rivista anarchica
anno 42 n. 373
estate 2012


MEDITERRANEO. 4

Il dolore sconosciuto del marinaio errante

di Bruno Bigoni


Creuza de Ma è il disco per eccellenza mediterraneo di Fabrizio De André. Venne concepito sulle acque del Mar Egeo, in un lungo viaggio per mare con Mauro Pagani.


Fabrizio è stato poeta della modernità, un innovatore e un difensore della parola nella sua accezione più alta. Non solo per la capacità di vedere nel deserto della nostra società la fragilità dell'uomo e le sue innumerevoli colpe, ma anche per essere riuscito ad avvertire e raccontare quella misteriosa bellezza che l'animo umano si porta dietro anche nei suoi momenti peggiori.
La sua poesia mostra sempre la vita, anche quella più segreta, più nascosta. Questa sensibilità conduce a una grande acutezza nel saper guardare ciò che ci circonda e a una sapiente capacità a riprodurla senza falsarla. Non è un caso che la caratteristica fondamentale della poetica di De André sia la sua disciplina intellettuale e il pudore della sua coscienza artistica. Egli unisce in se genio poetico e intelligenza critica. Le sue idee sul procedimento di composizione e sul modo di cantare stanno alla stesso livello del suo cantare stesso e anzi in molti casi sono più avanzate.
Creuza de ma, per esempio, è un disco, ma è anche un viaggio e molto altro. Dice Mauro Pagani: “All'inizio del lungo viaggio l'unica cosa che ci era chiara era che volevamo fare un viaggio a sud e a est. I primi pezzi furono scritti nella convinzione che sarebbero stati cantati in una lingua strana e da inventare, l'affascinante impasto di mille idiomi di un marinaio lontano da casa da troppo tempo, imbarcato da sempre su navi di ogni bandiera. Eravamo fortunati, l'idea era meravigliosa, ci offriva mille possibilità, inclusa però quella di perderci lontano, in una sorta di limbo letterario senza emozioni e senza identità.” Il viaggio si compie, soprattutto quello emozionale e di getto il disco prende forma, senza troppi rifacimenti, senza troppi cambiamenti. Dal 1984 in poi, la musica popolare italiana si trova a confrontarsi con qualcosa che non aveva mai visto prima e di cui neanche sognava l'esistenza.
“Creuza de ma” è un disco compatto e solidissimo, attraversato da una venatura tematica che lo rende un organismo complesso. Si potrebbe addirittura parlare di un sistema. Le tematiche affrontate sono molte, ma riconducibili a una sola istanza: il viaggio. Si potrebbe vedere in questo una qual forma di limitatezza. Semplice apparenza, perché in verità si tratta di una nuova prospettiva, musicale e lessicale, di un'inedita intensità, che amplia e rafforza il tema centrale.

Il sogno anarchico di un mondo migliore

In qualche modo, questo disco, queste musiche e questi testi evidenziano la volontà di perfezione artistica (tanto cara a Fabrizio) poiché la precisione e l'acutezza di ciò che è espresso è garantita da una grande maturità artistica. Le poche canzoni di questo album così “sterminato”, si possono intendere come veicoli, varianti, metamorfosi di una tensione tra viaggio e immaginario. Questa tensione non si risolve, anzi si accentua divenendo dissonanza assoluta. Con la sua lirica mai scontata e priva di aggettivi definitivi, De André non cede mai “all'ebbrezza del suo cuore genovese”. Il suo lavoro di metodica costruzione di un'architettura linguistica non cede mai al sentimentalismo o al facile pietismo. Per esempio: più volte ha richiamato l'attenzione sul fatto che “creuza de ma” non vuole essere un semplice album, ma un tutto organico, con un principio, uno svolgimento articolato e una conclusione. Il disco presenta riflessioni sulla solitudine, sulla paralisi, sulla sensualità, sullo sdegno per la guerra, sull'immaginazione, sull'integrazione, sul desiderio di un'identità non trascurabile e non per ultimo il sogno anarchico di un mondo migliore.. Il tutto tenuto insieme da una meditata composizione linguistica che ne fa un album architettonicamente tra i più illuminanti della canzone moderna non solo italiana.
Il fatto che Faber abbia dato al suo disco una tale costruzione, dimostra il suo definitivo distacco dal tardo romanticismo musicale italiano degli anni cinquanta e sessanta (e mai definitivamente archiviato) e da una necessità ispirativa che fosse prima di tutto innovativa, autosufficiente e affrontasse attraverso una nuova lingua, aspetti della nostra vita quotidiana.
Questo album dimostra inoltre la parte che hanno nel suo poetare i valori formali. Pensiamo in questo caso all'uso del dialetto genovese. Il dialetto come lingua del popolo e di conseguenza l'unica parlabile, l'unica presentabile, l'unica autenticamente autentica. Questo uso del dialetto significa molto di più che ornamento, che conveniente eleganza. è il mezzo della salvazione, esasperatamente cercato in uno spazio creativo da sempre tormentato. I poeti hanno sempre saputo che il dolore si scioglie nel canto. è la coscienza della catarsi, della sofferenza mediante la sua trasformazione in una parola di forma elevata. In questo Fabrizio era maestro e non anche primo sperimentatore nel variegato panorama della canzone d'autore. Ma solo con questo disco, il dolore sconosciuto del marinaio errante diventò, per chi sapeva ascoltare, un dolore consapevole nel viaggio, nella solitudine, nell'abbandono. Quel senso di predestinazione e inevitabile caduta che i suoi personaggi si portano dietro, ultimi tra gli ultimi. Solo con lui, le forme con cui si modellano i sentimenti dei suoi personaggi divengono così chiar, nonostante entrino in continua dissonanza con i canoni della poesia moderna.

Fabrizio ha cantato spesso la bellezza. Ma nella sua lirica ella non è mai un fosforescente tramonto o un angelico sorriso. I suoi personaggi non sopportano più il concetto di antica bellezza. Fabrizio veste la sua bellezza di uno stimolo aggressivo, “dell'aroma del sorprendente”, direbbe Baudelaire. Perchè sia protetta dal banale, la nuova bellezza può anche coincidere con il brutto, con il bizzarro, mediante la fusione tra tragico e trasgressivo.
In questa nuova rappresentazione che illumina il grande dolore che l'uomo porta con se, il mare interpreta un ruolo di prima grandezza. Luogo d'incontro e d'immaginari infiniti, dove la nostra vita riacquista un senso e una misura poiché finalmente si confronta con la natura e con le sue inesorabili leggi. Acqua come catarsi, acqua come misura della propria forza e dei propri limiti, acqua come i mille colori che investono il volti di quei marinai che passano l'esistenza in mare, acqua come l'unica forma di comunicazione tra popoli e culture, religioni e credenze.

Come un sottile filo di seta

Immagino che l'utilità di “Creuza de ma”, questo album così grande e al contempo così semplice, sia anche quella di servire a restituire al suo autore un po' di quella bellezza e di quella profondità che si cela dietro ogni suo personaggio, dietro ogni suo sogno, dietro ogni suo verso. Ascoltando le canzoni di “Creuza” sembra che la loro forza si infili dentro di noi, che quasi sfiguri il tessuto dell'anima e tale azione ci renda possibile addentrarci nelle profondità dell'animo umano, permettendoci così di riscoprire le radici della nostra comune appartenenza. Siamo tutti figli del mare Mediterraneo, tutti uomini e donne legati a un ricordo ancestrale che ci fa tutti fratelli, tutti nemici.
Ciò che nelle tracce di questo disco possiamo ulteriormente scoprire è prima di tutto una “nuova lingua”, una “lingua universale”, per la quale è indifferente l'immediata comprensione. è talmente emozionante e fuorviante che il pericolo vero è perdersi dentro senza sapere più dove ci troviamo, se in Italia, o in Spagna o a Istanbul, in Palestina o a Genova.
è un viaggio catartico, un compenetrarsi del sorprendente, dell'imperscrutabile umano, ripugnante ed estasiante. Fabrizio parla, scrive in musica un limpido canto, intensissimo ma sottile come un filo di seta, in cui è sempre esaltata la sofferenza che diventa semplice armonia. Quando la sua voce fa risuonare cose o esseri, c'è sempre un sottolineare lieve, che diventa ruggito che s' inserisce di sbieco nella canzone e nel canto: musica dissonante, unica nel suo genere per chi sa ascoltare e riconoscerne la modernità.
Fabrizio ha lavorato assiduamente e trasversalmente a illustrarci nella sua opera la probabile esplosione del mondo, a ricordarci la solitudine dell'essere umano, la ridicola e pericolosa esibizione del potere. Tutto attraverso una straordinaria fantasia che fugge al banale e al luogo comune, attingendo a un ignoto che si infrange nel vissuto del poeta stesso.
La poesia ha sempre avuto la libertà di spostare, riordinare il reale, accorciarlo allusivamente, demonizzarlo, allargandolo, rendendolo medium di un'interiorità, simbolo di una vasta condizione di vita.
La realtà che De André canta costituisce il segno caotico che indica tanto l'insufficienza del reale, quanto l'irraggiungibilità dell'ignoto. è la dialettica della modernità, prerogativa di pochi scrittori, tomba di tanti presuntuosi. Bello e brutto non sono più valori, bensì stimoli opposti, come pure la differenza tra vero e falso. Del resto lo sapevamo già da tempo che lo scontato, il banale, o l'inutile, il luogo comune non sono mai appartenuti alla lingua di Fabrizio.

Bruno Bigoni