rivista anarchica
anno 42 n. 374
ottobre 2012


società

Lo Stato “suddito”

di Andrea Papi


Anche lo Stato si è andato trasformando e le vecchie strategie di lotta devono tenerne conto.
È necessario ricercare nuove vie, a partire dall'organizzazione dal basso di alternative concrete (per esempio, nel campo del credito).



L'andamento nevrotico di quello che stiamo subendo sovrasta con violenza i tantissimi che non sono speculatori finanziari e non posseggono banche, che non hanno ruoli dirigenti, né potere, né grandi ricchezze a disposizione. È una tirannia devastante.
L'“eletta schiera” dei pochissimi che “hanno sanno e possono” domina, incontrastata e spietata, l'“innumerevole schiera della gente normale”, che possedendo poco, o addirittura nulla, non può che uscirne succube e vilipesa. Viviamo e subiamo una situazione economica ed esistenziale sotto attacco permanente. I potenti non fanno altro che estorcere ai non abbienti quel pochissimo che ancora possiedono, rendendo sempre più povere le popolazioni sottomesse, mentre i pochi e intempestivi interventi dei politici che governano hanno tutto l'aspetto di non servire praticamente a nulla.
Un numero sempre maggiore di persone si chiede allora se lo stato e le sue istituzioni servano a qualcosa. La risposta che sorge spontanea è che non servono proprio a nulla. Eppure non è così. E lo dico da anarchico. Certo che lo stato serve! Se non servisse, se fosse totalmente inutile, sarebbe come se non ci fosse e non darebbe alcun fastidio. Purtroppo invece c'è e crea grossissimi problemi. Il problema principale è che non serve a noi “gente normale”. Anzi! Per noi rappresenta una vera iattura da cui non riusciamo a liberarci. Con sempre più evidenza serve solo alle oligarchie dominanti, che in questa fase stanno attuando con grande spietatezza una recrudescenza autoritaria e oppressiva che sta schiacciando le categorie sociali più deboli ed esposte.
Storicamente per ogni anarchico che si rispetti lo stato, qualsiasi stato, da sempre è il nemico principale da combattere, anzi da abbattere, praticamente il “male assoluto”, il demone autocratico da demolire se si vogliono avere concrete e realistiche speranze per riuscire a realizzare l'anarchia. Questo perché gli anarchici lo hanno sempre giustamente considerato il luogo del potere supremo per eccellenza, nel quale sarebbero concentrati tutti gli altri poteri, indispensabile per dominare senza remissione. Una visione senz'altro realistica quando l'anarchismo cominciò ad emergere come coscienza di ribellione che voleva emancipare i popoli dalla sottomissione politica e dallo sfruttamento economico. Si era reso conto che l'umanità era oppressa da diversi stati/nazione che esercitavano tutto il loro potere attraverso le strutture statali.
Gettando uno sguardo disincantato e non ideologico sulle cose del mondo, alla ricerca di una comprensione veritiera di ciò che ci circonda, mi sembra di poter affermare con sicurezza che oggi le cose non stanno più in quei termini originari. Da diversi decenni lo stato non è e non rappresenta più il potere incontrastato per eccellenza, abbattuto il quale sarebbe spianata la strada verso l'emancipazione. Questa visione prospettica dell'intervento rivoluzionario è superata perché sono completamente mutate la fisiologia e la fisionomia del dominio.
Gli stati-nazione, in origine tendenzialmente autocratici e in competizione tra loro, da tempo non sono e non rappresentano più la concentrazione del potere sommo egemone su tutto e su tutti, il momento strutturale fondamentale attraverso cui il dominio s'impone. Oggi abbiamo a che fare con interventi simultanei di un intreccio di poteri non strutturati, che agiscono al di sopra e oltre gli stati in ogni parte del globo. La propensione a dominare ha cambiato completamente qualità nell'esserci e nell'operare e si è trasferita in pieno alle oligarchie finanziarie. La supremazia finanziaria, ben lungi dall'essere composta da rigide strutture di comando che s'impongono attraverso apparati gerarchici, non è racchiudibile in classi o categorie sociali, mentre si muove ed opera con agile fluidità sovrastando le strutture nazionali e le politiche governative.

L'illusione del riformismo socialdemocratico

L'imposizione finanziaria non comanda direttamente. Esercita invece una diversa qualità d'imposizione attraverso una notevole capacità d'influenza, inducendo gli operatori governativi a fare scelte obbligate, costringendoli potentemente col ricatto di situazioni economico/finanziarie che non sono in grado di governare. In questa fase il dominio supremo, cioè la capacità di assoggettare senza condizionamenti alla propria potestà, non si esercita tanto attraverso gli apparati di governo e di comando, come nell'“era del male assoluto” degli stati/nazione, ma attraverso il controllo e la manipolazione dei movimenti finanziari, che determinano i vincoli oggettivi con cui ricattare e imporre le condizioni annichilenti che sacrificano le popolazioni all'ingordigia degli speculatori globali. Un'evidente prevalenza della dimensione finanziaria su quella politica, in cui però lo stato non ha affatto smesso di avere una grossa funzione di potere e continua a svolgere un ruolo di elevatissima importanza. Ha solo cambiato di posizione preminente, perché si trova soggiogato da forze di potere molto più potenti che lo costringono ad esser funzionale a loro.
In questa fase l'economia che conta è sovranazionale e non ruota più attorno ai rapporti di produzione, ma li condiziona facendoli diventare un'appendice della speculazione internazionale. Lo stato non è e non può più essere, come credevano i fanatici di un marxismo superficialmente interpretato, il “gendarme della borghesia”. Attraverso i governi, oggi non fa altro che gli interessi non dichiarati delle oligarchie globali che hanno in pugno i nostri destini. Il suo ferreo potere di comando sulle popolazioni sottomesse, più saldo che mai, è però sempre meno dovuto alla salvaguardia del proprio potere e sempre più, attraverso l'imposizione di condizioni frequentemente devastanti, per salvaguardare gli interessi dell'alta finanza, cui non riesce a sottrarsi.
Così non riesce più ad essere il luogo del welfare (lo stato sociale), supposto erogatore di servizi e attento allo sviluppo del benessere dei cittadini. Questa è stata l'illusione del riformismo socialdemocratico che ha continuato a vedere nell'economia reale, legata alla produzione, l'unico supposto potere economico che conta. Accettando di convivere con le leggi di mercato, il riformismo si era illuso di non essere travolto dalle strette maglie di una preponderante propensione al dominio egemonizzata dall'ingordigia dell'accumulazione finanziaria, sorretta dal miraggio del “fare soldi attraverso i soldi”. Sullo scacchiere internazionale la funzione degli stati è praticamente diventata quella di amministrazioni territoriali, gendarmi di fatto, esattori forzati per il campo sterminato della speculazione finanziaria globale.
Oggi l'amministrazione statale e le sue istituzioni sono sempre meno in grado di fornire servizi efficienti in cambio delle tasse che incamerano, mentre quei pochi che forniscono li fanno pagare cari e li offrono con un progressivo aumento di inefficienza. Sono ormai diventate una pura idrovora, che succhia senza sosta ricchezze e benessere ai cittadini per versarli nel gorgo vorace e spietato dell'accaparramento finanziario. Non solo non risolvono più i problemi sociali, bensì sono diventati a loro volta creatori di problemi. Rivolgersi alle istituzioni è sempre più difficile, perché si sono quasi completamente disumanizzate, circondate da un tale reticolato di leggi, leggine e regolamenti da risultare impenetrabili, mentre tutte le occasioni sono buone per trasformare ogni intervento in forme di tassazione, per riscuotere veri e propri tributi balzelli e gabelle. Il loro vero e unico scopo è ormai puramente quello di controllare ed di estorcere denaro.
Non poteva essere diversamente. I confini statali si sono ristretti a tal punto che non sono più in grado di racchiudere ed esaurire le tensioni, gli interessi e i desideri degli esseri umani. In un mondo diventato una grande rete di comunicazione, in cui si intrecciano in continuazione spostamenti, azioni e scambi, le frontiere sono del tutto obsolete e non trattengono più. Gli stati nazionali hanno esaurito la propria specificità di gestione e di riferimento autocratico, mentre al di sopra di essi si è formata e si muove con grandissima fluidità una complessa trama multiforme di forze potenti e anonime che, forse proprio per la loro inafferrabilità, sono diventate egemoni a livello planetario. La lotta antistatalista di conseguenza ha smesso di essere il momento privilegiato della rivoluzione, perché, anche nel caso si riuscisse ad abbattere uno stato, com'è da sempre nei sogni di tutti i “bakuninisti”, non avremmo affatto risolto il problema di fondo: l'eliminazione delle forme operanti del dominio e della matrice principale dell'autorità.

Possibili alternative sociali autogestite

Se si vuole perciò riuscire a prefigurare le prospettive di un movimento radicale di lotta che voglia realisticamente emanciparsi, diventa indispensabile essere consapevoli che gli stati non sono più il luogo del potere sommo, abbattuti i quali sarebbe spianata la strada verso l'anarchia o comunque una nuova società liberata. In un contesto complessivo in cui risulta evidente che non c'è uno specifico nemico diretto da colpire (un re, un esercito, un tiranno, una concentrazione totalitaria, ecc.), dalla cui precisa e univoca responsabilità dipendono le condizioni che viviamo, non esiste di fatto un vero ed identificabile obbiettivo da abbattere. Possiamo abbattere tutti gli obbiettivi che pensiamo di identificare, il potere non ne sarà scalfito che in minimissima parte e continuerà imperterrito ad imporsi, rimanendo praticamente intatte le vigenti prerogative del dominio.
Qualsiasi strategia rivoluzionaria che scegliesse come prerogativa fondamentale della propria azione lo scontro diretto militare coi poteri supposti dominanti, nell'illusione di abbatterli, per eliminarli o per sostituirsi ad essi non ha importanza, non potrebbe perciò che esaurire la propria propulsione perché rischierebbe di trovarsi invischiata in un reiterarsi all'infinito di poteri che decadono e risorgono, mentre rimarrebbe intatta la matrice che li alimenta e li perpetua. Diventerebbe solo un agire estenuante e inconcludente che non farebbe altro che organizzare e produrre, inconsapevolmente, la propria autodistruzione.
Una prospettiva di lotta radicale che continui a fondarsi sullo scontro per abbattere il nemico, come quella classica rivoluzionaria-insurrezionale, non sceglie altro in definitiva che la propria radicale sconfitta. Insegue continuamente illusori nemici senza riuscire mai a identificare e trovare quello vero, perché in definitiva il nemico vero, quello che una volta sconfitto puoi veramente dichiararti vincitore, non c'è. Fare la guerra a un nemico sfuggente, che non si riesce a identificare e che si ripropone continuamente in modo multiforme e mai definitivo, rischia di ritorcersi contro. Il potere oggi è ben contento di trascinare la ribellione in uno scontro bellico contro di lui, perché così avrà tutti i mezzi e le possibilità per controllarla e annientarla. La guerra è il terreno preferito di chi detiene il dominio, perché storicamente è lo strumento principale di conquista e sottomissione, che ha sempre permesso agli stati d'imporsi, comandare e soggiogare.
Una lotta e una prospettiva efficaci per procedere verso l'emancipazione non possono più farsi incuneare all'interno di un tunnel senza vie d'uscita, perfettamente prevedibile e sotto controllo. Una strategia d'attacco al sistema di dominio vigente non può più essere essenzialmente di attacco militare da parte di chi si ribella.
Al contrario bisognerebbe procedere su più campi d'intervento, privilegiando la molteplicità della sperimentazione propositiva, avendo presente che sono sostanzialmente due i momenti di fondo che qualificano la prospettiva dell'azione. Da una parte una serie d'interventi di difesa sociale che riescano a sottrarre il più possibile le persone dalle maglie tentacolari e avvolgenti del potere. Creare per esempio casse di mutuo soccorso, banche di solidarietà e quant'altro permetta di autogestire direttamente i piccoli e fragili guadagni ottenuti con sudate vite di lavoro, senza dover più ricorrere al sistema bancario di rapina legalizzata. Dall'altra mettere in moto processi di costruzione di possibili alternative sociali autogestite.

Andrea Papi