rivista anarchica
anno 43 n. 382
estate 2013


interviste

Noi registe

interviste di Sandra D'Alessandro a Marina Spada
e di Isabel Pérez Ortega a Chus Gutierrez

Una regista italiana e una spagnola,
due storie diverse, una comune sensibilità.



Il mio sguardo, altrove

intervista di Sandra D'Alessandro a Marina Spada


Avere attenzione e vibrare per il dolore dell'altro, agire per la giustizia sociale.


Ho incontrato Marina Spada un paio di mesi fa, alla Libreria delle donne, dove presentava il suo ultimo film, Il mio domani, del 2011, e ho colto al volo l'occasione per chiederle un'intervista per A; ha accettato subito con spontaneità e gentilezza. Marina non ama gli applausi, i complimenti, i riflettori; però è estremamente disponibile e i suoi lavori rivelano intelligenza, empatia e profondità dello sguardo.
Ci incontriamo alla Fabbrica del vapore, una delle tre sedi in cui si sta svolgendo la rassegna di cinema delle donne Sguardi altrove. Diluvia, ed è un peccato, perché la pioggia battente e il freddo umido penalizzano la rassegna: chi può, se ne sta a casa.

Se sei d'accordo, Marina, comincerei dalla tua formazione.
«Sono laureata in Lettere con indirizzo musicale, per la precisione in Storia della musica, perché qui a Milano era l'unica possibilità di studiare quello che mi interessava, o almeno credevo. Infatti al primo esame, quando il docente mi ha chiesto perché avessi scelto quel corso di studi, ho risposto che volevo fare la tesi sui Rolling Stones; al che lui mi dice: “Guardi che ha sbagliato, avrebbe dovuto iscriversi ad Antropologia culturale”! Ho deciso di continuare, perché comunque conoscevo molto bene l'opera, di cui mio padre era appassionato, e così mi sono ritrovata a studiare da Monteverdi, da cui è cominciato tutto, a Gianfrancesco Malipiero, ed è stato bello e interessante».

Hai studiato anche qualche strumento musicale?
«No. Per qualche anno ho seguito le tournées di alcuni musicisti, ma non facevo niente di importante, aiutavo qua e là, dove c'era bisogno. Ho anche lavorato a canale 96, la prima radio libera di sinistra in Italia».

Marina Spada

Come è avvenuto il passaggio al cinema? Hai studiato alla Scuola di cinematografia, qui a Milano?
«No. Nel 1979 ho vinto un concorso in Rai e sono entrata come aiuto regista sia per programmi televisivi che film per la televisione, che allora si facevano internamente, ed è lì che ho imparato a fare cinema».

Caspita, hai fatto tutto prestissimo!
«Nel 1983 ho lavorato anche con Benigni e Troisi alla lavorazione del film Non ci resta che piangere, ma è un' esperienza che non mi ha soddisfatto, non mi è piaciuto il modo in cui si lavorava a Roma: maschilista e direi anche vessatorio. Però a Milano c'erano poche possibilità di fare cinema, ecco perché sono entrata in Rai».

Se non sbaglio hai cominciato coi cortometraggi.
«Sì, ma poi sono passata ai videoritratti. Il primo, C'era una volta l'America, del 1992, è dedicato a Fernanda Pivano: più che un documentario è una documentazione. Ho avuto solo tre ore di tempo, perché era già molto ammalata. Fernanda è stata un personaggio importantissimo, è lei che ha portato in Italia la poesia e la letteratura della Beat Generation, che è stata un faro per la nostra generazione, e anche per me naturalmente».

Quindi è questa la tua formazione letteraria?
«Sì, e la poesia, per la quale ho una vera passione. Comunque il mio primo video, di solo 10 minuti, Anna dai capelli rock, è del 1981, e ha come oggetto le donne nelle bande giovanili a Milano. Purtroppo è andato perduto, non l'ho più neanche io, e mi dispiace moltissimo».

Sì, è un vero peccato, sarebbe stata un'importante documentazione storica, oltre che artistica. Gli altri videoritratti chi riguardano?
«Lo scultore Arnaldo Pomodoro, lo scrittore Francesco Leonetti1, quello del Gruppo 63 e poi di Alfabeta, amico della Morante, i fotografi Mimmo Iodice, Mario De Biase e Gabriele Basilico2. Con loro si parlava molto, cosa che oggi non si fa più, e mi hanno dato tantissimo, mi hanno formato culturalmente e come persona, soprattutto Gabriele Basilico. Gli facevo la posta dal 1982, dopo la mostra “Ritratti di fabbriche” alla Triennale. È stato in seguito invitato dal Datar (organo del governo francese per attuare la pianificazione statale), a documentare, insieme ad altri fotografi, le trasformazioni del paesaggio transalpino: le opere furono esposte a Tokyo nel 1985 in una grande mostra collettiva. Ho sempre seguito il suo lavoro. Era di grande disponibilità e gentilezza d'animo; non l'ho mai sentito parlar male di nessuno, cosa rara negli ambienti artistici. La relazione con lui è stata fondante. Il mio sguardo deve molto al suo; andavamo in giro per Milano la domenica mattina all'alba, perché la città ci piaceva così, senza persone e senza macchine. Gli devo la progettualità dello sguardo su Milano, soprattutto nel mio secondo film, Come l'ombra. Gabriele diceva: “Milano è la palestra del mio sguardo”».

Come è nata l'idea dei videoritratti dei fotografi? Come sono stati finanziati?
«Ho fatto undici videoritratti di grandi fotografi, e ho avuto modo di conoscerli bene; sono relazioni che restano. Li frequenti per un lungo periodo, parli, poi fai il video. Il culmine di questo percorso è Poesia che mi guardi sulla poetessa Antonia Pozzi, unica non vivente, prodotto da Renata Tardani. Trovare finanziamenti è stato un vero problema, ma lo rifarei: non sono una cui piace lamentarsi. Però un paese che non conserva la propria memoria e non ha rispetto dei propri artisti è allucinante. Un esempio è la fondazione Pomodoro, che ha dovuto cambiare diverse sedi; adesso è vicina al suo studio, ma è piccola. Fernanda Pivano aveva fotografie, carteggi, documentazione sulle proprie traduzioni e i titoli concordati con gli autori americani: tutta roba che stava prendendo il volo per l'America. Nessuno si occupava dell'archivio. Ora è proprietà di Benetton3».

Il tuo primo lungometraggio, Forza cani!, del 2002, è stato rivoluzionario sul piano della realizzazione.
«È stato rivoluzionario su tutto. Per l'uso delle tecnologie digitali, ma anche perché è stato un vero modello di produzione indipendente: cercavamo finanziamenti anche su internet».

Le protagoniste dei tuoi film sono tutte donne: come mai?
«Perché le donne sono diverse. È chiaro che anche gli uomini sono diversi. Ma per le donne è tutto più difficile. Parlo della loro solitudine».

Claudia Gerini in una scena di Il mio domani

A me è piaciuto moltissimo Come l'ombra, (lungometraggio del 2006, NdA) l'ho visto diverse volte. Mi emoziona.
«A te emoziona. Gli uomini si annoiano, dicono che in quel film non succede niente».

A parte il fatto che non è vero che non succede niente: c'è una tragica storia di una donna sola, immigrata, che irrompe casualmente nella vita di un'altra donna, italiana, inserita ma altrettanto sola, della loro amicizia, e della solidarietà che porterà la protagonista a fare un viaggio nel paese d'origine della amica assassinata; non mi sembra poco. Forse gli uomini hanno bisogno dell'azione compulsiva e alienata del cinema americano? Comunque anche nei film di Wim Wenders non succede niente, eppure...
«Appunto».

Non ti è mai venuto il dubbio che parlino così per invidia?
«No. E poi, invidia di che? Non mi sono arricchita, non sono diventata famosa, e insegno ancora alla Scuola di cinematografia. Per carità, non rinuncerei mai a questo lavoro. Per me il rapporto coi ragazzi è fondamentale. E comunque il lavoro non è la vita. La vita è altro. Sono i rapporti con gli altri che contano».

Come l'ombra è un verso di una poetessa russa.
«Sì, di Anna Achmatova. Sono stata a San Pietroburgo a visitare la sua casa. I versi che compaiono alla fine del film sono tratti dalla poesia A molti del 1922: “come vuole l'ombra staccarsi dal corpo/come vuole la carne separarsi dall'anima/così io adesso voglio essere dimenticata”».
Tutti i titoli dei miei film sono tratti da poesie: Forza cani! è il titolo di una poesia di Nanni Balestrini; Il mio domani è un verso di Antonia Pozzi4: “Se chiudo gli occhi a pensare/quale sarà il mio domani/vedo una lunga strada/che sale/dal cuore di una città sconosciuta”.

Vuoi parlare un po' di Poesia che mi guardi?
«È il mio ultimo videoritratto, del 2009, ed è stato un atto di coraggio decidere di produrlo, perché cosa poteva importare e a chi di una poetessa sconosciuta, morta suicida a 26 anni nel 1938? Mi interessava il suo isolamento come artista e come donna. A 17 anni era fotografa, scalava montagne, scriveva poesie. Nel video ho inserito i filmati di famiglia, il che ha permesso di avere come protagonista l'Antonia Pozzi vera, non una tizia qualsiasi che si aggira per il set vestita da Antonia Pozzi. Il titolo è tratto da Preghiera alla poesia».

La grande protagonista di tutti i tuoi film è la città di Milano.
«Sono nata a Milano e non potrei vivere in nessun altro posto. A volte mi capita di dire che non mi sono spostata perché ero, e sono, innamorata di Milano e qui c'è la mia identità».

Le riprese sono davvero stupende. A volte la riconosci subito, altre volte sembra una qualsiasi metropoli del pianeta, come ne Il mio domani. Le immagini sono talmente belle che non c'è bisogno di commento musicale, anzi, a volte a me ha dato un po' fastidio, anche se la colonna sonora era di Paolo Fresu.
«Anch'io mi chiedo sempre: ma ho bisogno della musica per esprimere ciò che desidero? Le immagini da sole non bastano? La risposta è: sì che bastano, e infatti di musica nei miei film ce n'è pochissima; la colonna sonora è forse una concessione che si fa allo spettatore, quando non strettamente necessaria».

A proposito, lavori come i tuoi devono avere difficoltà sia nella produzione che nella distribuzione.
«Infatti. Da qualche anno però ho un produttore che è un vero professionista, un imprenditore serio, che dal suo lavoro si aspetta profitti perché deve distribuire stipendi; quindi le cose vanno molto meglio, rispetto al passato».

Chi sono i tuoi registi preferiti?
«Il giapponese Yasuj Ozu, Wim Wenders (che a Ozu ha dedicato nel 1985 il documentario Tokyo-Ga e che ebbe a dire: “La cosa più simile al paradiso che abbia mai incontrato è il cinema di Ozu”. NdA), Michelangelo Antonioni, soprattutto Il grido ma anche altri».

E Fellini ti piace? Io da giovane non lo potevo soffrire, ma ho rivisto tutti i suoi film lo scorso anno, e devo ammettere il suo genio. Credo di poter collocare il suo Casanova tra i top ten.
«A me è successa un po' la stessa cosa. Non mi piace l'immagine che fornisce della donna, troppo maschilista. Ma La strada e ancor più Le notti di Cabiria li trovo straordinari».

Progetti per il futuro?
«Sto lavorando a due videoritratti».

Visto che questa intervista sarà pubblicata su una rivista anarchica, vuoi dirci qualcosa sul tuo pensiero politico?
«Penso che politica sia avere attenzione per l'altro. E avere attenzione per l'altro e vibrare per il dolore dell'altro, così come agire per la giustizia sociale è di sinistra».

Grazie Marina. Vedremo con piacere i tuoi prossimi videoritratti.

Sandra D'Alessandro

Note

  1. Nato nel 1924 a Cosenza, amico di Pasolini, con cui ha lavorato a due film e fondato la rivista Officina; ha fondato anche la rivista Che fare? e ha insegnato filosofia ed estetica dell'arte all'Accademia di Brera.
  2. Nato a Milano nel 1944 e ivi morto lo scorso febbraio, è famoso per aver fotografato le periferie e le architetture industriali dimenticate, che il suo obiettivo fa assurgere a veri e propri reperti archeologici. Ha fotografato le più grandi città del mondo, nonché la città di Beirut distrutta dalla guerra.
  3. È attualmente in corso una contesa tra la fondazione Benetton e l'ex editore Michele Concina, erede legale della Pivano, per il possesso del materiale conservato nella biblioteca. In seguito a ciò, dal 1° gennaio 2013, i servizi al pubblico della Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano sono sospesi fino a data da destinarsi. (NdR)
  4. Milano, 1912-1938. Figlia di un avvocato e di una contessa, nipote di Tommaso Grossi. Frequentato il liceo classico, si laurea in filologia, con una tesi su Flaubert sostenuta con Antonio Banfi, docente di estetica. La famiglia negò il suicidio, considerato scandaloso, affermando che Antonia morì di polmonite.

 

Chus Gutiérrez durante la lavorazione di un film


Il cinema è potere
e noi donne...

intervista di Isabel Pérez Ortega a Chus Gutiérrez


La società cambia attraverso l'immaginario e se l'immaginario lo costruiscono solo gli uomini, se la storia la costruiscono solo gli uomini, è molto difficile cambiare comportamenti, cliché, modelli di condotta....


Chus Gutiérrez, classe 1962, è una regista, produttrice, attrice, sceneggiatrice e musicista spagnola, da sempre impegnata nell'indagine della realtà e della società che la circondano: numerosi premi e riconoscimenti hanno confermato nel tempo l'apprezzamento del suo lavoro da parte di critica e pubblico. Negli anni '80 studia cinema a New York, dove comincia a girare i primi cortometraggi, e sempre in questo periodo fonda il gruppo di flamenco-rap delle Xoxenees. Tornata in Spagna, si dedica a pieno al mondo del cinema e della televisione: dirige, recita, scrive e produce, non lesinando incursioni nella videoarte e nel teatro, collaborando anche a diversi progetti collettivi. Nel 2007 contribuisce alla creazione dell'Associazione di donne del cinema e dei mezzi audiovisuali (Cima).

Sceneggiatrice, attrice, produttrice, regista... Con quale lavoro ti diverti di più?
«Con tutti, ora sto tenendo un corso che mi sta anche divertendo molto. Alla fine è tutto connesso. Il lavoro di creazione ha molto in comune con la necessità di comunicare, di inventarsi storie. Credo che tutto il lavoro creativo abbia molto in comune. Dato che abbiamo solo una vita, non c'è tempo per fare tutto quello che vorresti. Quello che mi piace di meno è la produttrice, lo faccio per necessità, è l'unico modo per portare avanti alcuni prodotti».

Esiste il cinema delle donne?
«È più facile dire che il cinema delle donne non esiste, no? L'altro giorno sul País è uscita una notizia: al Festival del cinema di Berlino è stato convocato un incontro fra cineaste, francesi e tedesche, per discutere del perché il cinema diretto dalle donne è il 5 virgola qualcosa per cento, quando noi donne siamo la metà della popolazione».

Da qui la necessità di produrre determinate cose, suppongo...
«Mah, credo di sì, ha a che vedere con questo, sì...»

Quali sono i tuoi registi/le tue registe di riferimento, le tue influenze?
«Be', ci sono persone di cui mi piace il percorso in generale, ma credo anche che ci siano più pellicole che mi hanno segnata, che mi sono piaciute nel tempo e che in alcuni momenti possono ispirarmi. Ma me ne piacciono alcune di Woody Allen, non tutte, mi piacciono alcuni film di Wintterbottom, mi piace Jane Campion, soprattutto i primi film, mi piace Lezioni di piano, mi piace Taxi driver, mi piace Blade runner, mi piacciono un'infinità di film. Casablanca... Non so, è che a volte e all'improvviso dici: Ah, che film meraviglioso!
Mi è piaciuto molto Amour, di Haneke. Ma può essere una fonte di ispirazione anche andare a un concerto o a vedere una mostra d'arte o un'opera teatrale... l'arte è tutta interconnessa.»

Avere un gruppo musicale con delle amiche, scrivere sceneggiature con amici e amiche, recitare in film di amici/amiche1 o fondare una casa di produzione con anche amici/amiche. Casualità o scelta di vita e professionale?
«Normalmente lavori con le persone che conosci e con cui hai punti in comune, no? C'è sempre un rischio a lavorare con amici/amiche, a volte puoi assumerti il peso dell'amicizia. Comunque, se si dosa bene, io preferisco, sono più a mio agio a lavorare con persone che conosco».

Perché c'è bisogno di un'Associazione di donne cineaste (Cima)?
«Per ciò di cui abbiamo parlato all'inizio. Quando sono entrata nel cinema nei primi anni '90 vivevamo un periodo energetico, la fine della dittatura, l'inizio della democrazia, era in atto un cambiamento sociale e politico. In un certo modo, noi donne in quel momento – e i numeri lo dimostrano – abbiamo sentito che potevamo fare quello che avremmo voluto, non avevamo paura, potevamo sognare di fare le registe e quel sogno si poteva realizzare. E davvero in quel momento spuntarono come una valanga un sacco di registe. In quel decennio abbiamo diretto il nostro primo film in 30 o 40 donne, che per quello che avevamo alle spalle era incredibile. Ma in poco tempo, finiscono gli anni '90 e torniamo un'altra volta al deserto del Sahara. Con un gruppo di registe cominciamo a incontrarci, parliamo e ci accorgiamo che non abbiamo alcun rilievo, non ci sono giovani donne registe dietro di noi, quella fantasia per cui le donne sarebbero state partecipi della direzione cinematografica, della sceneggiatura... La società si cambia attraverso l'immaginario, e se l'immaginario lo costruiscono solo gli uomini, se la storia la costruiscono solo gli uomini, è molto difficile cambiare comportamenti, cliché, modelli di condotta...
Ci siamo guardate attorno, e abbiamo visto che molte di quelle che avevano diretto qualcosa negli anni '90 avevano realizzato un solo film, e non avevano mantenuto una continuità nelle proprie carriere. Abbiamo deciso di unirci e provare a far sì che dal lato istituzionale si sostenesse il cambiamento: il tema delle quote rosa, le cose non cambiano se non per imposizione, no? Ci siamo unite in un'associazione e abbiamo cominciato a lavorare sul piano politico. Abbiamo provato a far sì che per i nuovi registi ci fosse una clausola per cui se eri una direttrice donna ti avrebbero dato dei punti, o cose così... si è cercato di fare un lavoro istituzionale perché venisse dato un chiaro appoggio alle donne registe.
Veniva anche considerato il numero di donne che partecipavano al progetto, non solo come registe ma anche come sceneggiatrici, come produttrici. Siamo state in tutte le televisioni: abbiamo portato avanti un'attività istituzionale e questo è il risultato. Anche questo ci ha unite, ci ha fatto condividere esperienze, ha portato alla creazione di un database di donne cineaste: se una direttrice cerca una montatrice, la può trovare facilmente. Adesso si sta creando la Rete europea di donne cineaste (Ewa) – ossia abbiamo già varcato i confini nazionali –, e anche la Rete ispanoamericana (Mica). L'associazione di donne cineaste non è servita solo per lavorare all'interno dello spazio nazionale, ma anche per lavorare a un livello più globale».

Come vedi il tema delle disuguaglianze per ragioni di sesso nel tuo ambito professionale?
«Allo stesso modo che in qualsiasi altro ambito: noi donne lavoriamo molto bene, siamo sempre qui, alla base, siamo molto brave nella produzione, ma quello che è difficile è sempre arrivare al potere. E il cinema è potere, perché è raccontare una storia attraverso il tuo punto di vista. E tu sei una donna. Il cinema è una rappresentazione del resto del mondo lavorativo: siamo in molte donne, ma c'è anche uno sbarramento2 come nell'Fmi, o nelle direzioni delle grandi aziende, guardi le loro foto e capita che non ci sia neanche una sola donna».

Una scena del film Return to Hansala

A confronto con gli anni '80, quando con le Xoxonees hai fatto irruzione nel panorama musicale, credi che abbiamo fatto passi avanti o indietro sui temi dell'uguaglianza?
«Credo che l'uguaglianza sia un processo molto lento, mi sorprende quanto lo sia, credevo che sarebbe stato più veloce. Però guardi la società e ti accorgi che non siamo cambiati molto, andiamo avanti nella medicina, nel mondo dei satelliti, nelle conoscenze, ma l'essere umano, il suo progresso emotivo, è molto lento, possiamo dire che in questo stesso momento siamo quasi come nel Medioevo. Nonostante i progressi abbiamo ancora schiavitù, fame, sete, indici di povertà incredibili, non solo in paesi in via di sviluppo, ma anche nel nostro stesso paese. Non avanziamo secondo una progressione logica né in linea retta, andiamo avanti in alcuni aspetti e retrocediamo in altri. Ma l'uguaglianza, be', la donna lavora fuori casa e a casa, eppure continuiamo a non avere le armi per realizzare davvero cambiamenti profondi nella società, a non avere accesso al potere, e ci sono anche molte donne che imitano modelli patriarcali. Le donne molte volte non hanno modelli di riferimento, non come gli uomini che ne hanno in ogni ambito: nell'arte, nella politica, nella scienza... Non abbiamo donne a cui possiamo assomigliare, in cui possiamo specchiarci, dobbiamo costruire il nostro proprio e individuale modo di affrontare tutto questo. Per questo il cinema e la letteratura, la narrativa, la televisione sono così importanti: aiutano a costruire nuovi modelli. Se analizziamo i personaggi femminili del cinema, della narrativa, molte volte non hanno un nome, sono le fidanzate, le amanti, le madri, le figlie dei personaggi maschili, ma ci sono davvero ben pochi personaggi femminili padroni delle proprie decisioni, che siano come la maggior parte delle donne, con i loro errori, le loro decisioni, che siamo eroine, scellerate... Ci sono pochi personaggi nella narrativa completamente femminili. È come se si trascinassero sempre dietro quelli maschili, che sono quelli che decidono. Le donne hanno un ruolo congiunturale o aneddotico nella narrativa. Se leggi spesso la pagina degli spettacoli teatrali, e guardi ogni opera, c'è una percentuale incredibile di personaggi maschili e femminili, e allo stesso modo ci sono cinque protagonisti maschili e una sola protagonista femminile. È sempre così, noi donne non abbiamo modelli. E continuiamo con le principesse che si innamorano dei principi e le sputtanano... be', a volte prima le salvano e poi le sputtanano. È bizzarro che quando un uomo dirige un film nessuno gli chieda se sta mettendo la sua visione maschile nei personaggi, e ogni volta che è una donna a dirigere sembra che debba far passare la sua visione del mondo attraverso il personaggio della donna. Ma il mondo è universale, è una visione universale. A noi donne chiedono sempre il nostro punto di vista, non un punto di vista universale, ma lo sguardo di una donna, ed è una cosa che ti dà fastidio, no? È già dividere, e dire: tu sei diversa».

A quali progetti stai lavorando ora?
«Ora stiamo girando una serie web, che è un corso che ho messo insieme, e che avrà un ottimo risultato, perché ho alcuni alunni e alcune alunne meravigliose. E in questo periodo ho anche girato un film che si chiama Droga oral, che è la seconda parte di Sexo oral. Il tema della droga continua a essere un tabù, tutti si drogano in un modo o nell'altro, con sostanze legali o proibite, ma è qualcosa che fa del tutto parte della nostra vita, e non c'è una comunicazione chiara a riguardo, soprattutto per i giovani, che sono i più esposti. Mi interessava parlare di questo tema, di come le persone si relazionano con le droghe in un modo o nell'altro. Sto anche girando un documentario nel Sacromonte, a Granada, con le persone più anziane della zona, si chiama I saggi della tribù. Lo scopo è parlare, attraverso la memoria delle persone che lì hanno vissuto, di com'era la vita. Nel '63 ci sono state alcune inondazioni e sono stati sfollati tutti. Quello che voglio è, attraverso la memoria, ricostruire com'era quel quartiere, la trasmissione dell'arte fra le persone, come gli uni imparavano dagli altri. Sto anche lavorando a un progetto che probabilmente gireremo in Colombia, a Cali, e che si chiama Delirio».

Non si può dire che tu perda tempo.
«Sono rimasta ferma per molto tempo, e ora sembra che comincino a venir fuori delle cose...»

Cosa ne pensi dell'attuale momento di mobilitazioni che stiamo vivendo? Il 23 febbraio c'è stata una riunione di Mareas (letteralmente “maree”, raduni collettivi autorganizzatisi che riuniscono diversi gruppi e associazioni di protesta), non si sa se a livello statale o nelle principali città. Credi ci sia bisogno di altro?
«Non ci siamo resi conto del potere che abbiamo. Credo che il popolo abbia tutto il potere, siamo la maggioranza. Se prendessimo decisioni che avessero davvero un risultato, per esempio una disobbedienza fiscale. Decidiamo tutti di essere disobbedienti fiscali... lo stato crolla in 5 minuti! Dobbiamo prendere coscienza del nostro reale potere. Scendere in strada va benissimo, ma dobbiamo fare azioni concrete, perché se scendiamo in strada, scendiamo, passiamo tutto l'anno in strada. Da luglio ci sono state oltre un migliaio di manifestazioni a Madrid, è impressionante, ma non succede nulla. Tutti i partiti politici che negli anni sono stati al potere hanno davvero il controllo, hanno la sfacciataggine di fare le cose in modo del tutto oscurantista, non puoi fidarti di nessuno. Quello che stiamo vivendo in politica è qualcosa di disastroso. Questo sistema che abbiamo messo in piedi, che chiamiamo democrazia, quello che fa è far lavorare i partiti politici per quattro anni. Non c'è un lavoro in profondità per cambiare la situazione. Succeda quello che succeda e costi quello che costi, lavorano per i prossimi quattro anni, per vedere se li voti. Non c'è un lavoro in profondità su nulla, mettono delle pezze, cambiano delle piccole cose, ma a livello generale, le cose sono sempre le stesse. Come tutti hanno qualcosa da nascondere, perché non so cosa sia successo in questo paese, ma evidentemente siamo un paese un po' disonesto, lo stiamo vedendo, si coprono tutti a vicenda. L'alternativa politica in questo momento è disastrosa, non abbiamo neanche speranza. Deve nascere un partito nuovo con professionisti di comprovata onestà, che fin dal primo giorno espongano pubblicamente tutte le loro proprietà, e che facciano lo stesso una volta saliti al governo. Non dico che tutti i politici siano uguali, ma la politica è stata usata come il cortile di una portinaia, sono stati usati metodi molto discutibili».

Eh sì, e ora vediamo i risultati. Ci sono organizzazioni e associazioni che sono anni che lo fanno vedere, ma non ci si fa caso perché sono la minoranza.
«È importante che siano corretti nella riscossione fiscale. Ci mettiamo da parte un sacco di soldi».

È evidente che riscuotono bene...
«Ma anche di più, se poi ci lasciano tutti e tutte in pace. Che gli paghino uno stipendio decente, che si sentano soddisfatti, che lavorino molto e che non ci rubino più nulla».

Grazie Chus, continua con tutti i tuoi progetti, che ti riescano splendidamente e ancora per molti anni.

Isabel Pérez Ortega
traduzione di Giuditta Grechi
dal n.266 del mensile anarcosindacalista spagnolo Rojo y negro, marzo 2013 (rojoynegro.info)

Note
  1. In originale “amigxs”.
  2. L'originale riporta l'espressione, non diffusa in italiano, “techo de cristal”, preso dall'inglese “glass cieling” (soffitto di vetro) per indicare le situazioni latu sensu aziendali e istituzionali in cui le donne potrebbero accedere per qualificazione ai piani più alti, li vedono, ma non possono di fatto fare carriera.