rivista anarchica
anno 44 n. 387
marzo 2014




Movimenti sociali e violenza,
alcune riflessioni

Il curatore di questa rubrica dà ospitalità a Stefano Boni, anche lui antropologo, anarchico e collaboratore di “A”.

Di seguito, sistematizzo ed elaboro idee che sono emerse nel corso della discussione collettiva con cui si è concluso l'incontro della EASA (Associazione Europea degli Antropologi Sociali) sul tema dell'attivismo politico e la possibilità di giustizia, tenuto a Perugia a fine Ottobre 2013. La tavola rotonda si è nutrita di molteplici riflessioni sul tema del rapporto tra movimenti sociali e violenza che mi son preso la responsabilità di organizzare perché mi paiono particolarmente feconde. Ringrazio tutti i partecipanti per uno sforzo collettivo lucido e polifonico che mi duole non essere riuscito a sintetizzare nella sua ricchezza.
Innanzitutto, si è insistito sul fatto che ogni violenza è un prodotto culturale, sia nella sua effettiva manifestazione (l'intensità, la forma e il bersaglio dell'atto brutale), sia nella sua lettura (il significato e la classificazione etica del gesto). La violenza, come l'amore, ricorre nei diversi contesti culturali. Rappresenta una opzione possibile che viene canalizzata contestualmente in modalità peculiari: varia quindi in maniera cospicua sia la sua manifestazione che il suo livello di accettabilità. L'Italia, ad esempio, è caratterizzata da un livello di violenza relativamente contenuto, combinato ad una sproporzionata copertura mediatica del tema.
Esiste un chiaro legame tra violenza e potere istituito. Questo tende a non ammettere che le sue azioni siano categorizzabili come violenza, presentandole come interventi tecnici necessari. Si occulta – spesso rendendo invisibile il funzionamento delle istituzioni – la crudeltà dei Cie, dei manicomi giudiziari, dei commissariati di polizia o dei macelli industriali. Inoltre, controllando la rappresentazione mediatica, si enfatizza la “violenza” commessa dai movimenti sociali. La rappresentazione delle mobilitazioni popolari, autonome dalle istituzioni politiche, si concentra e spesso si estingue su azioni anche molto blande che vengono criminalizzate come “violente”. L'interruzione di comizi o di riunioni istituzionali, il blocco del traffico ferroviario o stradale, scandire slogan e resistere passivamente vengono presentate come frutto di una furia incontrollata e minacciosa. La possibilità di etichettare queste forme di azione diretta come “violenza” si fonda sulla presunta incommensurabilità tra tali azioni e quelle condotte dalle istituzioni statali: ci viene detto che non c'è un unico metro di valutazione.
Per uscire da queste mistificazioni e comprendere la violenza, questa (a) va riconosciuta in tutte le sue forme; (b) va contestualizzata, ovvero osservata nel contesto che la produce; (c) va esaminata nella dialettica tra ciò che i soggetti individuali e collettivi subiscono e ciò che generano; (d) va distinta in maniera chiara quella contro le persone, gli altri essere animati, le cose. Va inoltre considerato che esistono violenze che si dichiarano esplicitamente e altre che non appaiono come tali, spesso chiamate “violenze strutturali”, quali, ad esempio, il controllo dei media, la concentrazione della proprietà, la disoccupazione, il taglio dei servizi sociali. In questo periodo storico appaiono particolarmente intense le violenze burocratiche e finanziarie che funzionano mediante la silenziosa applicazione delle leggi, il dispiegamento del mercato, la riscossione dei debiti.
In tale contesto, c'è una tendenza diffusa a richiedere ai movimenti sociali un atteggiamento pacifico, assolutamente non-violento. In Italia questo si lega al discorso cristiano che manipola le tematiche associate ad amore, cura, carità. L'associazione tra movimenti sociali e violenza, continuamente ribadita dai media, rischia di minare il consenso generalizzato che le mobilitazioni ricercano.
C'è quindi un dilemma. Da un lato, la non-violenza è ciò che permette ai movimenti sociali di estendersi in maniera inclusiva e rispettosa. Dall'altro lato, guardando alla storia, ogni trasformazione radicale (anche quelle tentate e fallite) ha richiesto una dose non indifferente di violenza. La stessa eliminazione dei circuiti culturali a potere diffuso da parte degli Stati ha preso forme di inaudita violenza, nel massacro dei vari popoli indigeni; nella repressione di luddisti, cosacchi e pirati; nelle azioni militari contro la comune di Parigi e il governo spagnolo nel 1936. L'anarchia non si è mai consolidata in epoca moderna non perché inattuabile ma perché sistematicamente, drammaticamente violentata appena appariva. Per secoli il nesso tra violenza e politica è stato evidente. Il Settecento, l'Ottocento, e il Novecento fino alla seconda guerra mondiale, sono segnati da continue eruzioni di violenza popolare nella forma di insurrezioni, espropri collettivi ai danni degli aristocratici, roghi dei palazzi dei potenti, rivolte per l'accesso agli alimenti, banditismo, vendette e regicidi. La folla in piazza aveva un peso politico perché portatrice di una evidente dimensione di forza latente: la massa agiva politicamente attraverso l'azione diretta.

Il dilemma violenza/nonviolenza

Dal secondo dopoguerra si instaura il dogma, iscritto nelle costituzioni, che politica e violenza sono irriconciliabili: l'unica via per modificare le politiche governative sarebbero il voto e mobilitazioni che esercitano pressione pacificamente sulle istituzioni legittime. Ampissimi settori sociali hanno chiesto movimenti sociali assolutamente pacificati, che si attivino in mobilitazioni innocue, petizioni, ricorsi legali, elezioni. Spesso, però, l'assottigliarsi delle modalità di lotta dei movimenti sociali a quelle ritenute lecite, genera impotenza. Oggi il dilemma si ripropone: di fronte alla potenza dei mezzi repressivi contemporanei, possiamo immaginare trasformazioni radicali senza un ricorso alla violenza? Le insurrezioni tunisine e egiziane, hanno mostrato che, nella prima fase, l'utilizzo della violenza spesso consiste nell'auto-immolazione, nel suicidio come gesto politico (l'Italia è già da qualche anno in questa fase). La fase successiva consiste nell'indirizzare una violenza, blanda ma sistematica, contro la causa del proprio dolore, nella forma di occupazioni, blocchi, manifestazioni non autorizzate (stiamo entrando in questa fase). Quando le istituzioni ritengono che il protagonismo politico popolare mette in gioco la loro tenuta, attivano forme di repressione di estrema violenza, quelle che hanno causato in Tunisia e Egitto centinaia di morti. Se il movimento non viene eradicato, il confronto, nella fase successiva, spesso si gioca in buona parte sulla violenza.
Uno dei principali problemi dell'uso della violenza oggi, oltre all'aggiornato apparato repressivo dello Stato, è trovare bersagli utili, ovvero capire contro cosa abbia senso indirizzarla. In un contesto di politica anonima e di dominio economico delocalizzato proprio dell'odierno sistema neoliberista globale, non ci sono più re da uccidere o capitalisti da attaccare. Danneggiare una banca è un atto che scalfisce i simboli del capitalismo, può essere una denuncia della violenza quotidianamente messa in campo da quella istituzione, ma è un atto ben lontano da generare una trasformazione complessiva e strutturata.
Un secondo problema, è che l'organizzazione della violenza da parte dei movimenti sociali rischia di riprodurne modalità e logiche. Questo appare evidente nelle rivoluzioni comuniste dove la violenza dello Stato è stata replicata dai capi degli eserciti rivoluzionari appena preso il potere. Il contro-potere che imita la violenza sistemica contro cui vorrebbe opporsi, fa nascere enormi e spesso irrisolvibili contraddizioni nei movimenti sociali.

Per non farsi cogliere impreparati

L'antropologia può dare un contributo utile al mondo libertario nella decostruzione dei discorsi egemonici sulla violenza e nel relativizzare l'uso della forza, osservandone l'utilizzo in diversi contesti culturali. Da un processo di ripensamento dialogico e polifonico possono emergere pratiche di uso della forza che siano in linea con un'etica diffusa (e che quindi non generino ripudio sociale) e allo stesso tempo siano efficaci nel sabotare la configurazione attuale dei poteri.
Non sostengo né la bellezza né l'indispensabilità dell'azione diretta violenta. Sarebbe però ingenuo pensare che l'attività politica più efficace sia iscrivibile nello spazio pacificato consentito dalle istituzioni. Il tema della violenza, dopo decenni di tabù, torna a far riflettere e discutere per varie ragioni. Per non farsi cogliere impreparati, sono gli eventi contemporanei ad imporlo. Per trovare percorsi di analisi e prassi condivisa, attraverso un dialogo senza preclusioni, in una galassia libertaria in cui le posizioni sono molto distanti ma spesso non esplicitate. Per riuscire a concepire, e possibilmente costruire, una forza che permetta di difendersi dalla violenza statale. Questa è riuscita a seccare sistematicamente i germogli libertari che si sono timidamente manifestati in questi ultimi secoli. Se dovessero dare nuovi frutti in questi anni imprevedibili, sarebbe scellerato lasciarli devastare senza opporre una seria resistenza.

Stefano Boni

Per chi volesse vedere l'intero dibattito, è disponibile in rete su: www.youtube.com/watch?v=GKQ6Ph6KJCs

Per il programma dell'incontro EASA: http://www.easaonline.org/networks/movement/events/perugia2013.shtml