rivista anarchica
anno 41 n. 360
marzo 2011


lavoro

Oltre Marchionne oltre il lavoro dipendente
di Andrea Papi

Contro la logica dominante, per ritrovare in un mondo che cambia (e non certo in meglio) le ragioni dell’emancipazione.

 

L’aspetto più significativo di tutta la vicenda Marchionne, amministratore delegato della FIAT, è senza dubbio che gli operai abbiano votato sì all’accettazione delle condizioni da lui di fatto imposte. A Pomigliano questa estate in modo massicciamente maggioritario, con una flebile maggioranza molto risicata a Mirafiori a gennaio. In entrambi i casi, con tutta evidenza, salta agli occhi che gli operai sono in affanno perché si sentono costretti a subire i ricatti della dirigenza aziendale. È quasi impossibile non interpretare il tutto come un cambiamento di rotta, di tendenza, di tensione di quella che fino a qualche decennio fa era considerata tout court la classe per eccellenza, il “proletariato militante” per usare un eufemismo ex-sessantottino. Soprattutto se si pensa alla quantità e alla qualità delle umilianti restrizioni introdotte, pesantemente peggiorative delle condizioni di lavoro e delle forme di rappresentanza della base dei lavoratori.
La classe operaia ha smesso di lottare? La classe operaia non riesce più ad essere protagonista dei processi di emancipazione? Né l’uno né l’altro in termini assoluti, in termini relativi entrambi. Il fatto è che per lottare è indispensabile avere una prospettiva di lotta, mentre per essere protagonisti di un processo di emancipazione bisogna volersi emancipare, soprattutto credere nelle possibilità di farlo. Mi appare del tutto evidente che queste due caratteristiche siano sempre più assenti tra l’insieme degli operai oggi coinvolti, sempre più soggetti (sia nel senso di assoggettati, sia in quello numerico di singoli) e sempre meno individui, in grado di esprimersi con autonomia. Date le condizioni strutturali del rapporto tra management e unità produttive (gli operai addetti alla produzione) per come si sono impostate in questa fase, il livello di dipendenza e assoggettamento di chi è subordinato è sempre più elevato. Chi lavora conta sempre meno, chi dirige e imposta il lavoro ha sempre più potere e capacità d’influenza.

Perdita dei diritti

Marchionne conosce perfettamente questa tendenza in atto e ci si riconosce pienamente. Da manager dei livelli alti ha di conseguenza pianificato una strategia in grado di riportare l’assetto industriale italiano nell’andamento internazionale del divenire produttivo. Per riuscire a farlo sa che è indispensabile ridefinire i simboli e i concetti che hanno qualificato per circa un secolo e mezzo il rapporto del lavoro industriale, abbandonando e facendo al contempo abbandonare alla coscienza collettiva la considerazione, ormai obsoleta, che capitale e lavoro vivono un supposto rapporto oggettivo di conflitto strutturale. Alla luce della nuove tendenze, in Italia incarnate appunto da Marchionne, tutto ciò non ha più senso, mentre ne ha comprendere che gestione aziendale e momento produttivo sono parti interconnesse tra loro.
Nella visione che sta prendendo sempre più piede, ben viva in realtà da qualche decennio e serpeggiante sempre più indisturbata tra le varie fila del processo di produzione, indifferentemente sia tra i camici bianchi sia tra le tute blu, il livello produttivo è parte essenziale dell’azienda, con tutte le sue espressioni e le sue componenti, che convivono in sinergia con funzionalità diversificate. Operai e dirigenti sono parti differenziate dello stesso corpo aziendale, che sovrintende e tende ad armonizzare ogni cosa sottoposta attraverso i suoi supermanager. Il tutto è funzionalizzato e finalizzato all’efficienza finanziaria, verso la quale protendono ogni sforzo ed ogni scelta. Così tutti coloro che ne sono coinvolti smettono di essere individui-persone, mentre si trasformano in componenti del processo produttivo che svolgono la propria funzione, esattamente come qualsiasi componente meccanica di una macchina ben oliata.
Nella considerazione che ne consegue le gerarchie non sono più tali, lo sfruttamento non esiste più, gli operai sono equiparati, nel migliore dei casi a processi produttivi, nella serialità delle routine ordinarie a momenti e parti di quei processi che danno forma ai prodotti-merce. La sapienza operaia individuale del fare, eredità delle antiche conoscenze artigianali, è quasi del tutto scomparsa, sostituita più che dal macchinismo, che comunque aveva bisogno di forti competenze esperienziali, dalla robotizzazione, dalla computerizzazione, dall’informatica, dall’ingegneria elettronica. L’operaio alla catena di montaggio è equiparabile a qualsiasi componentistica per assemblaggio, mentre il suo apporto ha lo stesso valore di un braccio meccanico robotizzato che svolge un compito standard predisposto elettronicamente. Per questo è come se fosse un pezzo intercambiabile. Per questo nessun operaio è più necessario e può esser sostituito senza alcun problema. Non essendo più individui indispensabili, gli operai perdono forza contrattuale e vengono valutati soltanto come costo e come capacità di adattamento meccanico.
Di qui nasce e si sviluppa la famosa “perdita dei diritti”, che da più parti si tenta di riconquistare. Battaglia in questa fase molto difficile, che rischia di essere astratta perché cozza con una metamorfosi culturale sempre più egemone, legata alla considerazione dogmatica che ogni momento e aspetto della produzione non possono non esser finalizzati al bene dell’azienda, giudicato dalla categoria manageriale. Secondo il “sommo” bene aziendale oggi il senso produttivo dell’operaio è equiparato a quello di un bullone o di un braccio meccanico computerizzato che, per loro natura e funzione, non possono avere diritti. Perciò perché dovrebbe averli l’operaio, se non per lo stretto necessario legato all’insopprimibile condizione umana?
Oltre ad essere culturalmente egemone, questa filosofia del lavoro si innesta perfettamente nella dimensione globale dei due aspetti determinanti dell’economia capitalista in auge, quello produttivo non più nazionale e quello della speculazione finanziaria, la quale in particolare per sua natura si muove incontrastata al di sopra degli stati e delle barriere burocratiche-statuali. Il sistema di gestione economico dominante si è impostato in modo differenziato lungo i diversi paesi del globo. I trattamenti e le condizioni di lavoro sono molto differenti a seconda degli stati e dei paesi in cui si svolgono, per cui è perfettamente conseguente che decada di fatto la vecchia logica dei contratti nazionali, sui quali nei decenni dagli anni sessanta si era impostato il rapporto di lavoro.
Il fatto che sia logico non significa che sia giusto. Anzi! In particolare in un caso come questo la naturale conseguenza delle scelte applicate è proprio inversamente proporzionale alle possibilità di applicazioni giuste. Mentre il sistema produttivo e il mercato, sempre più globali, impazzano al di fuori di ogni obsoleta regolazione statale, come possono i contratti di lavoro essere ingabbiati in normative e regolamenti nazionali? Se a questo aggiungiamo l’intercambiabilità anonima dei singoli operai di cui parlavo sopra, le contrattazioni non riescono più ad essere all’insegna dei diritti umani di chi lavora, mentre sono irrimediabilmente segnate dai bisogni di competizione cui l’azienda né può né vuole sottrarsi. Ne consegue che più si è collegati a quest’onda montante più si diventa ingiusti, dal momento che tale logica nasce dalla prevalenza egemonica delle esigenze aziendali a discapito delle umanissime esigenze dei suoi subordinati.
Il problema italiano di Marchionne allora è quello di addomesticare una situazione produttiva nazionale superata sul piano internazionale, dove l’attuale dis/qualità del lavoro, in moltissimi casi sempre più simile a nuove forme di schiavismo, dev’essere legata alle nuove capacità produttive superautomatizzate. In pratica, l’uomo deve aiutare la macchina a svolgere il lavoro programmato, non viceversa, abbandonando l’illusione che la macchina possa alleviare la fatica. Inoltre automazione, robotizzazione e computerizzazione hanno ridotto di molto la presenza operaia umana nei processi produttivi: per produrre molto più di ieri oggi c’è bisogno di molti meno operai, non specializzati ma obbligati ad automatizzarsi, che costano di meno e lavorano molto di più. Così, quando si dice che il piano FIAT non è accettabile perché lede i diritti acquisiti in anni di lotte, Marchionne risponde che se la sua proposta non va bene cambierà sede e andrà in Serbia, o in Polonia, o in uno dei tantissimi altri paesi dove è sicuro che gli faranno i ponti d’oro, gli faciliteranno al massimo le condizioni d’impresa e gli operai gli costeranno molto meno. Per noi è un ricatto, per lui invece è un investimento, secondo cui si programma la produzione per rendere competitiva l’azienda a livello internazionale, non per procurar lavoro a chi ne ha bisogno.

Ma il mondo corre veloce

È ben comprensibile che in una situazione simile la classica vecchia lotta per il posto e per migliorare le condizioni di lavoro (migliori dal punto di vista di chi suda ovviamente) difficilmente potrà avere prospettive concrete e realistiche. Il mondo com’è corre veloce e non può soffermarsi su questioni che non interessano i nuovi potenti. Il risultato è che si accettano sempre più supini le condizioni cui si è costretti, perché altrimenti la prospettiva immediata è la perdita del posto di lavoro, cioè la fame e la miseria, o, se va bene, una condizione di precariato permanente, che dà insicurezza esistenziale non permettendo di gestire in modo sereno la propria vita.
In questa fase l’elemento costante è di fatto quello che storicamente il movimento operaio ha sempre giudicato regressivo. Invece di muoversi e lottare per conquistare sempre migliori condizioni e maggiori diritti, magari fino all’espropriazione rivoluzionaria per eliminare il padronato, oggi si lotta per non perdere il posto di lavoro, comunque degradante e pesante possa essere. La prospettiva di mandare la classe operaia al potere, al posto della borghesia, non è nemmeno più contemplabile, se non per alcune ininfluenti frange ideologicamente dogmatiche oltre ogni evidenza. Se non altro perché non c’è più la borghesia, come pure è sparita la classe operaia della mitologia rivoluzionaria. I nemici di chi lavora non sono più i padroni (sparuto gruppo residuo dei proprietari del capitale, da un pezzo non più in grado di incidere sulle sorti dell’economia), bensì gli speculatori, che hanno un enorme potere di condizionare le scelte politiche della produzione senza doversene occupare. Chi lavora vive sempre più uno stato precario ed è frammentato in tante diverse condizioni separate e non permanenti, facilmente contrastanti tra loro. Risulta praticamente impossibile identificare un’oggettiva condizione comune in grado di elevarne l’insieme allo stato di classe.
C’è inoltre un problema che l’originaria mitologia della lotta rivoluzionaria non poteva contemplare: la qualità di ciò che viene prodotto non è indifferente. Non lo è in sé e non lo è per chi produce. La logica vigente del prodotto merce per il mercato, il cui valore è dato dalla capacità di accumulare capitali, fa si che non ha nessuna importanza se si producono armi e veleni, come pure se per farlo si torturano e si ammazzano animali o si schiavizzano bambini. Oltre il 90% delle merci prodotte oggi nel mondo non è scevro da queste aberrazioni. Dietro ogni produzione, anche quelle all’apparenza più innocue, ci stanno sistematicamente morti, torture, eccidi, inquinamenti, distruzioni.
Chi lavora partecipa inconsapevolmente al perpetrarsi di un simile abominio. Per quanto continuerà a sentirsi separato dai prodotti che contribuisce a fare, senza porsi il problema di che cosa sta facendo, continuando ad esser complice, seppur inconscio, dell’avanzato stato di degrado locale e planetario?
Una lotta diventa efficace se è collegata ad una prospettiva di autentica emancipazione. Ed oggi non si può parlare di emancipazione semplicemente limitandosi a richiedere migliori condizioni di lavoro. L’emancipazione, se vuol esser tale, deve spostarsi dal piano rivendicativo, che rivendica potere e migliori condizioni, al piano trasformativo, che pretende d’intervenire per cambiare la qualità della vita, sia nei luoghi di produzione sia nella conduzione delle esistenze. Una visione di concreto e reale cambiamento non può esimersi dall’agire per trasformare le scelte produttive e per sottrarsi ai luoghi dove si continuano a perpetuare i modelli del capitalismo. Cominciamo a ragionare per riuscire a non partecipare più all’infame banchetto, ma per trovare la maniera di gestirci direttamente le nostre vite e ciò che produciamo.

Andrea Papi