rivista anarchica
anno 43 n. 378
marzo 2013


società

Rendere protagoniste le piazze

di Antonio Cardella


Al di là delle consuete “drammatiche” alternative strombazzate in campagna elettorale, le politiche dei governi (tecnici o politici) fanno riferimento ai vari poteri forti. Non certo alla “gente”.


Quando ebbi terminato l'intervento, fui colto dall'angoscia di non essere stato chiaro, di non avere sufficientemente motivato le ragioni che mi vedevano così radicalmente contrario alle analisi e alle ipotesi di intervento che governo e partiti – nessuno escluso – sostenevano per uscire dalla crisi gravissima che attanaglia il nostro paese e gran parte delle comunità occidentali.
I riflettori dell'auditorium della Rai di Palermo – dove, con i compagni Vaccaro, Tirrito e La Via (relatore il sociologo Enzo Macaluso) si presentava ad un pubblico eccezionalmente numeroso e attento il nostro libro Il buco nero del capitalismo – illuminavano di luce intensa il proscenio sul quale eravamo seduti e dal quale la sala appariva come uno spazio vuoto oscuro e impenetrabile.
Decisi subito – sulla scia della frustrazione che compagni e amici non riuscivano a rimuovere – che avrei messo nero su bianco, il più razionalmente e chiaramente possibile, la mia tesi di fondo e cioè che quanto si sostiene sulle ragioni che hanno reso la crisi così imponente e duratura, e gli interventi messi in atto per fronteggiarla, sia totalmente infondato.

Misure peggiori del male

Iniziamo – sia pure a volo d'uccello – dall'inizio della crisi.
La presunzione, tutta americana, che il mercato fosse il regolatore finale di ogni possibile scompenso delle economie reali, aggiunta ad una politica del credito espansiva e disinvolta, determinò una corsa all'indebitamento che investì in particolare alcuni settori dell'economia americana, in prima fila l'industria della casa. Per acquistare un tetto per abitarvi o per creare reddito, le famiglie della Grande Mela ipotecarono presunte risorse future, prosciugando i risparmi accumulati. Altrettanto disinvoltamente gli istituti bancari cartolarizzarono i crediti accumulati, creando un giro di denaro cartaceo che moltiplicava fittiziamente il valore del credito originario nella presunzione che il processo si potesse sostenere all'infinito e che, in ogni caso, alla fine, la crescita del benessere collettivo, ritenuta inarrestabile, avrebbe pareggiato i conti.
Come tutti ormai sanno, le cose non andarono esattamente così: la bolla speculativa esplose, il valore degli immobili crollò e istituti di credito e di intermediazione finanziaria si trovarono con una valanga di titoli cartacei che non valevano nulla, mentre le famiglie che si erano indebitate si trovarono a fare i conti con una indigenza alla quale l'opulenza pregressa li aveva disabituati.
Ma la carta straccia prodotta dal sistema finanziario statunitense aveva nel frattempo inquinato tutto il resto dell'area occidentale, per cui le famiglie che, dolosamente consigliate dalle proprie banche, avevano investito i propri risparmi in azioni o in obbligazioni d'oltre oceano e lo stesso sistema bancario si trovarono a non potere far fronte ai propri impegni.
A questo punto le misure delle istituzioni pubbliche per fronteggiare la crisi furono, se possibile, peggiori del male che volevano combattere. Anziché equilibrare le misure di sostegno tra gli ambiti delle sofferenze maggiori, finanziando in misura equilibrata sia il sistema del credito, selezionando quegli istituti più sani e che meno avevano contribuito a diffondere la pandemia, sia le economie reali dei paesi più pesantemente investiti dalla crisi, si preferì privilegiare proprio quel settore maggiormente responsabile della crisi stessa.
Così, tra la fine del 2008 e il primo trimestre del 2009, le banche centrali di Stati Uniti ed Europa finanziarono le banche con la stratosferica cifra di 14 mila miliardi di dollari, una massa di denaro equivalente a circa il 50 per cento del prodotto interno lordo dei paesi beneficiari (calcolo della Bank of England).
In questo modo si è compiuta la più imponente operazione di socializzazione del debito privato che la storia ricordi. In pratica, i debiti accumulati dal sistema bancario privato si riversano sul debito pubblico di tutti i paesi travolti dalla crisi, determinando il decollo del debito pubblico complessivo rispetto al Pil. In Italia tale rapporto, considerato in crescita, è di circa il 121 per cento (2014 miliardi di euro).

Processi recessivi a spirale

Il modo in cui tutti gli stati tentano di risolvere i loro problemi per finanziarsi è quello di aumentare indiscriminatamente la pressione fiscale e di effettuare tagli lineari alla spesa pubblica, sottraendo risorse alle autonomie locali e, quindi, servizi essenziali per i cittadini. Si verifica così un circolo vizioso in virtù del quale le popolazioni sono doppiamente vessate: dalla tassazione diretta e dalla necessità di pagarsi i servizi essenziali sottratti dalla bulimia dei governi.
Sono misure di brevissimo respiro e normalmente inutili. Infatti innescano processi recessivi a spirale: la popolazione non ha più soldi da destinare ai consumi e al risparmio, la contrazione dei consumi deprime la produzione interna di beni e servizi, aumenta la disoccupazione, si restringe – qualità e quantità –base dei contribuenti con la doppia conseguenza dell'aumento del debito pubblico e del rapporto tra la produzione di ricchezza prodotta e il debito complessivo dello stato.
Questa è la condizione attuale di molti paesi dell'eurozona, con la fondata preoccupazione che per alcuni di essi i danni che si stanno provocando all'economia reale diventino irreversibili.
In Italia, il dato sulla disoccupazione è gravissimo: si stima che tra espulsi dalle attività produttive e lavoratori potenziali che un lavoro, sfiduciati, non lo cercano più, i senza occupazione saranno nel 2013 oltre 3 milioni e 500.000, il 14 per cento della popolazione attiva, ai quali occorre aggiungere circa 1 milione di cassaintegrati per un numero di ore che supera il miliardo. La conseguenza diretta è che i consumi sono diminuiti del 4 per cento su base annua, la produzione industriale del 7 per cento in due anni e il Pil del 2,4 per cento.
E noi stiamo ancora bene rispetto ad altri paesi.
Il voler porre rimedio a questa situazione con la politica del rigore imposta dalle autorità della Comunità Europea è pura follia. Tale strategia presuppone l'infondata convinzione che l'indebitamento pubblico derivi dalla propensione degli stati a spendere, mentre risulta chiaro da quello che ho appena scritto – difficilmente contestabile perché mi sembra sufficientemente suffragato da dati obiettivi – che il debito pubblico cresce e si alimenta per effetto della crisi: cioè per le dinamiche recessive che la speculazione finanziaria ha innescato.
Bisogna aggiungere che in questi frangenti la moneta unica non aiuta a risolvere i problemi, anzi contribuisce a cristallizzare alcuni squilibri connessi ai diversi livelli di evoluzione delle economie dell'eurozona. Le ragioni sono assai complesse, proverò a sintetizzarle, scusandomi in anticipo se non riuscirò ad essere esaustivo.
La moneta unica – che ha certamente contribuito ad evitare derive inflattive incontrollabili all'interno dell'area – si regge prevalentemente sulla definizione di un tasso d'interesse omogeneo tra tutti gli stati dell'Unione (oggi è allo 0,75 per cento). Tale misura, che rende il costo del denaro molto contenuto con effetti certamente positivi per gli scambi commerciali, impedisce alle banche centrali delle singole nazioni di immettere nuova liquidità (stampando cioè denaro non vincolato) per quelle che erano definite inflazioni competitive, volte a sanare squilibri (prevalentemente) degli apparati industriali, in modo da renderli competitivi. In buona sostanza, le attività produttive dell'area sono state private, anche giuridicamente (leggi europee sulla concorrenza), della possibilità di essere sostenute in qualche misura dai propri stati. Il che rende poco flessibili i modelli di sviluppo, deprime il commercio internazionale (oggi poche nazioni hanno bilanci commerciali in attivo con l'estero) e innesca processi di deindustrializzazione, dovuti anche agli alti costi dell'energia e delle materie prime.
In un panorama così deprimente, la funzione di un governo europeo dovrebbe essere quella di immettere risorse adeguate alle economie reali, potenziando tutte quelle attività che nei singoli paesi faciliterebbero la ripresa dei consumi e della produzione di beni e servizi essenziali, la riduzione dei tassi di disoccupazione e, soprattutto, quelle attività a tutela dell'ambiente e dei patrimoni culturali, di cui tutta l'eurozona è ricca. Niente di tutto questo si vede all'orizzonte. Ancora ultimamente, in aiuto ai titoli sovrani, Draghi ha erogato ulteriori 1000 miliardi al sistema bancario, di cui 240 sono arrivati in Italia. Complessivamente nei portafogli dei nostri istituti di credito ne giacciono per 140 miliardi, chissà a cosa destineranno l'eccedenza. Certamente non al credito a favore di famiglie e imprese in sofferenza, a giudicare dal fatto che alle famiglie non è neppure consentito rinegoziare i mutui contratti e ogni giorno migliaia di imprese o chiudono i battenti o sono sul punto di chiuderli.
Per queste ragioni e per tutte le altre che riguardano il sistematico smantellamento di quel poco che rimane delle garanzie sociali e giuridiche dello stato, bisogna in ogni modo che le logiche del governo europeo, interpretate acriticamente da quel Berlusconi travestito che è l'incartapecorito Monti, con la sua agenda cinicamente antipopolare, non prevalgano alle imminenti elezioni.
Noi, come sempre, ci siamo sottratti al gioco della scheda elettorale. Ma guai se a questo sottrarsi non corrisponderà la promozione più determinata, intanto, di una rivolta dal basso che renda protagoniste le piazze e, contemporaneamente, di tutte quelle libere e autonome iniziative che confermino la nostra convinzione che un altro mondo sia possibile.

Antonio Cardella

“Il buco nero del capitalismo”
(120 pagine) costa € 7,50.

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