rivista anarchica
anno 41 n. 360
marzo 2011


politica / 2

Una stagione da basso impero
di Antonio Cardella

Se ci guardiamo in giro, registriamo solo macerie. La cosiddetta democrazia partecipativa sembra una terra devastata da una catastrofe.

 

Anche se da piccoli avessimo studiato meglio e di più, se poi avessimo applicato con più acribia i nostri principi nella pratica quotidiana, non saremmo riusciti così bene ad infliggere colpi tanto assestati al sistema politico-economico della borghesia di casa nostra, e non solo, di quanto non siano riusciti i suoi sostenitori veri o presunti.
Se ci guardiamo in giro, registriamo solo macerie: per quel che riguarda le istituzioni pubbliche della così detta democrazia partecipativa, proviamo le sensazioni di chi attraversa una terra devastata da una catastrofe naturale, nella quale i sopravvissuti vagano spaesati alla ricerca di un rifugio senza l’ausilio di una bussola che indichi la direzione da imboccare.
Giudicate anche voi.
Il parlamento, che dovrebbe dettare le regole anche minime della convivenza sociale, è ridotto ad un bivacco di mercenari, parte dei quali, la maggioranza, ubbidisce ad un padrone che li sovvenziona, chiedendo in cambio fedeltà cieca ed assoluta; il resto, impotente e rassegnato, recita vecchie giaculatorie del tempo in cui molte cose avrebbero potuto farsi e invece non si sono fatte, lacrime di coccodrillo versate dopo aver ingoiato tutti i rospi di un monolitismo partitico che ha degradato il ruolo elettivo dei parlamentari a servizio burocratico funzionale alla logica degli apparati. Il risultato è che il luogo deputato a stabilire le regole della convivenza nazionale si è trasformato in una palude maleodorante nella quale sguazzano insieme il verminaio costituito dal manipolo dei prezzolati senza onore né dignità e il lacrimatoio dei rappresentanti di una borghesia irreggimentata e rassegnata, epigone tragica di una presunta tradizione liberale sempre rivendicata e mai realmente realizzata.

Le responsabilità della magistratura

Per quel che riguarda l’esecutivo, i palazzi del potere si sono ridotti a luoghi di meretricio esplicito dove un presidente del consiglio, malato nel corpo e nella mente, tenta con artifici degradanti di rinverdire prestazioni da adolescente voglioso e frustrato, con la complicità di vecchi eunuchi che procurano e gestiscono eserciti di donnine più o meno adolescenti, desiderose solo di risolvere, in una sola notte, la sopravvivenza di almeno un mese, a spese di una maniaco visibilmente depresso e decaduto.
Lo spettacolo che offre oggi la classe politica al paese – che, dal canto suo, in una certa misura è complice – è quello di una stagione da basso impero nella quale tutti hanno la percezione di una decadenza irreversibile e allentano i propri freni inibitori per bere sino in fondo la coppa della licenziosità e del degrado. Così, mentre l’indigenza cresce nel Paese, i poteri dello Stato confliggono tra loro come naufraghi che si contendono una zattera di salvataggio.
Quindi macerie anche sulla magistratura – il terzo dei poteri – e non solo per l’ambiguità che da sempre la caratterizza – forte con i deboli, debole con i forti – quanto per aver contribuito a rendere impraticabile la stessa legge borghese, infarcendola, con la complicità determinante del potere legislativo, di una quantità impressionante, unica tra i paesi più progrediti nella cultura giuridica, di norme imperative, spesso contraddittorie, sempre da interpretare e, quindi, con ampi margini di discrezionalità, che scaricano la loro carica repressiva sugli anelli deboli della società. Da qui le scappatoie offerte dall’ordinamento, quali, ad esempio, il tira e molla sui termini della prescrizione, di cui approfittano i soliti noti, per farla franca. Così – per citare uno dei casi più clamorosi – Andreotti era organico alla mafia siciliana sino agli anni Ottanta, ma quel reato è caduto in prescrizione, poi ha messo giudizio e così è passato il messaggio della sua completa innocenza.
Ma proprio sulla crescita e sulla pervasività delle diverse forme della delinquenza organizzata di stampo mafioso – che hanno da tempo superato i confini italiani e si sono diffuse in tutto il continente europeo e hanno varcato l’Oceano – la giustizia italiana ha una responsabilità specifica. Colpevolmente non volle capire per tempo che il potere mafioso era l’edera che cresceva attorno al tronco del sistema statale, che senza la complicità delle istituzioni dello Stato (e della Chiesa) la mafia (e poi la camorra, la ’ndrangheta e via dicendo) avrebbero difficilmente trovato la linfa per crescere così impetuosamente sino a controllare incontrastate interi territori del Centro-Sud ed a inquinare l’economia dell’intera nazione, rendendo mefitica l’aria della convivenza civile, alterando i rapporti sociali, moltiplicando, sino a renderli endemici, i compromessi più spregevoli e le complicità più vergognose. Sin dagli anni Cinquanta, in Sicilia specialmente, era così palese il voto di scambio, che consentiva alla mafia di essere massivamente rappresentata nelle istituzioni pubbliche, che non sarebbe stato difficile, allora, arginare il fenomeno sin dal suo sorgere, se la magistratura non si fosse mostrata sorda a tutti i richiami che provenivano da chi si trovava a combattere nelle trincee più esposte: le Camere del Lavoro al tempo dell’occupazione delle terre (1946/47), e poi la sinistra più avanzata e il sindacato più combattivo.
In sintesi, non sono poche le responsabilità della magistratura se questa Italia è passata dalla stagione andreottiana a quella craxiana per approdare malauguratamente alla stagione berlusconiana, nella quale si sono esasperatamente manifestati tutti i malanni di una unità mai realizzata.

Preoccupazione e fiducia

Intendiamoci: noi siamo lontani anni luce dal pensare che i sistemi politici che si basano sulla presenza dello Stato siano in grado di affrontare e risolvere i problemi connessi ad una convivenza di liberi ed eguali. Tuttavia vi sono limiti di decenza che in una qualunque forma di convivenza civile non dovrebbero essere superati, pena la deriva barbarica del tutti contro tutti, una deriva che impedisce il confronto delle idee oltre ad esasperare gli egoismi ed elevare il livello dei conflitti.
Dunque: è pacifico che non ci stracceremo le vesti per il collasso palese del sistema sul quale si regge attualmente l’Italia di Berlusconi e di Bersani (solo per indicare i due poli di maggioranza ed opposizione).
Dobbiamo, però, dire in tutta franchezza che, proprio perché sulle macerie è difficile costruire, non ci riesce di essere compiaciuti.
In prima istanza, infatti, assistere al degrado del contesto in cui ci troviamo immersi a causa di una classe politica deprimente, assolutamente inadeguata e, in parte, addirittura depravata, non è uno spettacolo esaltante, anche perché, come avviene sempre, i malversatori al governo hanno sempre goduto di un gradimento popolare rilevante, come, nel caso nostro, è testimoniato dai molti berlusconiani estasiati e convinti.
Poi perché, come sempre, a soffrire in una contingenza come la nostra sono larghissimi strati della popolazione, soprattutto per la persistenza di una gravissima congiuntura economica, di cui nessuno vuol farsi carico.
È a questa popolazione ed ai movimenti di base attivi nel Paese che dobbiamo guardare con preoccupazione ma anche con fiducia.

Antonio Cardella


centri sociali

Una buona notizia da Pisa: quando la lotta paga…

A metà gennaio il Ministero dell’Interno aveva allertato i reparti toscani della Celere per recarsi a Pisa il giorno 27 gennaio. Fino al giorno prima erano attesi circa 300 poliziotti per eseguire con la forza uno sfratto molto particolare: quello del Progetto Rebeldía, una realtà a metà tra il centro sociale e la casa delle associazioni, che ha attirato l’attenzione della stampa nazionale e la simpatia di una larga parte del mondo associativo e politico locale. Gli edifici utilizzati dal Progetto Rebeldía (assegnati in concessione dal Comune nel 2006) sono di interesse per una Grande Opera comunale, e vanno quindi abbattuti per fare partire il cantiere. Unica soluzione per l‘amministrazione comunale era lo sgombero forzato. Almeno fino al giorno prima…
È necessario però spiegare cosa è il Progetto Rebeldía. Nato nel 2003 dall’impegno di decine di studenti contro la guerra in Iraq, è basato sulla partecipazione e l’autogestione, aperto a tutti i gruppi informali e le associazioni che condividono l’impegno per la costruzione dal basso di una società più giusta e sostenibile, antirazzista e contraria alla guerra. Non ha tessere né statuti, ma ci sono regole inderogabili: non si svolgono attività a fini di lucro, le decisioni che riguardano la vita comune dello spazio passano attraverso la discussione orizzontale nell’assemblea che riunisce tutti i pezzi del Progetto. Sono 31 ad oggi le associazioni che lo compongono: tra le tante attività gli sportelli di assistenza legale per gli immigrati, i corsi di italiano come seconda lingua, l’officina di riparazione delle biciclette, la distribuzione delle verdure biologiche locali, la palestra popolare di arrampicata, la promozione dell’antiproibizionismo, ecc. Sono presenti anche sedi locali di realtà nazionali come Emergency, Greenpeace, Un Ponte per…, Lipu e Fratelli dell’Uomo. A dimostrazione della mancanza di spazi sociali anche per realtà molto consolidate e di richiamo, anche nella Toscana ‘rossa’.
A pochi giorni dallo sgombero previsto per il 27 gennaio, gli amministratori si sono accorti che non era politicamente sostenibile essere responsabili di un’azione di polizia condotta contro 31 associazioni. Il Progetto Rebeldía ha quindi avanzato un’ulteriore proposta dopo le numerose presentate sin dal 2006: il trasloco in uno stabile del Comune in evidente stato di abbandono da 18 anni. Difficile per l’Amministrazione tirarsi indietro con le camionette della Celere pronte per arrivare a Pisa. Il 14 gennaio la proposta è stata presentata al Sindaco e in poco più di dieci giorni è stato trovato un accordo sull’area. A 19 ore, 19 minuti e 36 secondi dallo sgombero forzato, l’ufficiale giudiziario ha inviato il fax al Ministero dell’Interno per bloccare il procedimento.
Il percorso è ancora lungo, si potrà entrare nell’area solo a giugno in seguito all’espletamento della procedure di evidenza pubblica sull’utilizzo dell’area. Per ora è stato scongiurato lo sgombero ed ottenuto solo un pezzo di carta. Sta alla lotta fare sì che questo si trasformi in una sede effettiva per continuare un’importante esperienza di produzione dal basso di socialità cultura e politica. Que viva la Rebeldía!

Stefano Gallo
http://www.rebeldia.net
rebeldia@inventati.org