rivista anarchica
anno 42 n. 375
novembre 2012


cultura


“Il Vangelo
che medito”

Sono passati vent'anni dall'incidente stradale in cui Padre Ernesto Balducci ha perso la vita, e le sue parole, i suoi scritti, la sua testimonianza di fede (e di uomo) non smettono di chiamarci in causa ed interpellarci. Questo frate scolopio, nato sui monti dell'Amiata, in un paese di minatori - Santa Sofia - può essere considerato a buon diritto un “gigante” del pensiero cristiano del Novecento e un insuperabile comunicatore. Da giovane si mosse nella Firenze dei La Pira e dei don Milani e fece del magistero del Concilio Vaticano II il crinale di una fede sempre pronta ad interloquire con la cultura e la politica.
La casa editrice Chiarelettere ha raccolto gli interventi di Padre Balducci nel volumetto Siate ragionevoli chiedete l'impossibile (Chiarelettere, 2012, pagg. 156, Ä 7,00): un bel pugno di articoli usciti su diverse testate (L'Unità, Il Sole 24 ore, Il Secolo XIX...) in un arco di tempo che va dagli anni ottanta a qualche settimana prima della sua tragica morte.
Diviso per tematiche in undici capitoli, con la prefazione di Don Andrea Gallo, il volume riporta la parola di Padre Balducci, che ci viene incontro con la forza di una rivelazione. Per il frate - che vestiva abiti laici - era fondamentale la necessità che il Cristianesimo, ormai screditato, soccombesse del tutto, in modo da poter ritrovare un'altra “fecondità sorgiva”, rintracciabile solo nel fermento e nello slancio del Vangelo: “Non voglio che si diffonda il Cristianesimo che io conosco. Voglio che si diffonda il Vangelo che io medito, che è un'altra cosa”. Severo con la sua Chiesa, cerca invece di farsi portavoce dei dannati e degli ultimi, perché “non si può parlare a nome di Cristo senza condividere la vita dei diseredati”. Non risparmia critiche nemmeno a Papa Wojtyla, reo di non aver saputo prendere una posizione netta e inequivocabile contro guerre e conflitti, come invece suggerirebbero alcuni pronunciamenti pontifici quali “Pacem in Terris”. Secondo il nostro tutte le religioni, per ritrovare la propria indole, devono rinnovarsi, abbandonare le loro certezze e sapersi confrontare con “l'asse orizzontale del futuro dell'uomo”. E di futuro Balducci parla anche quando incrocia il tema del disagio giovanile o della ricerca del facile benessere, del razzismo o della politica, che come la fede ha per molti versi tradito il suo progetto di speranza. Perché gli uomini possano rimettersi in cammino e aprire nuovi squarci di orizzonte il frate non sa indicare che una strada: quella che porta a cercare l'impossibile perché - secondo lui - solo così si raggiunge il possibile.

Mimmo Mastrangelo




È nato prima lo stato
o la guerra?

È possibile che un libro scritto quasi trent'anni fa, in piena guerra fredda, sia ancora oggi attuale? Sì, se parliamo del testo Lo stato e la guerra. L'insensatezza delle politiche di potenza (Gandhi Edizioni, Pisa, 2008, pagg. 352, € 30,00) dello storico tedesco Ekkehart Krippendorff, che in esso ricostruisce la genealogia dei legami tra eserciti, stati e guerre, attraverso un'analisi storico-politica che parte dall'antichità e arriva agli anni '80 del '900, passando per l'epoca medioevale. “Sono così arrivato necessariamente al vero oggetto della questione sulla guerra (corsivo dell'autore), vale a dire il potere nato dalla violenza e tutelato militarmente, con il monopolio dell'uso della forza, lo stato”1. Questa è la conclusione finale dell'autore, il quale pur non partendo da una prospettiva di ricerca anarchica, approda ad essa nel corso del suo lavoro.
Krippendorff, avvalendosi non solo delle sue competenze di storico ma utilizzando anche le riflessioni di letterati e filosofi, tra cui Tolstoj, Nietzsche e Goethe, sostiene la tesi per cui l'esistenza degli Stati, ma più in generale di ogni forma di dominio politico strutturale e permanente, dipende dalla presenza di forze militari istituzionalizzate, e non viceversa. L'atto di violenza originaria insomma, genera gerarchia e dominio, che a loro volta rigenerano sé stesse attraverso la guerra e le svariate forme che essa assume.
E se queste considerazioni sono ovvie per molti libertari e anarchici, non è invece di poco conto che questa prospettiva entri a far parte del dibattito “accademico” delle relazioni internazionali, solitamente imbevute di realpolitik hegeliana-weberiana. Ma torniamo al libro.
Nei primi capitoli, incentrati sul XIX e sul XX secolo, vengono analizzate la politica di potenza e la ragion di stato, interpretate come politiche astratte, senza fini definiti o precisi, o peggio con fini di conquista, realizzate continuamente a discapito della popolazione. E a tal proposito, sebbene Krippendorff prediliga una analisi strutturalista, viene pure evidenziato l'ordine simbolico e culturale che le sorregge e reifica.
Successivamente l'autore si sofferma sul ruolo delle forze armate in alcuni dei principali momenti di cambiamento politico dello scenario internazionale dell'epoca moderna: la rivoluzione statunitense e quella russa. In esse ravvisa come le forze armate, da rivoluzionarie che erano per pratiche e idee, diventino reazionarie e repressive quando le briglie dello stato le fagocitano e le istituzionalizzano, attraverso un complesso procedimento giuridico-istituzionale e culturale, che ne svilisce lo slancio sociale di liberazione.
I capitoli seguenti procedendo a ritroso nella storia, considerano lo stesso tipo di dinamiche, calate in contesti antecedenti: l'impero romano, il medioevo e il periodo successivo all'accordo di Westfalia. Viene ricostruita quindi, con le debite differenze inerenti ai vari momenti storici, l'evoluzione della violenza da affare privato da vendere al miglior offerente (si pensi ai mercenari, ai lanzichenecchi, etc.) a violenza statalizzata al servizio dei governi.
Per chiudere, non si può non sottolineare la fervida ironia, ai limiti del sarcasmo, con cui l'autore ricostruisce, nel corso delle quasi 400 pagine del libro, l'idiozia e la ridicolaggine di alcuni personaggi e momenti storici ritenuti “intoccabili e mitici” dalla storiografia classica delle relazioni internazionali. Da Bismarck, che giudica le persone secondo la reazione del suo cane, alla sgangherata banda della Mano Nera, che riuscì ad uccidere l'arciduca Francesco Ferdinando dopo mille buffe disavventure: finalmente abbiamo una storiografia che smonta la pretesa grandezza e ragionevolezza della ragion di stato e della politica estera di potenza. Un valore aggiunto insomma per un libro che si presenta come un classico del pensiero pacifista e che si caratterizza per il tentativo di detronizzare la storia internazionale per come ce l'hanno raccontata sino ad ora.

Tommaso Regazzo

1. Ekkehart Krippendorff, Lo stato e la guerra. L'insensatezza delle politiche di potenza, Gandhi Edizioni, Pisa, 2008, pp. 19, 20.



La presenza libertaria dentro i
sindacati “ufficiali”

Uno dei fenomeni che si verificano durante le più acute crisi storiche, nel campo intellettuale, è il ritorno agli autori del passato, specialmente ad alcuni che nei momenti di quiete erano più trascurati e dimenticati...” (Luigi Fabbri)

Prima ancora di leggere l'interessante volume di Giorgio Sacchetti Lavoro, democrazia, autogestione. Correnti libertarie nel sindacalismo italiano (1944-1969) (Aracne Editrice, Roma, 2012, pagg. 376, € 21,00) ho pensato che ci è voluto del coraggio nell'affrontare non la ricostruzione di una fase “alta” della lotta di classe e del movimento libertario, ma la disamina di una deriva difficile e complicata, come difficili e complicate sono sempre le vicende di correnti rivoluzionarie in un'epoca di controrivoluzione o, se si preferisce, di rivoluzione capitalistica dall'alto.
Eppure, proprio la scelta di studiare l'azione di coloro che “contre vents et marées” hanno tentato di mantenere viva una presenza libertaria nel movimento di classe costituisce il fascino del libro e, almeno per me, il principale motivo di interesse che lo caratterizza.
Su quest'epoca, la recente edizione del bel libro di Gaetano e Giovanna Gervasio Un operaio semplice. Storia di un sindacalista rivoluzionario anarchico (1886-1964) (edizioni Zero in Condotta, Milano, 2012) ha fornito un materiale di grande interesse documentario e, non a caso, lo stesso Giorgio Sacchetti lo utilizza per la sua ricostruzione.
Credo che una disamina dettagliata di molteplici percorsi ed esperienze quale quella che Giorgio ci propone meriti una lettura attenta. Da parte mia, porrò l'accento su un aspetto del libro che ritengo non solo importante ma in qualche misura singolarmente e, lo ammetto, preoccupantemente, attuale.
Il libro, come si è detto, ricostruisce l'attività e il dibattito di compagni impegnanti nel movimento operaio in anni difficili. In particolare rende conto di due scelte - mi rendo conto che opero una semplificazione, ma ritengo sia accettabile. La prima è quella dei compagni che ritennero possibile la ricostituzione dell'Unione Sindacale Italiana, e cioè di un sindacato esplicitamente rivoluzionario e libertario; la seconda è quella dei compagni che ritennero fosse più praticabile - e più adeguata alla situazione - la scelta di operare come componente autonoma - ma necessariamente di estrema minoranza - dapprima nella CGIL “unitaria” e in seguito, dopo la scissione ad opera di CISL e UIL, nella CGIL egemonizzata da PCI e PSI.
Entrambe le scelte, come è noto, si esaurirono senza pervenire a significativi risultati, al punto che, quando negli anni '60 del secolo scorso il conflitto industriale riprese vigore, non vi era una corrente operaia libertaria degna di nota e i compagni che entrarono allora in campo - chi scrive è fra questi - dovettero in qualche misura “ripartire dalle aste”.
Si potrebbe sostenere, e gli amanti delle polemiche ad estenuazione lo hanno sovente fatto, che se “tutti” i compagni avessero fatto una scelta o l'altra i risultati sarebbero stati significativamente diversi e che, di conseguenza, vi fu una carenza della soggettività anarchica o meglio della soggettività degli anarchici che fecero la scelta “sbagliata”.
Per parte mia, ritengo che porre l'accento su “errori” degli uni o degli altri non porti da nessuna parte, e anzi conduca a perdere di vista le effettive ragioni di quanto è avvenuto che, schematizzando, sono a mio avviso tre.
In primo luogo il fatto che, dopo la seconda guerra mondiale e la sconfitta della rivoluzione spagnola, si era in un'epoca di rilancio del capitalismo occidentale, l'età d'oro del capitalismo per un verso e dall'altro di egemonia sui settori marginali del movimento operaio occidentale, quale quella operata dallo stalinisno in Italia.
In seconda istanza, come lo stesso libro rileva bene, in questa fase non si formano nuove generazioni rivoluzionarie. I quadri storici sindacalisti libertari, per lo più uomini di grandissima capacità, generosità, sincerità - penso, per fare un altro esempio oltre a quello di Giovanni Gervasio, ad Attilio Sassi, sul quale si può leggere l'eccellente libro di Tomaso Marabini, dello stesso Giorgio Sacchetti e di Roberto Zani Attilio Sassi detto bestione. Autobiografia di un sindacalista libertario (edizioni Zero in Condotta, Milano, 2008) - sono troppo spesso aquile solitarie, circondate dalla stima dei militanti sindacali anche di altro orientamento, ma privi di un'area politico/sindacale di riferimento in grado di dare loro sostegno e, soprattutto, prospettive nel medio lungo periodo.
Infine, pur rendendomi conto che con questa affermazione urterò qualche suscettibilità, ritengo che per molti abbia pesato il rifiuto, o se vogliamo la difficoltà, a ripensare categorie interpretative, forme di azione, modalità organizzative a fronte di relazioni sociali capitalistiche che, piacesse o meno, disegnavano scenari nuovi che non potevano essere semplicemente rifiutati, almeno da parte di chi voleva stare in campo aperto. Se dovessi citare un libro - peraltro di gradevolissima lettura, come altri del medesimo autore - indicherei Mezzo secolo di anarchia (1898-1945) di Armando Borghi (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1954). Non credo che una diversa attitudine avrebbe dato frutti straordinari ma certo a molti la salvaguardia dell'identità e della tradizione parve il primo se non l'unico obiettivo meritevole di perseguimento.
Oggi, a mio avviso, sembra che alcune delle domande e delle contraddizioni che percorrono il libro di Sacchetti siano perfettamente attuali e a maggior ragione dialogare, attraverso questo volume, con i compagni nostri di allora è esercizio utilissimo.

Cosimo Scarinzi