di ogni ispirazione, di tutto ciò che è creatore, bello e nobile nella vita” (2).

Era finito il tempo di ridere.

Arianna Fiore

Note

  1. Il 17 settembre 1952, a bordo della “Queen Elizabeth” diretto con moglie e figli in Inghilterra per assistere alla prima inglese di Limelight (Luci della ribalta), Chaplin venne raggiunto da un atto di revoca del suo permesso di soggiorno negli Stati Uniti. Una clausola della legge sull’immigrazione che vietava la permanenza nel paese per motivi di “moralità, salute pubblica, follia, propaganda a favore del comunismo o associazione con organizzazioni comuniste”, aveva interrotto il rapporto più che trentennale che il regista inglese aveva instaurato con gli Usa. La “prima” americana del film era stata accompagnata da moltissime polemiche e da un tentativo di boicottaggio da parte dell’American legion. Tornò negli Usa solo nel 1972, quando Hollywood gli conferì un Oscar per la carriera; chi assistette alla cerimonia la descrisse come una riconciliazione fra due persone lontane che si erano amate tanto.
  2. I ricordi di Chaplin sono tratti dall’autobiografia del regista: Charlie Chaplin, La mia autobiografia, Milano, Mondadori, 1977.