rivista anarchica
anno 41 n. 366
novembre 2011


ricordando Umberto Tommasini

Straordinariamente capace di raccontare
Colloquio di Claudio Magris con Claudio Venza

Esce in queste settimane per i tipi della Odradek Il fabbro anarchico. Autobiografia fra Trieste e Barcellona, la storia raccontata in tono epico (come afferma Magris in queste pagine) da sé medesimo. È la riedizione di un analogo volume pubblicato nel 1984 dalle Edizioni Antistato. La storia di un militante anarchico tra impegno antifascista, Spagna ‘36, il confino a Ventotene, la militanza anarchica nel dopoguerra, la ripresa del ‘68 e l’incontro con le giovani generazioni.

Claudio Magris: La cosa che colpisce anzitutto in Tommasini è la sua straordinaria capacità di pensare prima agli altri che a se stesso, di dedicare la vita alla libertà propria e degli altri. Non è una cosa molto frequente. Inoltre ha una notevole lucidità politica, chiare idee sui rapporti di forza, forse anche grazie all’esperienza fatta sulla sua pelle della brutalità comunista. Ha una coscienza profonda, rara, della terribilità della storia contemporanea. Contemporaneamente, vive con assoluta spontaneità e semplicità, si esprime nel suo dialetto perché è l’espressione della sua persona. Non è affatto vernacolo né dialettale, perché ha una reale cultura che guarda al di là di ogni angusto orizzonte di campanile. (…)
Tommasini ha questa umanità classica, grazie alla quale con la stessa naturalezza rischia la pelle e passa serate in osteria, con una generosità completamente fusa col carattere. Questo è un aspetto della sua classicità, di umanità classica che la civiltà del Novecento lamenta – come testimoniano tante grandi opere letterarie – di aver perduto.
Inoltre c’è la sua grande libertà; non solo libertà politica, lotta contro il fascismo e ogni autoritarismo e così via, ma anche la libertà nei gesti d’ogni giorno, la capacità di dire “va in mona” all’intellettuale presuntuoso. Tutto questo dà a Tommasini una straordinaria simbiosi di vicinanza alla terra, di sanguigna, picaresca umanità plebea e insieme di grande signorilità. È questo che gli ha permesso di andare a rischiare la vita, a combattere, a vederne di tutti i colori, e ad essere sempre e fino all’ultimo se stesso. Questa generosità è scevra di ogni buonismo, perché egli si rende perfettamente conto, sia pure a malincuore, che in certi momenti storici c’è la tragica necessità di combattere e di colpire.
Una signorilità che lo fa parlare da pari a pari con tutti i grandi personaggi di quel momento storico, da Berneri a Pacciardi e così via. Grandezza e semplicità. Certamente era andato a combattere e dunque pronto a colpire e anche ad uccidere. Ma senza risentimento, senza essere avvelenato da alcuna ideologia. Forse è questa la humanitas anarchica. Senza volontà di vendetta. Con ira, ma senza risentimento personale, senza egotismo narcisista.

Claudio Venza: Sai dove si vede anche questo? Quando lui è al confino a Ventotene nell’agosto 1943 e qualcuno gli dice: “Tu adesso tornerai a Trieste e ti vendicherai di coloro che ti hanno tormentato e represso”. E lui risponde: “Non mi interessa questo, mi interessano altre cose”.

M: E poi il suo piglio, la sua baldanza, fino all’ultimo, nell’agosto 1970 quando è aggredito da una squadra di fascisti nella sede degli anarchici.

V: Pensi sia stato un uomo felice, tutto sommato?

M: Risolto, soprattutto. Sarà stato un po’ infelice anche lui, ma certo appare completamento risolto; non era uno che aveva bisogno del lettino dello psicoanalista. E, in questo senso, da parte mia, c’è verso di lui molta invidia – un’invidia buona, affettuosa, un desiderio di poter essere come lui. (…)

V: Volevo chiederti: Tommasini non ti è sembrato un ingenuo?

M: Sì, ma in senso schilleriano; l’ingenuità in senso buono e forte, insomma una naturalezza. Non una ingenuità intellettuale, quella che induce a credere troppo facilmente alla realizzazione dei propri sogni e a sottovalutare la complessità del reale. Non credo sottovalutasse la forza del fascismo o quella del capitalismo. Una certa ingenuità semplificatoria è indubbiamente presente nel suo pensiero; è probabile, del resto, che la militanza politica, specialmente in un impegno così forte e assorbente, come in certi momenti anche la guerra, comporti una semplificazione. L’ingenuità è necessaria, ma anche dell’astuzia brechtiana. Il Vangelo esorta a essere semplici come colombe e astuti come serpenti.

V: Ti sentiresti di fare un confronto con Vittorio Vidali, il militante comunista o meglio stalinista? Tommasini si può definire un anti-Vidali?

M: In un certo senso sì, perché, a differenza probabilmente da Vidali, Tommasini non è stato mai disposto, per raggiungere un fine, a perdere quelle ragioni che ti spingono a raggiungere quel fine. Insomma a commettere ingiustizie e violenze per realizzare la giustizia e la pace. La tragedia, e probabilmente la colpa di Vidali, consistono nel fatto che a un certo punto probabilmente aveva perso il senso del rapporto tra il fine e i mezzi. Su Vidali sono nate anche molte leggende infondate, che gli attribuiscono ogni sorta di nequizie; io l’ho frequentato, e devo dire, molto volentieri, con reciproca simpatia e ricevendone molte suggestioni.
Forse Tommasini era più acuto di lui nel capire che lo stalinismo non era solo infame, ma anche fallimentare rispetto ai fini che si proponeva. Certo, durante la guerra, lo stalinismo è stato anche grande, ma la morte del comunismo sovietico, la sua osteoporosi, è stata causata in primo luogo dal folle autoritarismo staliniano. Oltre a un certo limite, l’autoritarismo non è soltanto moralmente inaccettabile, ma anche inefficiente, perché crea automi, persone timorose e dunque incapaci di agire e di prendere decisioni. Un autoritarismo estremo perde paradossalmente perfino autorità, perché comanda su morti viventi e non su persone vive. È un po’ come andare di notte al cimitero a tenere un discorso; anche lì sei sicuro che nessuno ti contraddice.

V: L’antistalinismo è stato un dato centrale nella vita dell’anarchico triestino.

M: Vidali evitava Tommasini, no?

V: E viceversa: non si son mai stretti la mano. Nel 1976, quando Vidali lo invita a partecipare ad una cerimonia dei combattenti in Spagna, Tommasini non ci va e gli scrive che non vuole stringere la mano di chi ha ucciso diversi compagni.

M: Va detto però che ai comunisti viene rinfacciato, sempre e giustamente, ogni crimine mentre ai capitalisti si perdona tutto. Si considera, nel loro caso, che la violenza sia machiavellicamente inevitabile. Forse ciò dipende dal fatto che il comunismo promette, o prometteva, un mondo giusto e dunque si presentava con nobili ideali, a differenza del capitalismo, smentendo poi, talora in modo orrendo, quegli ideali. È forse questo che gli ha attirato una particolare e pregiudiziale severità. (…)

V: Vuoi dire qualcos’altro sul libro?

M: È un bel libro, epico. Un libro che, accanto alla documentazione, ti fa toccare con mano l’esperienza concreta della vita in quel grande momento storico e in quella situazione tremenda; ti fa sentire la dialettica storica senza cadere in alcuna sterile ideologia. Che ti fa sentire la realtà del fascismo, del comunismo, dell’anarchismo, con tutte le contraddizioni, non disquisendo, ma vivendo e incontrando persone. L’anarchico triestino ha una notevole capacità di raccontare, di far vivere le cose; di farti vedere quella Barcellona, quella gente, colta magari con uno solo tratto. Ad esempio, in due righe ha dato un ritratto bellissimo e indimenticabile di Pacciardi, che non gli era politicamente vicino, ma in cui riconosce, in quel momento, il coraggio e la schiettezza, con la quale fra l’altro ha protetto gli anarchici.

V: E quindi ha capacità narrative. Per fortuna, con Clara Germani, siamo riusciti a registrare le sue memorie.

M: Sì, questo libro è nato dalla registrazione, ha dunque una sua originaria componente orale. Io credo in questa oralità; nella grande letteratura, anche in quella complessa e sofisticata, devi in qualche modo sentire questa dimensione orale, questa vita che si racconta – pensa ad esempio a Tolstoi. È l’elemento, per così dire, eternamente omerico della letteratura, l’elemento epico, che trascende la soggettività, anche quella di chi sta parlando. Non sto dicendo che Tommasini sia uno scrittore capace di scrivere come i grandi. Ma è straordinariamente capace di raccontare, senza mettersi in mostra. È una voce e questa voce è straordinaria.

V: “Uno dei libri più vivi degli ultimi anni” l’avevi definito una volta: lo confermi?

M: Sì. Se no, non avrei fatto l’articolo per il Corriere (nell’agosto 1984).

V: Se è un gusto che resta, a suo modo è un classico.

M: Certamente. E siccome io ho un debole per i classici…

Claudio Venza
(Trieste, maggio 2011)
Prima foto segnaletica (1925).
Allegata al fascicolo del Casellario Politico

Un libro eccezionale, una memoria avvincente

L’intensa attività di Tommasini lo ha portato a incontrare, e spesso a scontarsi con figure di rilievo della storia contemporanea italiana: dai fratelli Rosselli a Berneri, da Di Vittorio a Vidali, da Valiani a Pertini, da Koestler a Bordiga. Senza renderci completamente conto, nei anni primi Settanta, noi giovani militanti avevamo quotidianamente a nostro fianco non solo un vecchio compagno saggio, ma un personaggio storico. Per evitare che questo patrimonio andasse perso, due giovani compagni, nell’estate del 1972, gli hanno fatto una intervista, in più riprese, di 16 ore e sono andati a lavorare per vari mesi negli archivi della polizia fascista. Il suo grosso fascicolo di centinaia di fogli non ha nulla da invidiare a quelli di altri militanti più noti. Peccato che pochi abbiano fatto qualcosa di analogo per gli anarchici storici degli altri gruppi.
I dati bibliografici dell’antica edizione sono: C. Venza (a cura di), Umberto Tommasini. L’anarchico triestino, Milano, Edizioni Antistato, 1984, pp. 543. Il testo, miscela di vernacolo triestino e lingua italiana, è ora leggibile sul sito: www.germinalonline.org.

Riportiamo alcuni giudizi emessi al tempo dell’uscita del volume, nella primavera del 1984.

Claudio Magris: “Uno dei libri più vivi degli ultimi anni”

Paolo Gobetti: “Un’avventura esaltante e sconvolgente, un viaggio nel mondo della memoria che soltanto la storia orale può permettere”

Pier Carlo Masini: “Non è solo un contributo alla storia del movimento anarchico. Molto buona e accurata l’Introduzione”

Gino Cerrito: “Come ogni popolano dalle idee chiare egli narra in modo ammirevole”.

Un libro pericoloso!

A quattro anni dalla morte la figura di Tommasini dava ancora fastidio agli ambienti politici triestini pieni di pregiudizi e di paure. Nella primavera del 1984 il libro doveva essere presentato al Circolo della Cultura e delle Arti (CCA), un’istituzione pubblica finanziata dal Comune, ma all’ultimo minuto la sala, regolarmente prenotata, veniva chiusa con un pretesto. Il presidente del CCA, Giorgio Tombesi, cattolico conservatore, era intervenuto per bloccare l’iniziativa culturale che si svolse comunque nella sala di un albergo poco distante dove si dirottarono le centinaia di partecipanti. Sorse una polemica pubblica, furono raccolte in pochi giorni 500 firme di protesta contro la chiusura della sala, e di solidarietà ai libertari, fra cittadini e intellettuali. La discriminazione ebbe l’effetto opposto e in due settimane si vendettero in città molte centinaia di copie delle 2000 stampate.

Un altro boomerang del potere!

C.V.

Foto segnaletica (1941) prima dell’invio al confino di Ventotene
Sul vaporetto da Trieste. Per un incontro con i compagni di Muggia (1950)

ricordando Umberto Tommasini

Il mio Umberto

Sono passati tanti anni dalla sua morte. Eppure ogni tanto lo penso, a volte nello stesso modo con cui penso ai miei cari, con affetto e rimpianto. A volte invece mi vengono in mente dei pensieri, dei ricordi. Vorrei fargli ancora delle domande.
Qualcuno ha detto che i maestri vanno mangiati. In un certo senso lo abbiamo fatto, perché da loro abbiamo assorbito quel che di meglio avevano da darci. E da questo punto di vista Umberto era una fonte inesauribile: esperienze di vita, di lotta, di conoscenza. Noi, simpatizzanti pigri e militanti fortunati, non avevamo bisogno di ricorrere a molti libri (anche se lui e i compagni anziani, fondatori del Gruppo Germinal nel 1946, ci hanno affidato un patrimonio inestimabile di libri e documenti). Gli sedevamo accanto, gli rivolgevamo delle domande e lui era sempre disponibile a usare la propria vita per trasmettere insegnamenti e suggerimenti. Avevamo non un libro scritto, ma un libro vissuto; i libri scritti stanno là, ti parlano fino a un certo punto ma poi ti rendi conto che sono belli e finiti. Il racconto della sua vita invece poteva essere sfogliato avanti e indietro, approfondito, rivisto alla luce di nuove informazioni, di nuove esperienze, di nuovi eventi storici. Inoltre ci aveva fornito delle chiavi di lettura della società e della vita che erano dei veri e propri passpartout perché, quando le avevi in mano, potevi aprire mille porte.
Non so se sarei diventata anarchica senza di lui, o che tipo di anarchica sarei stata. Conoscendomi, probabilmente sarei stata rigida, se non dogmatica.
Invece il suo racconto faceva riflettere e le tue certezze diventavano poca cosa, scoprivi che c’era bisogno di qualcosa di più, di altro.
Ci siamo formati nel ‘68, non per scelta ma per motivi anagrafici e del ‘68 e dei suoi miti ci nutrivamo. Qualcuno era intriso di comunismo, di antiamericanismo, di movimentismo. E intanto lui ci parlava di come aveva affrontato il fascismo e il sacrificio del confino, della Spagna, di Berneri, dei compagni morti in Russia, del ruolo di Vidali, dell’importanza della coerenza fra fini e mezzi, dell’essenziale confronto all’interno del movimento anarchico, della appartenenza a un gruppo non settario, della rettitudine, dell’amore per il proprio lavoro.
Umberto non era solo passato. Leggeva e si informava continuamente. “Umanità Nova” spuntava sempre dalle sue tasche, ogni occasione era buona per diffondere le sue idee: giornali, libri, volantinaggi, il “Germinal” del Primo Maggio. Era pronto al confronto, ma lo scontro non gli faceva paura. Anche da solo.
Veniva alle riunioni, ai cortei, alle conferenze. E ai congressi della FAI.
Ci appoggiava e stimolava. Aveva fiducia nei giovani, malgrado tutto. Quando si è trattato di aprire la sede nel 1969 ha sostenuto l’idea con entusiasmo di fronte ai compagni anziani un po’ titubanti, quando denunce e perquisizioni fioccavano non faceva una piega, ci spronava ad andare avanti, ad organizzarci, quando eravamo in pochi ci sosteneva, qualche volta ci consigliava anche di goderci la vita.
Il momento più bello con lui è stato quando nelle notti d’estate per una settimana nella sua casa di Vivaro, un luogo aperto e ospitale, ci ha raccontato la sua vita dall’inizio. Erano i primi anni ‘70. Di giorno preparava un foglietto con poche righe, di sera si accendeva il registratore, si riaccendevano i grilli e la luna e lui cominciava a raccontare. E le ore volavano.
Avendo curato la trascrizione dei nastri, per un totale di 16 ore, certi suoi modi di pensare, di parlare, di battere le nocche sul tavolo sono rimasti impigliati nella mia memoria, indelebili.
Purtroppo eravamo giovani alquanto presuntuosi. Ogni tanto interrompevamo il fluire del racconto e ci siamo sicuramente persi qualcosa. Su alcuni argomenti sorvolava. Su altri era buffo, perché cominciava dicendo “alcuni compagni” e poi, nel fervore del racconto, si scopriva che fra “quei compagni” c’era lui.
Il secondo rimpianto è che non siamo riusciti a rivedere questi ricordi assieme a lui, a perfezionare alcune parti, ad approfondirne altre.
Il terzo purtroppo è che ci siamo fermati al 1972 mentre era rimasto attivo e partecipe fino alla sua morte avvenuta otto anni più tardi. Eravamo troppo presi dagli impegni della militanza quotidiana, tipica dei quegli anni.
Arrivava a casa mia con il suo immancabile basco, la sua cartella di pelle (quelle che si usavano a scuola una volta), il giornale nella tasca della giacca ben visibile. Chiacchierava con mia madre, di convinzioni comuniste, poi si accaloravano entrambi, ma mai litigi. Un caffè. “Vado a Vivaro. Torno tra due settimane”. Ma nell’agosto 1980 non è tornato.
In tanti siamo andati al suo funerale. E in tantissimi, a 30 anni di distanza, siamo ritornati a Vivaro per ricordarlo. Dal racconto di tutti è emerso quanto fosse ancora vivo e presente in tutti noi. E quanto siamo stati fortunati a farlo parlare e a raccogliere in un libro il suo racconto straordinario.

Clara Germani

Con i compagni di lavoro dell’officina di fabbro Horn (1959)
Diffusione di "Germinal"

ricordando Umberto Tommasini

Al corteo del Primo Maggio 1977.
Poco prima dell’aggressione del PCI
Con Nicola Turcinovich, anarchico istriano, e la sua
compagna sul traghetto per Rovigno (Anni Sessanta)

Un progetto tra documentario, storia e new media

An Anarchist Life
La vita di Umberto Tommasini

L’Associazione Drop Out, dopo il successo della produzione in collaborazione con Orione Cinematografica del documentario “Sconfinato – storia di Emilio” di Ivan Bormann, ritenta la strada della produzione. Stavolta dirigendo le sue attenzioni verso le nuove forme di produzione, ma soprattutto di fund raising, ossia di raccolta dei fondi e finanziamenti necessari. Il contributo si può dare attraverso la carta di credito e il sito assicura il massimo controllo di sicurezza in merito. Vi ricorda qualcosa? Beh, sostanzialmente assomiglia a ciò che si chiamava sottoscrizione popolare fino a qualche anno fa.

Tra i mille progetti che stiamo elaborando, abbiamo scelto il programma più militant che avevamo in cassetto, quello sulla favolosa vita di Umberto Tommasini. Si tratta di un uomo incredibile, eccezionale che ha lasciato le sue memorie in modo vivido, entusiasta. Grazie soprattutto a Claudio Venza e Clara Germani, che han raccolto più di sedici ore di interviste, questa esperienza si trova nel libro “Un anarchico Triestino”(Milano, 1984). A breve uscirà una nuova edizione con Odradek.

Umberto era un militante anarchico passionale, sparato a mille attraverso la storia del Novecento, tra Friuli, Trieste, Spagna, Francia, due guerre mondiali, il confino fascista, fino al ‘68 e oltre. Un uomo incredibile che condisce d’ironia sottile storie enormi e personaggi centrali e immensi che lui affronta da vero libertario: a tu per tu, da eguale. Nella sua strada quindi non solo egli si incontra/scontra con Vittorio Vidali, ma pure con Giuseppe Di Vittorio, Antonio Gramsci e mille altri. Commovente le pagine in cui ci presenta Camillo Berneri e Luigi Calligaris, anarchico il primo e comunista il secondo, travolti dallo stalinismo. Una storia che ci parla di cos’è stata la passione civile e politica, soprattutto antiautoritaria, del Novecento nei suoi aspetti affascinanti e vitali ma non solo. Una storia che merita un film, senz’altro.

Per contribuire a rendere possibile questa Utopia,

www.produzionidalbasso.com/pdb_733.html

www.indiegogo.com/an-anarchist-life

Ciao e grazie

Ivan Bormann
Per Drop Out

per info: v_adamski@yahoo.it