rivista anarchica
anno 41 n. 359
febbraio 2011


lettere

 

Per una prospettiva antispecista

Riflessioni sul libro “Liberi dalla civiltà” di Enrico Manicardi.
È veramente importante che in ambito libertario e poi spero anche altrove cominci a diffondersi questa prospettiva politica che potrebbe rappresentare la svolta teorica e pratica per uscire dalla confusione attuale dei movimenti dell’alternativa.
Purtroppo constato una mancanza già a partire dalla bibliografia dove non è presente il libro di Mason “Un mondo sbagliato” Sonda Edizioni. Infatti questa mancanza si trova anche nell’impostazione iniziale dove si fa cominciare il tutto, l’attuale nefasta civiltà, con l’avvento dell’agricoltura circa 10.000 anni fa, dopo la lunga epoca dei raccoglitori-cacciatori.
In realtà questa impostazione non scava abbastanza a fondo nel passato e soprattutto in questo modo non dà le ragioni, le ipotesi del perché del passaggio.
(...)
In momento dei raccoglitori-cacciatori non è quello originario dei milioni di anni di vita armonica con l’ecosistema, ma è una fase di passaggio che ha preparato l’avvento dell’allevamento e dell’agricoltura e che si colloca circa 20/25 mila anni fa, cioè 10/15 mila anni prima dell’avvento di allevamento e agricoltura (comparsa dell’homo sapiens sapiens attuale ca 50 mila anni fa). Questo è dimostrato da vari indizi, tra cui lo studio della composizione delle ossa, che confermano come la dieta e i componenti fossero quelli di soggetti solo raccoglitori e che il minimo apporto di proteine animali rappresentato dalla pratica occasionale e limitata dello “scavenging”, cioè la ripulitura delle carcasse di piccoli animali morti rinvenuti sul territorio; invece, la caccia delle grandi prede non può essere comparsa insieme alla raccolta, ma necessariamente in un momento molto successivo, come appunto dimostrato con chiarezza dai recenti dati storici e paleontologici (nonché dalla nostra stessa morfologia motoria con mani prensili, per raccogliere frutti e radici, e dall’apparato digerente dai denti all’intestino, che non sono adatti agli alimenti animali).
(...)
L’inizio della caccia sarebbe stata una reazione maschile ad una prepotenza di ruolo femminile che si articolava su due aspetti: all’epoca non era conosciuta la partecipazione maschile alla funzione riproduttiva che si pensava esclusiva della donna; in secondo luogo le donne allora, come anche successivamente, erano le depositarie, anche se non esclusive, del sapere ancestrale della raccolta, quindi della conoscenza delle piante e del territorio (vedi i roghi delle “streghe”, cioè della conoscenza erboristica ancestrale, solo per fare un esempio); inoltre, finalmente, ciò consentirebbe una spiegazione coerente degli innumerevoli ritrovamenti di statuette femminili della fertilità, “dimenticati” nelle ricostruzioni accademiche maschili del XIX e XX secolo, che difendono consciamente e inconsciamente il patriarcato fondato sul mito del grande maschio cacciatore.
I maschi per superare questo divario inventano un’attività pericolosa e in qualche modo eroica, caricandola di mistero (riti) ed esclusività per recuperare prestigio e ruolo.
(...)
Questo tentativo di ottenere una predominanza di ruolo avviene a caro prezzo perché in questo modo i maschi spezzano l’armonia ed il rapporto con le altre popolazioni animali, che fino a quel momento erano fonte di stupore primevo) e di osservazione per le capacità fisiche superiori e per le capacità di adattarsi e superare le difficoltà.
(...)
Da questo gesto di violenza nasce il senso di colpa citato anche nel libro di Manicardi, che da vita a molti riti di riparazione, a procedure che perdurano ancora oggi in molte popolazioni studiate dagli antropologi.
Da qui dunque l’ideologia del dominio, l’allevamento, l’agricoltura, la religione, la disuguaglianza e l’ingiustizia, cioè tutto quello che in entrambi i libi è brillantemente illustrato (capitalismo da capita, quantità di teste di bestiame posseduto, pecunia da pecus, pecora, ecc.).
A prescindere dalla costruzione di Mason ricordo anche che circa due milioni di anni fa comincia l’uso della selce (la tecnologia) e circa un milione di anni fa l’uso del fuoco anche per cuocere i cereali selvatici raccolti e le prime forme di panificazione, con tutto quello che ha comportato in termini di socialità con la cultura del focolare, la distinzione dei ruoli e la gestione dei tempi quotidiani.
Introduco questi elementi per sottolineare come la nascita, comunque recente, dei primi strumenti tecnici dell’umanità non abbia sostanzialmente mutato la realtà dei milioni di anni precedenti, mentre il gesto che ha determinato la rottura dell’equilibrio con l‘avvio dell’antropocentrismo e dello sviluppo civiltà/capitalismo è stato la violenza, la sottomissione e lo sfruttamento degli altri animali, che simbolicamente passano dall‘essere considerati individui distinti appartenenti ad altre tribù o gruppi a mere risorse con l’allevamento; la caccia in questo percorso infrange simbolicamente il rapporto e la percezione paritaria e da l’avvio a tutte le pratiche di sottomissione mettendo l‘umano al vertice della biosfera. Le varie tecniche del fuoco e della selce non hanno determinato lo stesso risultato, cioè la rottura dell’equilibrio precedente durato milioni di anni, come invece la caccia.
Questo in estrema sintesi e certo il libro di Mason è molto più esauriente, ma la questione politica che vorrei sollevare è che il nodo centrale, la prospettiva teorica in cui si muove il libro è quella del pensiero e movimento antispecista, pensiero che mette al centro della critica alla civiltà l’antropocentrismo e non l’egocentrismo come viene fatto nel libro di Manicardi.
L’errore di partenza originato dal nascere patriarcato è stato appunto quello di spezzare, con la caccia, la posizione paritaria con il resto delle popolazioni di specie diverse e quindi la posizione orizzontale dell’umano nell’universo naturale, sostituendola con quella verticale-verticistica. Questo ha preparato il terreno ad allevamenti ed agricoltura e a tutto quello che in entrambi i libri è ottimamente spiegato, cioè le varie discriminazioni di specie, genere, colore della pelle, orientamento sessuale, classe sociale di appartenenza, distruzione dell’ecosistema, ecc, ecc.
Quello che mi chiedo è se questa mancanza di considerazione della prospettiva antispecista sia frutto solo di non conoscenza o del tentativo estremo di evitare le conseguenze profonde di questa impostazione che scalza l’umano dalla sua posizione dominante e in particolare il tentativo di “salvare la bistecca” continuando in qualche modo ad asserire la legittimità etica della discriminazione nei confronti degli altri animali (e quindi spiegherebbe anche perché, ancora una volta, la lettura dei dati antropologici e paleontologici venga gestita per non mettere in discussione fino in fondo il mito fondativo della caccia, parlando ancora di raccoglitori-cacciatori come se il binomio esistesse fin dalle origini e non da un momento molto recente come è quello di 20/25 mila anni fa, che vi partecipassero, poi in un momento successivo, limitatamente, anche le donne o meno).
(...)
Purtroppo non si tratta di un elemento secondario rispetto alla critica della civiltà perché se è vero come viene scritto nel prologo, che per attivare prassi coerenti occorrono delle profonde radici teoriche che creino convinzione, la costruzione di questi fondamentali deve spingersi a scavare sempre più a fondo cercando anche di formulare risposte al perché dopo milioni di anni ci sia stato questo cambiamento.
In questo modo, andando alle radici, è possibile costruire prassi più efficaci nel qui e ora, perché, anche se eliminassero le contraddizioni della civiltà tecnologica ma restassimo ancorati all’antropocentrismo, la società umana riproporrebbe comunque nuove forme di dominio: i due elementi sono strettamente collegati, questo è il punto dell’impostazione antispecista ed anti-antropocentrica.
È inutile cercare di superare il delirio della civiltà contemporanea se non si elimina il gesto fondativo di questo delirio, che ha posto l’umano al centro dell’universo, in posizione di dominio su ogni altro elemento dell’esistente1.
Una delle prassi immediate è, per esempio, la scelta vegana, che comporta già un grande passo in direzione di una società altra dalla civiltà e questo con un semplice gesto quotidiano passivo che non comporta dispendio di scelte attive: solo non mangiare gli altri animali e i loro derivati e da qui tutto il resto.
Non si tratta, appunto come è scritto nel libro, della coerenza assoluta, ma di un gesto semplice, efficace ed economico per noi stessi (salute), gli altri umani (fame nel mondo, educazione alla nonviolenza e al rispetto dell’altro) e l’ambiente (deforestazione, gas serra, falde acquifere, ecc.).
(...)
L’opera “Liberi dalla civiltà” è importante ma occorre il coraggio di andare ancora più a fondo: non a caso Diamond in “Armi, acciaio e malattie”, parla di cacciatori-raccoglitori, Manicardi di raccoglitori-cacciatori, in realtà i nostri predecessori per milioni di anni sono stati solo raccoglitori e se vogliamo ritrovare la strada occorre tenerne conto, perché lo sfruttamento e la violenza sulle forme di vita terrestri anche non umane non consentirà mai di costruire un’umanità nuova ed un mondo migliore.
Spero di aver apportato un contributo utile alla riflessione.
Saluti.

Luca Bino
(Milano)

Una società che superasse l’ideologia del dominio umano e della violenza, troverebbe più facilmente risposte tecnologiche armoniose (vedi selce e fuoco alle origini) anche con la costruzione di una società libertaria, che necessariamente dovrebbe essere fondata sul ripensamento totale dell’attuale civiltà e delle sue origini: è possibile pensare una società orizzontale, per esempio, in presenza di tecnologie non controllabili dalle comunità, come cellulari, computer, aeroplani, ecc. ecc.? La domanda è rivolta agli entusiasti delle tecnologie come internet, che... “apre spazi di libertà”, ma controllati da chi? È sicuramente difficile, come lucidamente è scritto nel libro di Manicardi, ma bisogna cominciare a pensare e praticare il percorso, seppur faticoso, ogni qualvolta ciò sia possibile (non mangiare animali, consumare biologico, muoversi in bicicletta, riciclare, orti urbani, creare comunità rurali, spegnere il cellulare, la televisione, incontrarsi di persona anziché su internet, ecc. ecc, per costruire già in ogni gesto quotidiano la società libertaria della giustizia dell’uguaglianza). Tutto da pensare e inventare.

 

I governi non sono fault tolerant

Discutendo sulla produzione d’energia, m’è capitato di spiegare perché secondo me sia preferibile un sistema distribuito di tipo peer to peer, piuttosto di uno centralizzato. Nella fattispecie, il confronto era fra l’idea di una produzione di massa d’energia, mediante grosse centrali (nucleari, ad esempio), contro quella della produzione autonoma di energia da parte dei singoli utilizzatori, mediante fotovoltaico o eolico, e la successiva ridistribuzione degli eccessi sulla rete comune.
Il secondo sistema è, secondo me, largamente preferibile per due motivi. Il primo è che la gestione decentralizzata, distribuita ed autogestita, permette una maggiore indipendenza e libertà per gli utilizzatori. I quali saranno molto meno dipendenti dalla volontà e dalla gestione di un singolo ente governatore. Il secondo motivo è la tolleranza ai guasti. Se la rete venisse costruita in modo opportuno, facendo sì che la distribuzione dell’energia prodotta in eccesso fosse correttamente bilanciata, la caduta di un singolo nodo verrebbe compensata dal lavoro degli altri nodi della rete. Ogni nodo contribuirebbe per una piccola parte alla produzione di energia. Si potrebbe dire che esso avrebbe poco “potere” rispetto a tutto il sistema, e che sia invece il contributo di tutti i nodi a far emergere la quantità di energia sufficiente per alimentare tutto il necessario. Di conseguenza, la caduta di un singolo nodo, proprio in virtù del suo basso potere e della sua bassa influenza sull’intero sistema, non ne causerebbe la caduta e verrebbe compensata dal bilanciamento del carico.
Chi ha esperienza o conosce il funzionamento delle reti peer to peer, avrà ulteriori conferme su questo modo d’intendere le reti. Sono noti i casi di reti governate da server centrali, che sono cadute a causa del sequestro, la chiusura di questi server, o l’eliminazione arbitraria di molti dei contenuti (Napster, vari server FTP e siti Web di condivisione dei file, video e musica) o che hanno seri problemi di sicurezza per i propri utenti (ed2k), mentre riescono a sopravvivere meglio quelle di tipo completamente distribuito (Kademlia, Gnutella, Freenet, ed in misura minore BitTorrent). In tutti questi casi, ovunque ci sia un accentramento d’informazione e quindi di potere, il pericolo di caduta aumenta, e con esso il rischio per tutti i numerosissimi utenti, di rimanere privi del servizio.
In tutti questi casi, l’importanza della tolleranza ai guasti, detta anche fault tolerance, deriva dall’assunto che non sia sufficiente chiedersi se avverrà mai un guasto, e quindi lavorare per evitare che avvenga, ma invece dare per scontato che i guasti avvengono sempre e la questione diventa il quando, ed il come salvarsi in quei casi. Una gestione che privilegia la prima idea, cercherà di evitare il più possibile la caduta dell’unità centrale di governo, del server, fortificandolo e difendendolo il più possibile. Molte risorse verranno quindi usate per la preservazione e la manutenzione di esso, perché un errore o un guasto si ripercuoterebbero su tutta la rete e su tutti gli utenti. Scegliendo la seconda idea invece, si privilegia la sopravvivenza della rete e la continuità di servizio per gli utenti, i quali sarebbero fra loro dei pari, utilizzatori e contemporaneamente produttori. Lo si fa, evitando d’assegnare troppo peso a pochi singoli nodi e distribuendo e bilanciando con opportune regole i carichi di lavoro. Lo scopo è di far sì che un errore o un guasto su un singolo o su gruppi isolati di nodi, non si ripercuota sull’intera rete e quindi sugli utenti.
Da questo, si può fare un passo ulteriore ed utilizzare lo stesso paradigma per osservare l’organizzazione della società. Le società governate centralmente sono più simili ad una gestione di tipo client-server (cliente-fornitore). Più un governo accentra i poteri, più diventa totalitario, e più esso necessita di fortificare e proteggere il proprio nucleo centrale. Grande parte delle risorse verrà utilizzata per mantenere funzionante e di sufficiente potenza il centro del sistema. Il motivo è già stato spiegato: in caso di errore o di guasto o caduta di esso, tutta la rete ed i singoli utenti rischierebbero il tracollo e l’interruzione dei servizi. I singoli utenti infatti, sarebbero come dei semplici client, clienti appunto, utilizzatori, consumatori del servizio, senza possibilità di contribuire al sistema o di modificarlo, perché non sono “progettati”, ossia educati, per farlo. Dal punto di vista della tolleranza ai guasti, questo tipo di gestione è molto debole. Com’è stato scritto, è preferibile dare per certa la possibilità di errore – umanamente naturale ed inevitabile – e progettare la rete di relazioni in modo che essa e gli utenti possano sopravvivere in caso di guasti ed errori. Si fa questo, rendendo gli utenti dei peer, ovvero dei pari, che siano sia utilizzatori che produttori. Si tenderà all’uguaglianza fra di essi, per evitare che dei singoli possano accrescere il proprio potere. Nel caso accadesse infatti, troppi altri utenti diventerebbero dipendenti da essi e la rete si sbilancerebbe. In caso di errore o guasto, un numero maggiore di utenti ne avrebbe danno. Questo tipo di organizzazione parte dalle democrazie dirette, fino ad arrivare all’anarchia. Andando in senso opposto, ad un maggior accrescimento di potere ed influenza sulla rete da parte di singoli nodi, si passerebbe, quindi, attraverso le democrazie rappresentative, fino ad arrivare ai governi totalitari.
Da queste idee, si arriva alla conclusione che l’organizzazione di tipo governato sia inferiore e poco preferibile rispetto ad almeno le democrazie dirette, per via di una minore capacità di fault tolerance. :-)

Stefano Stoffella
(Rovereto – Tn)

 

Benvenuto ad Alcatraz

Strizzai gli occhi nel riverbero della luce. Tra pochi istanti il sole si sarebbe levato dalla nebbia e dai tetti, verso oriente, tremolando come un globo di fuoco impigliato nei densi vapori dell’umidità mattutina. Ma già prima di apparire i suoi raggi ferivano la vista, e dalle nove fino alle cinque di sera avrebbe dardeggiato spietato, alto, implacabile, traverso la perenne cortina di nebbia. i grigi muri di cemento armato rinforzato, il labirinto e i cunicoli che portavano nelle sezioni e nelle celle, ogni cosa si sarebbe rivestita di una dolorosa lancinante abbagliante luce bianca, insostenibile allo sguardo. Otto ore di calore torrido, senza scampo, e d’umidità opprimente, perché l’Alcatraz italiana, l’isola del Diablo, è la colonia penale più umida d’Italia, a causa della fredda corrente marina. Essa lambisce le coste, le scogliere e raffredda bruscamente l’aria, provocando il formarsi di una cappa di nebbia che non si scarica mai in pioggia. E come appariva lontano, lontanissimo, irraggiungibile il refrigerio della notte, in quella vampa di luce dell’insonne mattino. Non prima delle otto di sera aguzzando lo sguardo fra le nebbie verso Ovest, avrei visto il disco arancione del sole immergersi nei vapori del mare dietro l’isola della Corsica. Fra undici ore.
Un’eternità.
Mi allontanai dalla finestra e tornai a sedermi nell’angolo ancora in ombra. Benché all’interno della cella l’aria si stesse già riscaldando, avevo ancora circa un quarto d’ora di ombra e di relativa frescura prima che la luce irrompesse dalla finestra in ogni angolo. Questo erano (era uno?) dei momenti migliori della giornata per riflettere. Diedi un’occhiata alla pila di libri posata sul comodino al mio fianco: no, adesso non volevo leggere. Dopo, col caldo, per ammazzare la noia disperante delle ore. Ma questi ultimi minuti di aria respirabile erano preziosi come l’oro: bisognava spenderli bene. Pensare. Sì, volevo pensare, anche se ciò mi avrebbe fatto male. Infatti mi era impossibile pensare alla mia presente situazione senza provare il brivido d’orrore di chi sta sospeso sull’orlo dell’abisso. E tuttavia in quest’ora magica e indefinibile del primo mattino, quando tutto poteva sembrare un sogno, o un incubo era ancora possibile spezzare le catene dell’angoscia e vagare in libertà nei campi della mente. Illudersi? Forse. In fondo che male c’era. Che male c’era a sognare un po’, a obliare la stretta del presente, fra i gabbiani e gli uomini del Generale Della Chiesa, se questo mi avrebbe dato la forza di tirare avanti fino a sera? E a sera, finalmente, col buio e con il fresco, sarebbero tornati altri pensieri di speranza, altri sogni. Il mio mondo, si sarebbe fermato per alcune ore di seguito. Fino al mattino dopo.
Eppure quanto tempo avrei avuto a disposizione per scrivere, se non altro. Quando arrivai a Pianosa, un capitano dei carabinieri insieme a un maresciallo degli agenti di custodia, mi disse: Cobianchi... benvenuto ad Alcatraz. Già quanto tempo avrei avuto a disposizione per scrivere. Ed io, che mi reputavo uno scrittore, avrei dovuto far tesoro dell’opportunità che mi si offriva.
Invece, non riuscivo a scrivere nulla, non potevo buttar giù nemmeno un pensiero. Mi ricordai di aver letto in un libro di Tocqueville, l’angoscia dello scrittore che, prigioniero del maltempo su di una minuscola isoletta della Sicilia, non era capace di scrivere un rigo. Tocqueville narrava di aver sempre pensato che, fra quella di tutti i carcerati, la situazione dello scrittore fosse pur sempre la più fortunata: che, armato di carta, penna e tempo in abbondanza, egli potesse tramutare in serenità la pena cui fosse stato condannato. Ma confessava che alle prove dei fatti queste fantasie si erano mostrate fallaci: egli non aveva tenuto conto che l’essenziale dello scrittore non è il tempo ma lo stato d’animo: e lo stato d’animo di chi è preso in trappola non favorisce la creazione letteraria... non favorisce nemmeno i ricordi, pensai riflettendo. Il mondo di prima, non il mio mondo, sembrava così irreale, adesso che lo avevo lasciato fino al 2014. Al contrario di quanto avevo sempre pensato, la distanza non rendeva più vivido il ricordo: al contrario, lo sfumava. Faticavo persino a rivedere l’immagine dei miei amici più cari, in quanto persone che mi hanno voluto bene, nella mia vita non ne ho avute, perché sono stato 15 anni in orfanotrofio. Mi sembrava tutto così remoto e improbabile, come un miraggio; come il Monte Bianco o il Monte Rosa, che in varie escursioni avevo ammirato e amato. Come i miei stessi sogni giovanili di scrittore, avvocato, o giornalista. Dal basso mi giunse un vocio umano agitato e confuso di un mio vicino di cella. Dunque erano le nove.
Tra pochi attimi il sole spietato mi avrebbe snidato da quel mio ultimo rifugio. E sarebbe cominciata la mia lunga, agonia quotidiana. Una volta, l’anno prima, non avendo nulla da fare m’ero soffermato a considerare un canarino in gabbia. Era una gabbietta di legno minuscola, con due piccole mangiatoie alle pareti opposte, e perfino un’altalena che pendeva dal tetto. Forse venti centimetri in tutto. Era di primo mattino, come adesso, e tra poco la gabbietta sarebbe stata investita dal sole: ma per allora indugiava ancora sotto l’ombra del tetto spiovente, sul muro bianco cui era appesa. La bestiola, saltellava senza posa da un’estremità all’altra: balzava sulla minuscola altalena, da lì alla vaschetta dell’acqua; si voltava rapidamente, tornava a posarsi sull’altalena, e atterrava sulla vaschetta del mangime; poi di nuovo daccapo. Lo spazio era così minimo che non poteva mai aprire del tutto le sue piccole ali e si muoveva quasi solo a saltelli. E così... pensai per tutto il giorno: e tutti i giorni per tutta la vita. Ed ogni giorno al levar del sole, l’incubo sarebbe ricominciato. Dodici ore di sole, e di calore soffocante, nelle quali saltellare da una parete all’altra tuttavia quasi restando fermo. Gli uomini, questi animali troppo stupidi o troppo crudeli, ammiravano il giallo piumaggio della bestiola, il suo muoversi aggraziato, e il suo canto dolcissimo...! Un canto di disperazione, che solo le loro orecchie e i loro cuori di pietra potevano ascoltare compunti e perfino ammirati. Mio Dio, avevo pensato, guardando la piccola gabbia e il suo instancabile prigioniero: e se lì dentro ci fosse un uomo?
Il sole si posò nel mio angolo e mi riscosse dai ricordi. Con una sola occhiata misurai la cella: due metri per tre. Una coltre di sporcizia innominabile nascondeva il pavimento. Attraverso le sbarre della finestra cresceva il brusio dei detenuti dell’Alcatraz italiana, la Cayenna italo-francese. Questo era il mio universo da parecchi mesi, e lo sarebbe stato, anche per chissà quanti: forse dieci, cento, forse mille. I carabinieri del generale Della Chiesa su richiesta e ordine della direzione generale degli Istituti di Prevenzione e Pena di Roma mi avevano “differenziato” e mi ritrovai con mafiosi e terroristi.
Levai gli occhi al cielo: un sole pallido e malato tremolava in una cortina di umidità. Cominciai a misurare con i passi la cella, avanti e indietro, come l’uccellino dei miei ricordi. Avrei camminato così per un ora, per due ore, per tutto il giorno. E così domani. E dopodomani. E poi tutti i giorni, forse per sempre.

Pino Cobianchi
(carcere Don Bosco, Pisa)

 

Contro la politica politicante

Grazie per aver pubblicato, nel numero 5, anno 40, del giugno 2010, pp.96-97, l’intervento di Franco “Bifo” Berardi, un personaggio che non vive solo di ricordi, nonostante abbia dietro di sé una storia illustre. Da persona ormai collocabile in un ambito politicamente abbastanza lontano condivido tutto quanto scrive “Bifo” (non mi era successo quasi mai, in passato, ma ciò non credo sia importante).
Importante la sottolineatura della necessità di “combattere per Europe 02, per un nuovo concetto del processo che sia fondato sulla potenza del lavoro intellettuale non sul comando finanziario della Banca centrale”, la rampogna contro “Il razzismo ignorante di Schengen”, dove importante è anche, oltre all’accennata pars destruens, quella construens, di una “nuova Europa basta sull’amicizia e sulla creatività” (cfr. ibidem). Non credo che si vedrà mai nulla di simile, ma l’“utopia concreta che morde sulla storia” deve continuare ad esserci, a pungolare anche chi di amicizia, creatività, intelligenza se ne strafotte, anzi le considera seri impedimenti per raggiungere i propri scopi...oltre naturalmente ai loro portatori.
Ma come realizzare qualcosa di simile, di fronte e di contro al “Moloch terribile” (calco i toni non a caso, dato che quella di queste istituzioni è una dittatura vera e terribile) di Banca Centrale Europea e FMI (Fondo Monetario Internazionale)? Evidentemente, l’unica risposta è, anzi può essere, la faticosa costruzione di un’economia altra, alternativa. Un’alternativa che magari si vorrebbe unicamente autogestionaria, ma che, fatalmente dovrà essere “plurale”, con cooperative non tipo COOP (cioè con utili indirizzati a senso unico, strozzinaggi vari, insomma quanto negli ultimi anni abbiamo appreso di mister D’Alema & Co... ), tentativi –almeno- di autogestione, economia mista, escludendo quella “di stato”, neppure solamente per principio, ma per esperienza, dato che le catastrofiche esperienze di statalizzazione made in Italy hanno dato luogo unicamente a carrozzoni super-attrezzati e a intrighi di palazzo tra economia e politica, la cui storia ci si rifiuta ancora di indagare a fondo, per malcelati interessi, per non dire dei buchi “clamorosi”cui hanno dato luogo.
Sono d’accordo, ovviamente, sulla necessità di recuperare il primato di società e politica sull’economia, ma la stessa, cioè l’economia non è un fattore ineliminabile. Contro il fantasma vetero-marxista della “subdeterminazione in ultima istanza” dell’economia (l’espressione è di Althusser) non serve bypassare la stessa, rischiando di implodere, ma, appunto, di “svolgerla” altrimenti, evitando di farne appunto la “Causa Prima” (questo è in realtà l’ambiguo concetto citato prima), ma al contempo attuandola in modo che “amicizia”e “creatività“siano le sue vere principali fonti ispiratrici. E proprio su ciò, al di là di generosi tentativi ventilati anche su “A”( bene Andrea Papi, ma anche tanti altri, eppure anche nel “papiano” Per un nuovo umanesimo anarchico, Zero in condotta, Milano 2009, all’ economia si accenna e basta... Caro Andrea, al prossimo libro, allora... So che non sei un “economista”, ma considerando le solenni cantonate di tanti “economisti”, dovrai buttarti anche tu nell’agone!) e delle scarse e generiche annotazioni mie in questo e in un testo precedente (nello stesso numero 5, pp.93-94) c’è da dire e fare molto, pena un clamoroso “bagno”, che non sarebbe certamente il miglior modo per andare ad extra, dove quando dico “noi” intendo un”fronte ampio” che non potrà limitarsi ad alcuni gruppi, ma includerà chi “non vuole starci”.
Ma, al di là dell’individuazione di un “frente largo y ancho” (lungo e largo, cioè), credo, appunto, si debba ricercare chi è deluso della “politica politicante”: chi non si riconosce nella macro-ideologia di Schengen, con i suoi parametri folli, chi non ama “i due fronti” o (ora anche i “centristi”... a volte ritornano, purtroppo...in Italia il centro si è sempre distinto , sì, ma per inerzia totale). Detronizzare” il re degli sciocchi” (“roi de cons”, versione francese molto più “dura” e pregante-Georges Brassens): questo il programma. Ma il re degli sciocchi non è una persona, né uno schieramento. È trasversale, in effetti, veramente.
Chi non vuole lo strapotere delle banche, della finanza, vuole invece un’economia veramente cooperativa, in potenza autogestionaria, chi vuole la giustizia sociale non imposta stolidamente e in maniera fittizia, anzi finta (come era/è nei regimi “comunisti”), la libertà vera, non di razzolare nello sterco mediatico di ogni schieramento... , chi rifiuta sempre e comunque la guerra, senza le limitazioni “di difesa” poste dalla Costituzione (e troppo spesso fraintese pour cause), si riconosce in un programma di questo tipo. Senza cedere, peraltro, alle pericolose sirene dell’“antipolitica”, che è solo “anti”, quando invece ogni atto pubblico e/o civile è “politico”, nel senso della gestione della “polis”, della città-società (si traduce sempre con “stato”, ma non è detto che si debba farlo, anche perché “società“ traduce benissimo il lemma).
A tutti quelli/tutte quelle persone che vogliano intervenire su questo, chiedo semplicemente di farlo.

Eugen Galasso
(Firenze)

 

Caro Antonio Cardella/1

L’articolo di Antonio Cardella apparso su A-Rivista Anarchica di questo mese stimola quantomeno una riflessione. La considerazione finale di Antonio, secondo cui – oggi più di ieri – l’anarchismo debba trovare risalto e concretezza nelle azioni visibili, è largamente condivisibile, diremmo auspicabile e necessaria. Antonio parte da un ragionamento che, tuttavia, può essere un motivo di confronto. Perciò gli rispondiamo. Egli denuncia il fatto che la proposta anarchica moderna si appoggia ancora sui vecchi personaggi (autorevolissimi) che hanno fatto la storia dell’anarchismo, additando la trasmissione televisiva di Giovanni Minoli ‘Quando l’anarchia verrà’ che illustra l’anarchismo (con tutti i limiti di un medium di regime), soffermandosi sui soliti Bresci, Sacco e Vanzetti, gli anarchici spagnoli della guerra civile. Allora partiamo da questo punto.
Intanto ci è sembrato un avvenimento eccezionale (e lo è stato) il fatto che una puntata de ‘La Storia siamo noi’ si sia occupata di anarchia, con tutti i suoi limiti – come dicevamo – e le sue omissioni. Di questo bisogna proprio prenderne atto, non capita tutti i giorni e nemmeno tutti gli anni che una tv nazionale parli di anarchia in termini storici e lungi dai luoghi comuni. Proprio in virtù di ciò, noi pensiamo che sia grasso che cola già solo il fatto che gli italiani contemporanei conoscano Bresci, Malatesta, Lucetti... cioè quelli che Antonio pone ingiustamente ‘nel paesaggio lunare di una civiltà sepolta’. Se va bene, ma deve proprio andare bene, gli italiani di oggi conoscono a malapena Bakunin, forse solo per sentito dire, figuriamoci i Failla.
D’altra parte, comprendiamo Antonio Cardella. Chi da una vita si occupa di anarchia, proverà certamente nausea ad ascoltare le solite ‘vecchie’ informazioni. Bisogna però considerare che per la maggior parte degli italiani, quei ‘vecchi’ anarchici sono una vera novità. E dato che l’ideale anarchico non ha età, per moltissime persone sarebbe una scoperta illuminante leggere ad esempio il Programma anarchico del 1919.
Ecco, da questo blog pensiamo sia necessario parlare anche dei padri dell’anarchismo, cominciare dalle basi, per foggiare coscienze più consapevoli. Dobbiamo renderci conto che la lotta anarchica, oggi, deve svolgersi sul piano della conoscenza dei temi libertari. E’ già una fortuna far comprendere agli italiani che l’anarchia non è caos e violenza.
Detto ciò, siamo assolutamente d’accordo con Antonio Cardella in merito alla necessità di mostrare l’anarchia. Occorre uscire fuori dall’élite, aprire le sedi, fondarne di nuove, occorre fare una corretta propaganda (come facevano ‘i vecchi anarchici’), illustrare i principii dell’anarchia. E bisogna farlo adesso, perché sentiamo questa urgenza dettata dal bisogno di solidarietà e di giustizia sociale, elementi vitali che da troppo tempo vengono soffocati. C’è anche l’esigenza di contrastare la propaganda denigratoria (anarchici sempre buoni come capro espiatorio di ogni violenza di Stato). La società deve ritornare a conoscere, quindi a riconsiderare l’ideale anarchico. Se quasi cento anni fa il quotidiano ‘Umanità Nova’ tirava decine di migliaia di copie, gareggiando testa a testa con i giornali più blasonati, oggi ‘UN’, seppur autorevole, è diventato un settimanale presente solo in qualche edicola di alcune città (fermo restando l’abbonamento). Che fare allora?
Ben vengano i convegni e i dibattiti pubblici, i siti e i blog, ma occorre soprattutto progettare una severa presenza sul territorio da tradurre in termini di aiuto concreto, visibile, palpabile. Pensiamo ad esempio a chi soffre negli ospedali o nelle carceri, ai disoccupati, ai senzatetto, a chi è stato bollato come ‘clandestino’ ed è costretto a sopravvivere nascondendosi. Andiamo nei quartieri di periferia a parlare, a discutere, andiamoci ogni giorno. C’è molto da fare, l’elenco è lungo.

L’équipe di ‘Italiani Imbecilli’
(http://italianimbecilli.blogspot.com)

 

Caro Antonio Cardella/2

Nell’articolo “Uscire dal tunnel. Ma come?” apparso nel numero di “A” di novembre, Antonio Cardella scrive che quando si tratta di passare dalle denunce alle proposte gli anarchici balbettano e si ritrovano anch’essi “coinvolti nella difficoltà di dare indicazioni concrete e praticabili.” Eppure in molte circostanze essi sarebbero quelli meglio qualificati a dare tali indicazioni, se pensiamo che movimenti odierni, come quello ecologista, prendono a prestito dal metodo anarchico senza rendersene conto.
Certamente ci sono ecologisti che invocano legislazione e misure coercitive. Ma la vera essenza del movimento ecologista consiste nella consapevolezza che la soluzione del problema ambientale è principalmente affidata alla somma dei comportamenti individuali volontari di tutti i membri della società, che agiscono contro il loro interesse personale immediato nel nome dell’interesse dell’umanità intera.
Ora, la frase che ho messo in corsivo non è altro che una succinta descrizione del metodo anarchico, quello per cui da un secolo e mezzo siamo stati compatiti come ingenui utopisti. E mentre questo metodo è diventato di colpo realistico e sensato, non solo non ne viene riconosciuta l’ascendenza anarchica, ma ironicamente la stessa questione ecologica va prendendo la piega di colpevolizzare la gente comune, rea del crimine di consumare troppo, anziché la logica del profitto capitalistico, che di questo modello di consumo è la fonte.
Ecco dunque un terreno su cui gli anarchici non solo non devono balbettare, ma possono a pieno diritto a gridare forte per rivendicare la paternità dei loro metodi e dare alla battaglia ecologista l’indirizzo anti-capitalista che essa deve avere.

Davide Turcato
(Vancouver – Canada)

 

Chi salviamo?

Tutti si affannano a interessarsi e a disquisire dottamente su chi potrà essere, in questo periodo di crisi, il successore di Berlusconi come se questo fosse un problema. Forse anch’ io lo riterrei un problema se credessi che questa fosse la solita ciclica crisi di mercato, finanziaria, economica e comunque una crisi risolvibile all’ interno di questo sistema.
Il punto è che questa, e i capitalisti, credo lo sappiano benissimo, non è una crisi ma è, semplicemente, un sussulto finale del capitalismo. Sussulto finale che, se forse non organizzato direttamente da loro, permette il tentativo (questo si “loro”) di dargli una direzione che prepari il futuro che desiderano realizzare.
Naturalmente questo rende il tutto come cosa ben più pericolosa della semplice crisi del mercato. La fine di questo sistema non vuol dire che quello che stanno preparando possa essere migliore per l’ umanità. Vedo che i capitalisti, cioè coloro che detengono la ricchezza, il potere e soprattutto il controllo dei mezzi del potere (che stringi stringi sono sempre armi, religioni e media) stanno preparando qualcosa che potrebbe renderci senza o con pochissime speranze.
I segnali in questo senso sono molti e visibili a tutti. Il nuovo razzismo, il nuovo fascismo il nuovo edonismo si basano e generano collusioni, connivenze, complicità e corruzione elementi tutti che producono la distruzione dei valori che, da almeno dai tempo della Grecia, hanno tentato di guidare l’ umanità verso il futuro. Tutti i diritti umani, individuali e collettivi, sanciti o riconosciuti da tutte le leggi sono nel mirino del potere il quale non sa che farsene delle leggi in quanto trae la propria protezione dalla propria forza.
E infatti ogni legge appare nel mirino del potere. In certi paesi (come l’ Italia) sembra più facile raggiungere questo obiettivo e non è neanche il caso di elencare i segnali in questo senso, in altri il cammino è più lento ma ormai il percorso è tracciato. Anche le leggi economiche, le più semplici sono destinate ad essere eliminate o superate (come si ama dire). Anche in questo caso è inutile stare ad elencare. Quello che meraviglia è l’ incapacità di leggerne i segnali.
Per esempio l’ Università: si crede che la riforma Gelmini sia soltanto dovuta a un fattore economico? Come è possibile non capire che si punta sulle Università private, o comunque, carissime per preselezionare, con la semplice forza economica, l’esservi ammessi. La nuova classe dirigente la si vuole per diritto ereditario. Qualche benpensante può ancora credere che chi ha il potere oggi possa assoggettarsi ad un qualunque diritto di reale meritocrazia e di concorrenza che possa andare a scapito dei propri figli?
Ed ancora: il mezzo principale per difendere gli stati dalla minaccia rappresentata dal debito pubblico, io sostengo, non sia sottoscrivere impegni finanziari da parte di paesi esterni, ma rendere, per prima cosa, noti chi siano i creditori.
In ogni normale situazione di mercato in cui ci sia un grosso debitore, i più interessati ad aiutare il debitore stesso sono proprio i creditori i quali usano ogni prudenza per evitare il crack che azzererebbe il loro credito. E per far ciò si caricano di allungare i termini di pagamento, ridurre gli interessi da percepire, abbonare parte delle somme ecc. perché è legge economica fondamentale, nel tanto amato regime di mercato, che chi sbaglia a dare credito perda i suoi soldi e buonanotte. In più se qualcuno fosse deciso ad intervenire per salvare i debitori (e non il debito) aspetterebbe che fosse intervenuto o quasi intervenuto il fallimento per, solo allora, intervenire verso i creditori con meno somme possibili per poi potere finanziare la ripresa veloce dei poveri debitori.
Nei casi sotto i nostri occhi non succede affatto questo. I creditori, al contrario, minacciano a destra e a sinistra il fallimento e coloro che dicono di volere aiutare i poveri debitori si fanno velocemente avanti. Come mai?
Supponiamo che io sia il proprietario di una banca: chiamiamola “Ma che bella bella bella bellissima banca” e sia la mia banca ad essere creditrice, mettiamo, dell’Irlanda. Che faccio? Chiedo all’Irlanda il pagamento immediato di quanto mi deve? Ma se faccio così c’è il rischio che perda i soldi. Se però fossi un banchiere “creativo” riterrei meglio cominciare ad usare i miei giornali e televisioni per convincere i miei governanti (che magari ho fatto eleggere o nominati io) che la situazione è grave, che se fallisce l’ Irlanda falliamo tutti noi, e che è quindi soprattutto interesse del popolo, cioè dei cittadini anche se precari, in cerca di lavoro o già disoccupati (senza che l’Irlanda sia già fallita) che lo Stato si carichi di questo debito.
Ora mi chiedo, se si sapesse il nome del creditore e che il governo vuole impegnare i mezzi del proprio bilancio (tagliando posti di lavoro, servizi ecc.) per pagare il debito Irlandese e che questi soldi vanno a finire alla mia “Ma che bella, bella, bella, bellissima banca” cioè a me, cosa succederebbe? Forse qualcuno avrebbe qualcosa da ridire e non in modo troppo political correctly?
Allegramente questo può ripetersi per tutti i paesi. Allora non è il caso che i cittadini prima di pagare sappiano chi sono questi creditori? E quando dico cittadini, dico cittadini, non Presidente del consiglio, parlamentari, banchieri ecc.
I cittadini pagano e i cittadini devono sapere a chi vanno, questi loro soldi magari senza che venga pagata una lira di tasse. (Pardon, un Euro)
E nessuno mi venga a dire che questi creditori sono tutti in paradisi fiscali per cui non si possono identificare. Basta per questo che coloro che pagheranno o garantiranno i debiti, emanino leggi che impediscano alla loro nazione di pagare senza che siano identificati, senza ombra di dubbio, i proprietari di quelle società “paradisiache”.
Ma non i proprietari che sono subentrati negli ultimi giorni. Tutti i proprietari che si sono succeduti dalla fondazione al minuto del pagamento e seguendo a ritroso il cammino del credito.
Certo, se invece dei poveri debitori si vuole salvare il debito , cioè il credito…

Angelo Tirrito
(Palermo)

 

Il suicidio di Monicelli, la retorica della Binetti

Abbiamo ricevuto la notizia a fine novembre. Uno dei più grandi registi italiani si era gettato da una finestra dell’ospedale in cui era ricoverato, in attesa di una morte per tumore.
Il tempo è fuggito, il finale è giunto repentino, le immagini grigie di una sagoma su di un marciapiede in una fredda alba si sono schierate dietro le nostre palpebre, confuse, squallide, repentine, evanescenti. Noi non sapevamo, non potevamo giudicare le scelte fatte nell’anzianità da un uomo che di fronte alla morte si trova un giorno da solo e decide di non prolungare nessuna agonia, di sfuggire alla sorte anticipandola.
Certo, potevamo giudicare il nostro Paese, “un Paese piccolo piccolo” (la frase titola l’omaggio a Monicelli di Alternativa libertaria), nel quale si osteggia l’idea che le persone malate terminali possano pianificare le proprie cure finali e la propria morte. Degnamente, senza obblighi, senza pressioni. Assieme agli amici e allo stesso personale sanitario. Una “fine” sociale?
Forse per Monicelli l’idea di morire con attorno varie facce era insopportabile, oppure avrà immaginato ironicamente una morte con cerimoniale: la sfilata delle autorità per l’estremo saluto, i giornalisti sotto le finestre, i fiori ed i servizi pronti da prima, i salamelecchi anche di chi non sopportava. Sarebbe stato questo, nell’Italia della Vita in diretta, l’onirico scenario della morte programmata di un noto regista? La capacità d’ immaginare i tempi, le sequenze, e di architettare le scene è propria del regista.

Ma illusi noi, se credevamo che solo gli amici veri e i suoi affetti avrebbero potuto giudicare questo finale e giudicarsi anche. No, qualcun’altra c’era che doveva giudicare: l’onorevole Paola Binetti (deputata UdC, intervento del 1 dicembre 2010), dagli scranni del Parlamento.
Per lei nessuna morte che non sia quella della persona deposta su di un letto d’ospedale, circondata da cure obbligatorie, profuse sino allo stremo, è degna dell’essere umano. Occorre vivere.
È d’obbligo, sino a che il male generato da cause innaturali e spesso umane (non è la morte per cancro in ascesa?) ci porti, aiutato dalla medicina che ne prolunga le spire, a esalare l’ultimo respiro. “Quel gesto di disperazione è un gesto di solitudine ed è un gesto che è maturato in ospedale … e forse non ci si è accorti di quanto era depresso. Non ci si è accorti di quanto fosse profondo questo senso di smarrimento esistenziale …” proclama Binetti decidendo che la morte in sé non deve contenere disperazione, … e se ce l’ ha ci sono gli psicofarmaci e la contenzione?
Evidentemente lei deve avere già personalmente vissuto la morte molte volte, si è reincarnata e lo ricorda. In base a quale esperienza può altrimenti affermare con tanta sicurezza che di fronte alla morte si prova o no disperazione o che il regista fosse disperato quando ha scelto di morire? Di-sperare: non avere speranza, non è forse disperazione l’annuncio stesso della stimata impossibilità di curare oltre un male oltre il suo, il nostro limite?
Anzi di più: non ha forse determinazione chi vuole porre fine al dolore e all’angoscia e decide di prendere in mano la sua sorte? Non è forse una determinazione questa, pari in dignità a quella di chi invece attende, per non perdere anche un secondo, un attimo di uno sguardo, di un barlume di lucidità?
Nella memoria armata di Binetti sono accuratamente cancellati tutti i dati che dicono che nel mondo vi sono tante esperienze di aiuto alla morte, i suicidi assistiti che lei più avanti includerà sbrigativamente nel termine “eutanasia”. E tanti, tanti altri casi, di persone assistite, amorevolmente o no, sino ad una conclusione penosa e artificiale che proprio non volevano. Forse nella sua mente marziale è cancellato anche il gesto di fastidio o di disperazione del suo vecchio Papa, che si dice, sussurrò al chiuso del Vaticano “lasciatemi morire”.

Monicelli è morto solo, perché lo abbiamo lasciato solo, perché lo hanno lasciato solo i suoi amici.” Ecco la sentenza di Binetti, la sua è una condanna degli amici (Amici Miei o suoi?) e del regista stesso che non ha voluto, secondo lei, o saputo tenerseli per le evenienze.
Ma non è oscenità, disumanità, questo sentenziare pubblicamente, dai banchi del maggior palcoscenico politico del Paese, sulla vita privata di un uomo? A quali servizi segreti, gossip o chiacchiere da Buvette si affida Binetti per decretare sulle scelte amicali di Monicelli? Che ingiustizia che sia proprio una donna, in questa istituzione maschilista e con questi parlamentari, a dover dare spettacolo!
Per piacere finiamola, finiamola, questi sono uomini disperati, non sono un gesto di libertà, è un gesto di solitudine, è un gesto di smarrimento, è un gesto che condanna tutti noi.
E qui sta il punto: per Binetti il corpo è pubblico, ecco perché tanto esercizio di impudicizia.
Se qualcuno la sciocca con decisioni che lo Stato cattolico di cui è portavoce non ha potuto controllare, per lei si tratta di una disfatta.
Non è una questione di amicizia né di umanità, di quelle cure e quel “esser vicini agli anziani” a cui poi accenna per vestirsi di compassione, è una questione di controllo.
Passa in secondo piano quindi (ma già si capiva) l’uomo Monicelli, quello che conta è che si ribadisca che nessuno può morire come vuole in un Paese dove fino a qualche tempo fa la Resurrezione dei morti era credo ufficiale. Si vede che occorre mantenerli in buono Stato per la Gloria di Dio, ecco perché il Prèmier è un vero credente, sotto sotto è lui il cattolico di ferro coi suoi capelli tinti pronti per il Giudizio divino .
… questi sono uomini disperati”, se Binetti credesse nell’esistenza dell’anima, parlerebbe così di Monicelli? No di certo, e nemmeno lo includerebbe al plurale in una lista di illustri suicidi, così il regista è veramente morto per lei, come un nome privato di una sua personalità e del quale si può parlare come fosse roba vecchia, così Binetti oggettiva Monicelli, senza timore di essere giudicata da lui in quello che dovrebbe credere essere un Al di là. È incredibile come l’immaginario di certi credenti rispetto all’anima e al post-mortem sia così arido, non per niente i migliori film sull’Al di là sono stati fatti da registi materialisti.
E come l’umanità, della quale i cattolici come Binetti si fanno campioni, sia meglio rappresentata nell’arte come nella vita dai suddetti peccatori, che un tempo andavano seppelliti in “terra sconsacrata”.
Pare quasi che la Fede sia un appretto congelante. È Binetti stessa a riconoscere freddamente in Monicelli la capacità di rappresentare l’umanità “facendoci sorridere dei nostri limiti e probabilmente spingendoci anche a una sorta di critica auto costruttiva …”, ma è chiaro che per lei il fine della cinematografia deve essere … “edificare”. C’è stato un tempo in cui gli italiani erano anche mentecatti, emigranti, ladruncoli, vendi-patacche, zingari … nelle storie di De Sica, come in quelle di Monicelli vedevamo gli italiani di tutti i giorni. Ora invece è calato lo spettro della distanza, della paura, del giudizio, dell’italiano da reality. Si badi bene: non che non si debba giudicare, soprattutto se stessi, ma qui il fine ha di gran lunga eclissato i mezzi, ormai si giudica per interposto gossip, e si è parlato (o urlato) ancor prima di aprir bocca.
La stessa “compassione” ha assunto una tinta gelida e si adorna di un tono alienante. “Basta credere che morire sia libertà perché qualcuno non ti dà una mano. Io credo che noi dobbiamo recuperare in questo una diversa sfida ad andare incontro a chi soffre …”, è così:
si tratta di un andare incontro della Binetti verso il muro, quello tra lei e i sentimenti delle persone, che saranno sempre mediati dai Credo, dai Pater, e soprattutto da una Fede di cemento. Perché lei NON è quella che soffre, lei è quella che va incontro.
La retorica Pro-laica in quella discussione parlamentare non ci è bastata: troppo sbrigativi, troppo convinti di un eroismo ipotizzato alcuni, troppo preoccupato il Pd del voto cattolico per dire veramente come stanno le cose in questo Paese di ipocriti nel quale, è vero, i veri amici spesso li riconosci proprio quando ti danno una mano in ospedali fatti di corridoi come incubi. E magari ti danno proprio una mano a morire in pace. Non ci stupiamo che Binetti costruisca il suo muro di sentenze su questi silenzi.
Sarebbe stato bello vedere la scena parlamentare rovinata da un filo da bucato che, lento lento, da una qualsiasi finestra scorreva fino a impedire la vista, grazie ai panni stesi ad asciugare.

Francesca Palazzi Arduini
(Fano – Pu)

 

I nostri fondi neri

Sottoscrizioni.
Giampaolo Pastore (Milano) 20,00; Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia e Alfonso Failla, 500,00; Ivano Sallusti (Guidonia Montecelio – Rm) 10,00; Pino Fabiano (Cotronei – Kr) ricordando il compagno Spartaco, 10,00; Enzo Francia (Imola – Bo) 20,00; Antonino Pennisi (Acireale – Ct) 20,00; a/m Andrea Papi, rivista “Eutopia” e Comunisti libertari (Atene – Grecia) 30,00; Zeno Pinemonte (Costermano – Vr) 10,00; parte del ricavato della festa in ricordo di Franco Pasello, il 14 novembre 2010, alla Cascina Torchiera (Milano) 141,18; Claudio Neri e Gabriella Gianfelici (Roma) 20,00; Tony Gei (Piovene Rocchette – Vi) 30,00; Paolo Facen (Feltre – Bl) 20,00; Simone Gatti (Borgo Valditaro – Pr) 10,00; Rinaldo Boggiani (Rovigo) 50,00; Karen Kante (Pianoro – Bo) 20,00; Umberto Lenzi (Roma) 25,00; Gino Perrone (Brindisi Casale – Br) 20,00; Roberto Guidi (Forlimpopoli – Fc) 15,00; Gianni Pasqualotto (Romano d’Ezzelino – Vi) ricordando Marina, 200,00; Rolando Paolicchi (Pisa) 10,00; Girolamo Digilio (Roma) 20,00: Ivano (Milano) 100,00; Nicola Piemontese (Monte Sant’Angelo – Fg) 20,00; Gianpiero Perlasco (Ivrea – To) 61,00; Luigi Natali (Donnas – Ao) 20,00; Angelo Tirrito (Palermo) 100,00; Franco Aceti (Bergamo) ricordando Giovanni Gualdi, 1.000,00; Andrea Zen (Galliera Veneta – Pd) 15,00.; Simone Zanchini (San Leo – Pu) 5,00; Michele Zorzetto (Jesolo – Ve) 20,00; Saverio Nicassio (Bologna) 20,00; Angelo Pagliaro (Paola – Cs) 50,00; Giancarlo Baldassi (Sedegliano – Ud) 50,00; Mirko Piras (Nulvi – Ss) 25,00; Antonio Ciano (Gaeta – Lt) 10,00; Pasquale Messina (Milano) 20,00; Giacomo (Milano) ricordando Anacleto, 10,00; Antonia e Vittorio (Bussero – Mi) 30,00; Katia Cazzola (Milano) 10,00; Anna e Cesare Vurchio (Milano) 20,00; Giorgio Sacchetti (Arezzo) 40,00; Federico Battistutta (Gropparello – PC) 20,00; Elvira Cordella (Rovigo) 10,00; Manuela Calciolari (Mozzagrogna – Ch) 20,00; Antonella Trifoglio (Alassio – Sv) 50,00; Dino Delcaro (San Francesco al Campo – To) 20,00; Gianpiero Bottinelli (Massagno – Svizzera) 30,00. Totale euro 3.039,18.

Abbonamenti sostenitori. (quando non altrimenti specificato, trattasi di euro 100,00). Giordana Garavini (Castel Bolognese – Ra) ricordando Emma Neri e Nello Garavini; Fernando Ferretti (San Giovanni Valdarno – Ar) 150,00; Fabrizio Tognetti (Larderello – Pi); Francesco Lombardi Mantovani (Brescia); Gianni Pasqualotto (Romano d’Ezzeliono); Angelo Tirrito (Palermo); Giovanni D’Ippolito (Casole Bruzio – Cs); Massimo Ortalli (Imola – Bo) 200,00; Giuseppe Gessa (Gorgonzola – Mi); Mario Carleschi (Calcinaio – Bs); Filippo Costantini (Ponte San Giovanni – Pg); Mariangela Raimondi Riva (Milano) 150,00; Fernando Ainsa (Zaragoza – Spagna) 200,00; Massimo Pirotta (Monza); Aimone Fornaciari (Nattari – Finlandia); Graziella Zigon (Sesto San Giovanni – Mi) 150,00; Gudo Bozak (Treviso). Totale euro 2.050,00.

Una delle sottoscrizioni ci è stata inviata ricordando Giovanni Gualdi, un compagno bergamasco scomparso il 7 gennaio 2010. A Fiamma Chessa, dell’Archvio Famiglia Berneri – A. Chessa di Reggio Emilia, abbiamo chiesto un suo ricordo.

Il 7 gennaio è stato un anno che Giovanni ci ha lasciati.
Abbiamo perso un amico sincero, un vero amico, come non se ne trovano più. Se n’è andato silenziosamente, per non farsi sentire, per non disturbare coloro che restano a rimpiangerlo. Siamo stati fortunati ad averlo conosciuto, ad aver percorso un tratto della vita con una persona generosa, altruista, buona come lui, che nulla chiedeva in cambio e che molto donava a chi aveva la fortuna di amare.
Giovanni era nato a Bergamo nel 1961. Studente di un istituto professionale aveva svolto attività politica nella sinistra extraparlamentare, in seguito operaio in una fabbrica metalmeccanica e attivo sindacalmente. Poco più che ventenne si avvicina al movimento anarchico. Accanito lettore legge Malatesta, Berneri, Fabbri, Reclus, ecc. e inizia a acquistare libri, periodici, con l’intenzione di creare una piccola biblioteca (della quale era molto fiero), che a poco a poco arricchisce con acquisti più mirati e rari, curando con particolare attenzione la parte sindacale.
Sostenitore del gruppo anarchico bergamasco, è stato uno dei fondatori dell’USI di quella città e a lungo responsabile della Cassa Nazionale e membro del Comitato esecutivo, partecipando a molti Congressi Nazionali dal 1986 al 2008. Attivo nel volontariato già dal 1982 fino alla sua morte, Giovanni è stato uno dei fondatori della cooperativa “Il Laboratorio” ad Albino (BG), che si occupa di inserire nel mondo del lavoro persone disabili e con varie problematiche, insegnando loro la lavorazione del ferro battuto, falegnameria, organizzando dei campeggi estivi a Carrara, corsi di tappezzeria e ceramica.
Grande amico e sostenitore dell’Archivio Famiglia Berneri – A. Chessa, sempre presente a tutte le sue iniziative e costante donatore di materiale interessante. Ci mancherà molto la sua presenza discreta e i suoi giudizi a volte taglienti, ma sempre meditati. Per tutto questo lo ringraziamo.
Juan sin Tierra (come amava firmarsi), avrebbe concluso con: “viva l’anarchia!!”

Fiamma Chessa