rivista anarchica
anno 44 n. 387
marzo 2014


 


I vermi
dell'artivista

In quale stato potrebbe capitarvi di vedere poliziotti solidarizzare con l'estrema destra nelle piazze? In quale stato trovereste un'occupazione giovanile che oscilla intorno al 40%?
In quale stato non trovereste stime concordanti riguardo al numero dei morti sul lavoro?
In quale stato potreste assistere a folli spese militari da parte del governo durante un periodo di pesante crisi economica?
Be', se vivete in Italia e per di più siete giovani disoccupati o operai cassa integrati non vi sarà difficile trovare una risposta a questi interrogativi.
E se la situazione del paese vi sembra irreale ancora più strane a riguardo vi potranno apparire le riflessioni di due vermi.
Ora, in molti avranno pensato a due persone di cui hanno molta poca stima, ma qui si parla di vermi... vermi: animali invertebrati caratterizzati da forma allungata.
Vermi di Rouge è il progetto dell'artivista, così gli piace essere definito, Simone Rossoni in arte Rouge, appunto, che racconta le vicissitudini di due vermi, rigorosamente gialli, uno a righe e uno a pallini, che si svolgono sullo sfondo della situazione italiana e internazionale.
Un progetto che inizia come un passatempo, ma che presto diventerà per l'autore un'esigenza; molte le vignette satiriche realizzate: 536 ad ora.
Sfogliando le tavole di Rouge vi divertirete a vedere l'evoluzione, non solo grafica, dei suo “personaggi”; li ritroverete coinvolti in diverse situazioni dal G8 di Genova, passando per la Palestina e la Siria, fino ad arrivare in Val di Susa.
Comunque i suoi vermi non si sono accontentati della carta stampata, presto hanno deciso di uscire allo scoperto e di arrampicarsi su muri e pareti.
Se abitate a Milano non potrà certo sfuggirvi il lavoro realizzato sul muro all'entrata del centro sociale Torchiera, dove compare un grosso verme, giallo e sorridente, accompagnato dalla frase: “Sarà una risata...”.
Se invece vi venisse voglia di farvi una pedalata in mezzo alle campagne dovreste assolutamente passare da Castellazzo de Barzi, una piccola frazione di Robecco S/N, dove i vermi hanno addirittura esagerato, con un murales di 2,5x25 metri. L'opera, che rappresenta una strada circondata dal granoturco, vuole tenere alta l'attenzione sulla costruzione della Toem (Tangenziale ovest esterna Milano), prolungamento della Tangenziale est, in un territorio prevalentemente agricolo.
Una delle loro ultime uscite pubbliche si può ammirare all'esterno del centro sociale Sos Fornace di Rho, con un dipinto di 60x3 metri, dove i nostri due invertebrati se la vedono con il letale eternit.

A partire dal 2011 i vermi danno vita a una collana dal titolo Vermi: una società che striscia, edita da La Memoria del Mondo Libreria Editrice.
Il primo libro della serie dal titolo Io “disegno di legge” (ovvero il pacchetto sicurezza), raccoglie le tavole realizzate da Rouge in risposta alla redazione del decreto legge n. 733B, il famoso “Pacchetto sicurezza”. All'interno del libretto troverete ogni vignetta accompagnata da un testo che illustra le vergognose modifiche normative introdotte dal decreto.
Non passa molto tempo che arriva in libreria I vermi, la guerra e i diritti umani. Il volume è suddiviso in due parti: la prima ospita i lavori che raccontano la guerra nelle sue diverse forme, la seconda invece raccoglie una serie di vignette sui diritti umani.
Ma se il proverbio dice che non c'è due senza tre... il 1 maggio 2013 esce In quale Stato? Vermi, una società che striscia. Vol. 3 (2013, pp. 48, e5,00): un vero tributo ai lavoratori.
Nel libro sono raccolte alcune tavole che ci raccontano di precariètà, diritti negati, privilegi e sfruttamento, il tutto condito con la solita ironia dei vermi.
All'interno troverete anche diverse fotografie di alcune opere di street art.
Prima tra tutte il bellissimo dipinto che dà il titolo al volume e che si può ammirare sulle pareti del circolo arci Paz di Castano Primo (Mi) realizzato a quattro mani con Giorgio Aquilecchia. L'opera riprende il famoso quadro di Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il Quarto Stato, anche se stavolta al posto dei consueti lavoratori in marcia troverete dei vermi che strisciano con le tasche vuote.
“In quale Stato?” è una raccolta di sensazioni e di impressioni sul nostro tempo; un'opera socialmente impegnata e consapevole.
Un libro che come ricorda l'autore non ci darà risposte, ma solo altre domande, ricco di “riflessioni e sfoghi personali. Il tutto farcito con dei bei sorrisi. Sorrisi a denti stretti, strettissimi, praticamente digrignati.”

Camilla Galbiati



Alle radici dell'odio
contro i diversi

Riassumere poco meno di cinquecento pagine non è compito agevole, ma il libro di Theodore S. Hamerow Perché l'olocausto non fu fermato (Feltrinelli, Milano 2012, Universale economica, pp. 491, € 14,00) è una lettura da segnalare perché tratta in modo quasi esaustivo l'insieme delle cause che portarono allo sterminio nazista degli ebrei. Il “quasi” è d'obbligo, rimane infatti il lato d'ombra di un odio, che pur palesemente costruito nei secoli, sembra mantenere non poco di inspiegabile, proprio in quell'accanirsi a infierire, che travalica le circostanze storiche, politiche e sociali riguardanti un gruppo.
La costruzione dell'odio contro i diversi è forse indice di una paura, e proprio per questo con più facilità lo si comprende e condanna, ma odiare un intero popolo, anche quando i suoi membri sono palesemente integrati e spesso nemmeno distinguibili da altri cittadini, è cosa ben meno chiara. Gli esempi che vengono in mente non per caso inquietano, e sono quelli dell'odio razziale per i neri, perché neri, e della misoginia che giunge all'omicidio diffuso di donne adulte e in certi paesi al femminicidio di feti femmina e neonate, solo perché di sesso femminile, con aborti selettivi o uccisione alla nascita. Si parla quindi di una non accettazione estrema che colpisce qualcuno per ciò che è, non per quello che fa.
Tutti ci siamo posti la domanda sul perché non fu fermato l'olocausto. Ci sono prove, inoppugnabili, che i governi alleati sapevano molto, di certo dal 1942 sapevano quasi tutto, e Hamerow lo documenta in questo libro, ma la realpolitik e le sorti incerte della guerra divisero uomini di stato, parlamentari e la stessa opinione pubblica. Il dibattito fu vivace e ricorda molto quello attuale sulle sorti dei migranti, ma anche nel migliore dei casi, non ci fu allora una presa d'atto dell'urgenza di salvare vite indifese. Solo la sinistra radicale, negli Stati Uniti, si espresse con veemenza e coraggio più volte, ma rimase l'eccezione.
Gran Bretagna, Usa, Canada e la stessa Unione Sovietica temevano, nelle figure di chi governava o era in parlamento o a capo del partito, l'accusa di essere manipolati dai banchieri ebrei e dall'altro lato, gli ebrei delle classi privilegiate non volevano essere indicati come una setta che teneva le redini dei governi agendo nell'ombra con l'influenza del proprio denaro. Venne così sminuita o occultata la realtà delle deportazioni che riguardavano la maggioranza della popolazione ebraica degli stati dell'est Europa.
Gente povera quest'ultima, spesso poverissima, che da secoli era parte viva di villaggi sperduti dove non mancavano pogrom pesanti né le persecuzioni di ogni giorno.
Le fondamenta dell'odio risalivano a molto indietro nel tempo, ma ancora negli ultimi decenni del XIX secolo e nei primi del XX secolo qualunque cosa gli ebrei facessero venivano accusati delle cose peggiori: quando l'impedimento a scegliere e a praticare un mestiere li portava a prestare del denaro a interesse, erano usurai dipinti a tinte fosche, l'avidità a segnarli perfino nei tratti somatici; quando sceglievano la fratellanza universale, e furono tantissimi i rivoluzionari usciti dai ghetti, erano fautori di un complotto comunista per distruggere le radici dei paesi cristiani; quando raggiunsero, più tardi, i vertici nelle professioni aperte ormai anche a loro, miravano a impossessarsi del mondo eccetera.
Molti scelsero, a un certo punto, di essere, non più ebrei, ma tedeschi, francesi, inglesi. L'integrazione non era una parola, ma un fatto. Questo fatto, quando fu evidente che le loro capacità li portavano ai vertici delle professioni, gli venne ritorto contro.
Pensatori e scrittori di destra e a volte (duole dirlo) di sinistra fecero sponda o adottarono una linea ambigua, contro cittadini della loro stessa nazione, ma di diversa religione.
Se in Francia erano apertamente antisemiti alcuni tra gli intellettuali più noti vicini all'Action Francaise, meno conosciuta ma altrettanto contorta è la posizione di scrittori e pensatori di fede democratica e progressista, di cui H.G. Wells autore della Macchina del tempo è un esempio. Wells scriveva nel 1936: “Quello che tiene insieme [gli ebrei] è una tradizione biblica. talmudica ed economica. La solidarietà è stata loro imposta dall'ostilità che la loro tradizione provocava. È una tradizione che dà grande importanza all'avidità materiale.” Di conseguenza essi: “Arrivano si infiltrano prendono il controllo” (p. 113). Per Wells l'ebreo è sempre uno straniero con una mentalità straniera, non interessato al bene comune e ad essere un buon cittadino (p. 114). Lo scrittore inglese avrebbe potuto essere smentito con facilità, ma si vede ciò che si vuole vedere e spesso non si verificano le affermazioni, né si chiede a chi scrive di esporre le prove di quello che crede reale.
Tutto sprofonda in generalizzazioni che risultano comode quanto efficaci sui lettori superficiali e sulle masse. Se avete dei dubbi pensate ai luoghi comuni razziali su neri e arabi o a quelli di genere per le donne. Confutati, riprendono vigore di volta in volta, spesso come storielle che assumono l'osceno sapore della pura denigrazione. Tale è il potere di chi parla da una posizione di privilegio.
I leader occidentali, a conflitto iniziato, consapevoli che si stava attuando di fatto uno sterminio, scelsero di dare priorità alla guerra. Vincere e quindi fermare quella macchina di morte che era il nazismo fu considerata l'unica soluzione. Colpirono le città tedesche e gli impianti industriali, e indebolirono il Reich, ma non vennero bombardate le linee di comunicazione da cui dipendevano i nazisti per i loro trasporti di essere umani destinati alla morte.
Hamerow non tralascia alcun aspetto del dibattito di allora. Le domande bruciano anche adesso.
L'autore non si scaglia contro le democrazie, né contro l'Urss. Esamina ogni volta, anno per anno, le ragioni di ognuno, i fatti, i rapporti di forza e le leggi in atto in tema di immigrazione ed emigrazione. Si ha l'impressione che fin dal 1933 qualcosa sfuggì ai politici, alla stampa e alle persone comuni di ogni ceto e certo sfuggì che gli effetti delle persecuzioni razziali potevano assumere anche forme più cruente. Anche dopo il 1941, per i cittadini delle democrazie, male informati, lo sterminio scientifico di esseri umani a milioni non era nemmeno pensabile.
I paesi europei, non governati dai fascisti, ma lo stesso vale per gli Usa e l'Urss, avrebbero potuto e dovuto impegnarsi di più, ma tacque chi sapeva per timore di essere indicato come una marionetta dei banchieri ebrei e la classe agiata e parte dell'intellighenzia ebraica a loro volta rimasero quasi silenti perché non si dicesse che avevano voluto la guerra.
A discolpa parziale delle persone comuni resta la tragedia di un conflitto che travolse l'intero continente gettando tutti nella confusione e ancora prima, va ricordato, pesò non poco la complessità di una crisi economica devastante che finì per dare forza al nuovo totalitarismo di Hitler. Quando la realtà dello sterminio fu rivelata era ormai tardi.
Sui sensi di colpa, ancora vivi, delle nazioni e delle popolazioni coinvolte si potrebbe dire molto, tuttavia l'antisemitismo non è finito con i milioni di morti. Qualcosa di tenace resiste, come un tanfo, un odore che risale il tempo rivelando un bisogno di capri espiatori (ebrei, rom, donne, bambine, gente di colore) non per un atavico bollore del sangue che mai è stato provato, ma per mancanza di pensiero, parola e sentire liberi, dove libertà è riuscire a pensare gli altri non come massa o gruppo, ma solo nella singolarità del loro essere nel mondo.

Nadia Agustoni



Una cassetta degli attrezzi per
l'auto-educazione

Elèuthera ha da poco pubblicato una nuova edizione del Lessico minimo di pedagogia libertaria (pp. 176, 14,00) di Filippo Trasatti. Ne riprooduciamo qui la prefazione di Francesco Codello.

La storia dell'educazione libertaria è ai più sconosciuta. Ma questo patrimonio di idee ed esperienze è vivo e concretamente sperimentato in diverse parti del mondo. Anche questa realtà attuale è perlopiù sconosciuta sia dal grande pubblico che, e questo è più preoccupante, dai cosiddetti addetti ai lavori (insegnanti, educatori, genitori). Non parliamo poi delle sedi ufficiali del sapere pedagogico, come le università e gli istituti scolastici di vario ordine e grado, che beatamente ignorano (tranne poche eccezioni) questa ricchezza sia storica che esperienziale.
Nonostante tutto questo occultamento, talvolta ideologico talvolta semplicemente ignorante, se noi entriamo all'interno del dibattito pedagogico attuale possiamo riscontrare che molte delle tradizionali intuizioni libertarie sono diventate patrimonio comune: la coeducazione dei sessi, l'obiettivo dello sviluppo armonico e integrale della personalità, il fare come condizione indispensabile di un apprendimento profondo, un certo antiautoritarismo e una relazione più rispettosa dei tempi e dei progressi dei bambini/e, ecc. Ma l'acquisizione di idee e la progettazione di interventi coerenti con esse, non ha impedito una sottile ma più profonda deriva autoritaria nel sistema di istruzione e di educazione più diffuso. In sostanza, il portare a sistema organizzativo strutturato, pratiche e intuizioni educative innovative rispetto al passato, sembra non aver prodotto una profonda trasformazione in senso autenticamente libertario delle relazioni educative e di istruzione oggi praticate nei diversi contesti istituzionali. Se quindi da un lato possiamo cogliere una nuova sensibilità terminologica, tale da indurci a pensare che l'antiautoritarismo sia divenuto pratica comune e accettata, dall'altra non possiamo non individuare una deriva concretamente autoritaria nei contesti educativi.
Il motivo principale di questo fatto risiede, a mio giudizio, innanzitutto nell'impossibilità di inserire pienamente stili, contenuti, forme, relazioni, di marca autenticamente libertaria, in un sistema organizzato e strutturato autoritariamente come è quello appunto scolastico, famigliare, esperienziale attuale. Ma soprattutto perché una autentica rivoluzione copernicana del rapporto educativo tra adulto e bambino/a non solo non è avvenuta ma, anzi, viene sistematicamente ignorata quando non apertamente osteggiata. Infatti nelle discussioni e nelle sperimentazioni (ormai poche per la verità) in ambito educativo e di istruzione l'attenzione è sempre più posta sull'innovazione tecnologica, sulla didattica strumentale, sulla necessità di classificare i comportamenti dei bambini/e e alunni/e in modo sempre più preciso e puntiglioso, su una valutazione che si vuole meritocratica, su modelli organizzativi sempre più frammentati e segmentati, su ingegnerie tecniche volte a razionalizzare costi e tempi, ecc. Poco spazio è rimasto a quelle pratiche attive che avevano aperto uno spiraglio di luce per superare modalità frontali di educazione e istruzione.
Ciò che è prevalso ormai, è una definitiva impostazione sottilmente gerarchica, che ha ampliato una realtà fortemente adulto-centrica nella relazione educativa e istruttiva. Sostanzialmente si tratta del trionfo della gerarchizzazione adulto-bambino non più fondata su una evidente forma di autoritarismo ma, piuttosto, su suadenti e condizionanti strumenti sofisticati che comunque non annullano, anzi ampliano, la supremazia dell'adulto. Anche operatori, insegnanti, genitori, politicamente progressisti, non escono quasi mai da uno schema di questo genere. I tempi, gli spazi, l'organizzazione dei contesti, rispondono ancora di più alle esigenze e ai bisogni, ma anche al ruolo codificato, degli adulti, intorno ai quali vengono piegate le esigenze dei più piccoli. Insomma la centralità è posta, nella realtà e con buona pace delle dichiarazioni d'intento, sull'insegnamento (spazio dell'adulto) e non sull'apprendimento (spazio del bambino/a). La vera e profonda rivoluzione consiste infatti nel capovolgere per davvero questa logica, partendo dai tempi, dai modi, dell'apprendimento di ogni singolo, attorno ai quali modellare un'organizzazione completamente diversa. Insomma affermare nei fatti la centralità della domanda, dell'incidentalità, della curiosità e della ricerca, condivise, in una relazione autenticamente antiautoritaria. Per fare questo è indispensabile un grande lavoro su di sé, un confronto-ascolto dell'altro da sé, un sistema di osservazione veramente aperto, una continua verifica dei risultati non per declinare inopportune valutazioni docimologiche, quanto piuttosto per ricostruire condivise e concordate nuove ricerche e nuove piste di lavoro.
Queste premesse sono alla base invece di un variegato (sia geograficamente che culturalmente) arcipelago di esperienze scolastiche che si nutrono di una tradizione di pensiero, ma anche di storia, veramente libertaria. Senza ricorrere qui alle tradizionali (e più conosciute in ambito libertario) sperimentazioni di Paul Robin, Sébastien Faure, Francisco Ferrer y Guardia, Lev Tolstoj, e altri educatori raccontati in ambito storiografico, a partire dal 1921 con la fondazione della scuola (ancor oggi funzionante) di Summerhill in Inghilterra da parte di Alexander Neill, si è sviluppato un insieme di realtà che ormai sono diffuse in tutti i continenti, sostenute da periodici incontri sia a livello mondiale (International Democratic Education Conference, Idec) che europeo (European Democratic Education Community, Eudec), che italiano (Rete per l'educazione libertaria, Rel). Queste scuole hanno in comune alcune caratteristiche fondative: democrazia diretta e paritaria nella formulazione delle decisioni intorno alla vita scolastica, facoltatività della partecipazione alle lezioni, apertura totale al contesto ambientale come presupposto indispensabile per l'apprendimento attivo e partecipe, relazione egualitaria tra adulti e bambini/e, ragazzi/e, valutazione condivisa e non selettiva del percorso di apprendimento, molteplicità e varietà dei curricoli, gestione non violenta e partecipata dei conflitti, molteplicità metodologica, non confessionalità religiosa e/o ideologica, ruolo di facilitatore dell'insegnante.
Accanto a queste realtà alternative al sistema di istruzione ufficiale e tradizionale, numerose sono ancora le energie positive che, singolarmente o in piccoli gruppi di resistenza, si impegnano all'interno di contesti più strutturali e istituzionalizzati, cercando di creare piccole aree di libertà e di autonomia, consapevoli che comunque è il Sistema nel suo dispiegarsi che va radicalmente modificato.
Come è facile intuire in questa contrapposizione tra le due prospettive così radicalmente diverse dell'intendere la relazione adulto/bambino, ci sono zone grigie, contaminazioni, possibili interferenze e inferenze, confusioni (si pensi ad esempio al mal inteso senso di “giovanilismo” genitoriale, oppure alla facile confusione tra permissivismo e libertà), che rischiano seriamente di produrre devastanti conseguenze proprio nei confronti dei più deboli. Vi è quindi una permanente necessità, per chi ha autenticamente a cuore un'educazione che sia educare a essere e non a dover essere, di riflettere interiormente, confrontarsi con altri, ascoltare con tutto se stessi l'altro, assumere una postura profondamente rispettosa, saper riconoscere la diversità senza dividere ed escludere, essere se stessi senza pretendere che gli altri siano come noi, e molto altro ancora.
Ecco perché questo libro di Filippo Trasatti, ora alla seconda edizione, è uno strumento di lavoro particolarmente utile e importante. Lo è soprattutto perché, nella sua essenzialità apparente, è uno stimolo e un rinvio a tessere collegamenti, a cogliere la necessità di assumere sguardi diversi, approcci variegati, stimoli vari, utili comunque a ricomporre un equilibrio olistico mai definitivo ma sempre in cammino. Questo lavoro è una specie di cassetta degli attrezzi che educatori, insegnanti, genitori, possono utilizzare per costruirsi un proprio percorso di auto-educazione in senso libertario che ristabilizzi l'ordine di un discorso educativo: educare, ex-ducere, tirare fuori, non plasmare, né riempire, essere non dover essere. Infine è un libro da leggere perché scritto con tutto se stesso, con la semplicità che deriva da esperienze vissute intimamente, senza quel dannoso distacco derivante da una fredda e asettica postura autoritaria, ma anche con quel rigore necessario per ogni ricerca che sia rispettosa dell'altro.

Francesco Codello



Ispirazioni e contraddizioni
dell'anarchismo moderno

Note a margine del volume L'anarchismo oggi. Un pensiero necessario, curato da Luciano Lanza e pubblicato da Mimesis (Milano 2013, pp. 229, 18,00): ideale prosecuzione, sotto forma di annuario, della rivista Libertaria. Il testo di Alberto Giovanni Biuso, membro del comitato scientifico della collana Libertaria, traccia una sorta di filo conduttore tra gli interventi ospitati e offre interessanti chiavi di lettura.

Le dinamiche antropologiche e sociali sono così complesse da rendere perdente ogni riduzionismo metodologico che intenda aggredire la realtà senza prima averla compresa quanto più a fondo possibile. La politica, si potrebbe dire, si è sinora limitata a tentare di trasformare il mondo; è arrivata l'ora di comprenderlo. È infatti solo “agendo su regimi di verità e credenze” (S. Boni, p. 34) che si possono delineare modi e strategie capaci di incidere sulle strutture sociali, trasformandole.
Uno degli elementi di forza e di costante fecondità dell'anarchismo è dunque il suo costituire non un'ideologia ma un approccio metapolitico alla realtà sociale, “una teoria e una pratica della libertà, dell'eguaglianza e della diversità” (L. Lanza, 9). L'anarchismo si fonda infatti su un peculiare concetto di koinonia, intesa non come semplice comunità ma in quanto costante e radicale stare-insieme di individui, strutture, visioni del mondo diverse tra di loro ma convergenti in una pratica della libertà intesa come rifiuto di comandare e di essere comandati, come rinuncia alla volontà di fare da padrone, poiché tale volontà – come sosteneva Nietzsche – “si trova nella profondità del cuore di ogni schiavo. (...) L'anarchia inizia quando impariamo a rinunciare. Rinunciare a cosa? L'ipotesi che possiamo formulare è la seguente: alla rappresentazione metafisica dell'arché”. (M. Amato, 101). L'affermazione di Proudhon secondo la quale “a misura che la società s'illumina, l'autorità regale diminuisce”, si può quindi spiegare in questo modo: “A misura che l'esistenza umana si dispiega esplicitamente a partire dalla Lichtung, e quindi come il lavoro ogni volta finito del disascondimento, la rinuncia all'appropriazione dell'arché fa sì che la regalità finita di ogni uomo possa coincidere con la libera sottomissione alla Lichtung” (Amato, 127), dove sostanza della Lichtung – dell'apertura che si apre nell'oscuro – è la intrinseca convergenza di ciascuno con i molti e della parte con il tutto, senza che i molti e il tutto soffochino la parte e senza che uno solo o un gruppo soltanto possa ergersi a decisore ultimo di ogni conflitto. “Mentre 'comunità' pone in rilievo ciò che è comune, o in comune, quindi una sorta di comune denominatore che ha già sempre inglobato ogni differenza e a cui ogni differenza deve poter essere ricondotta (reductio ad unum), nella koinonia come ancora la intende Aristotele si deve saper leggere non il fondamento che accomuna ciò che ha tendenza a separarsi, ma l'essere-insieme stesso nel movimento, o meglio nella movimentatezza che lo caratterizza propriamente. La traduzione di koinonia dovrebbe quindi essere: essere-insieme” (Amato, 129).
Da questo fondamento discendono alcune ovvie e decisive conseguenze.
La prima è “l'assunto che la libertà di espressione è il germe da cui si sviluppa ogni altra libertà” (P. Adamo e G. Giorello, 91); quella libertà di espressione che fa dire a Chomsky parole assai chiare a proposito del principio che guida da sempre la politica estera degli Stati Uniti d'America, principio che consiste nel “diritto di usare la forza a proprio piacimento”, tanto da concludere che “il nostro desiderio di democrazia sta all'incirca al livello dei discorsi di Stalin sull'impegno russo per la libertà, la democrazia e la libertà nel mondo” (Chomsky, 15 e 16).
La seconda consiste nell'oltrepassamento di ottimismi e pessimismi antropologici che si rivelano sempre più dei miti invalidanti e funzionali soltanto a impedire ogni reale cambiamento, o sul versante di un sempre differito sorgere del 'sol dell'avvenire' o della conservazione inevitabile di ciò che esiste ora. Gran parte dell'anarchismo contemporaneo va dunque certamente oltre Hobbes ma va anche oltre Rousseau, integrando “eguaglianza e differenza al di fuori di uno schema ottimistico sulla natura umana che Rousseau ha idealizzato in contraltare all'antropologia pessimistica di Hobbes, ma di cui fortunatamente il pensiero anarchico più avvertito è esente” (S. Vaccaro, 217).
Superamento dunque di due paradigmi fondamentali della modernità: il contrattualismo e la crescita. Già in uno dei testi fondanti il libertarismo – il Discours sur la servitude volontaire di Étienne de La Boétie – ci si pone con chiarezza a favore della Differenza e contro l'Identità: “È più che evidente come l'impianto teoretico di de La Boétie si ponga ante litteram in direzione ostinatamente contraria ad ogni successiva narrazione contrattualistica, che muove dalla passione della paura per conseguire il duplice risultato di erigere l'Unità del politico e assegnargli una potente legittimità di dominio, dissimulando il tasso di violenza in esso accumulato e economicizzato” (Vaccaro, 138-139). Gli anarchici sono assai sensibili verso un altro paradigma moderno quale “'il mito della crescita', il santuario decrepito del prodotto interno lordo, l'espansione illimitata” (Lanza, 10) e quindi sanno che se nessuna parola è mai neutra e neutrale, il “termine 'crisi', è un dispositivo di potere di tipo nominativo, ovvero influenza la concettualizzazione di ciò che succede, mediante la scelta lessicale, emanata dai media, e fatta propria, con parziale passività, dal corpo sociale. La nozione di 'crisi' ha infatti caratteristiche che si coniugano bene alla visione promossa dai poteri consociati” (Boni, 30). Non a caso Serge Latouche congiunge il paradigma della decrescita con l'esigenza di decolonizzare l'immaginario, vale a dire il metapolitico e il metaeconomico: “Si tratta, una volta usciti dall'illimitatezza dell'economia produttivistica, di costruire una società dell'abbondanza frugale o della prosperità senza crescita. La prima rottura consiste nel decolonizzare il nostro immaginario e quindi uscire dalla religione della crescita e rinunciare al culto dell'economia” (Latouche, 81).
È anche tale varietà di fondamenti, strategie, prospettive a suggerire che quello nel quale siamo immersi è e sarà sempre più – nonostante le apparenze contrarie – il secolo dell'anarchismo, il tempo di una teoria e pratica capace di evitare il feroce autoritarismo del comunismo e l'implacabile diseguaglianza dell'ultraliberismo trionfante: “La resistenza si dà: in tutti i tempi la gente si è opposta al potere, in vari modi, e l'esercizio del potere riproduce sempre le proprie forme locali di resistenza. Grandi insurrezioni contro le strutture di potere possono certamente aver luogo ma, al contrario di quanto credevano gli anarchici, non sono immanenti alle relazioni sociali. Un'insurrezione va a costruirsi attraverso le molteplici e locali resistenze che prendono campo nelle pieghe sociali della vita quotidiana. A questo punto, possiamo affermare insieme ai situazionisti la necessità della 'rivoluzione della vita quotidiana'. (...) È necessario riconoscere che l'insurrezione contro il potere è più frammentata e incerta, emergendo da luoghi differenti, e spesso soggetta a strategici ribaltamenti” (S. Newman, 166). Soltanto rinunciando alle grandi narrazioni sul futuro, solo attraversando la porta stretta del rifiuto di ogni palingenesi a favore dell'azione individuale e collettiva quotidiana che muta qui, ora e subito le forme della vita, solo ammettendo – pur con dispiacere, certo – che “in qualsiasi relazione sociale, anche in una relazione sociale anarchica, a un certo livello ci sarà sempre potere, anche se in quest'ultima (presumibilmente) le relazioni di potere sarebbero più fluide, reciproche ed egualitarie” (Newman, 165), si potrà avere il coraggio libertario di porsi domande di questo genere: “Come possiamo essere sicuri che la rivolta contro il potere non lo riprodurrà semplicemente sotto un'altra forma? può allo stesso tempo una politica rivoluzionaria essere rivolta contro i nostri celati desideri di dominio?” (Newman, 163)1.
La sintesi che ho tentato dei contenuti anche assai diversi di un libro vasto e prezioso non deve tuttavia indurre nell'errore di pensare all'anarchismo contemporaneo – anche solo a quello degli autori qui presenti – come a una scuola unitaria e ben compatta. Tutt'altro. Basta scorrere queste pagine per capire come le analisi non soltanto a volte divergano radicalmente ma siano proprio tra di loro quasi incompatibili (faccio un solo esempio: se Heidegger è uno degli ispiratori dell'eccellente saggio di Amato, lo stesso filosofo è definito da Vaccaro – ancora e stancamente a dir la verità – come senz'altro 'fascista'). E questo accade perché “l'anarchismo moderno è permeato da innumerevoli contraddizioni” (D. Graeber e A. Grubacic, 42). Per dirla con il linguaggio di Kant, l'anarchismo appare più un principio regolativo che costitutivo, ma anche e proprio in quanto regolativo è necessario: “In una tensione perenne e interminabile volta a 'raddrizzare' quel 'legno storto dell'umanità': sforzo eutopico, probabilmente, sempre imperfetto per costituzione, e quindi perfettibile, senza una meta definitiva da raggiungere, pur tuttavia orizzonte imprescindibile per oltrepassare i limiti delle forme-di-vita storicamente date. Priva di questo slancio, l'umanità si condannerebbe a una evoluzione eterodiretta dalla tecnica, cioè da una forma dell'umano reso inconsapevole della propria umanità” (Vaccaro, 206).
Ma c'è qualcosa che sin dall'inizio e ancora oggi – e confidiamo sempre – ha segnato il discorso anarchico come paradigma di una libertà senza padroni: è la volontà di volgere in dubbio e sottoporre a critica tutte le affermazioni. Anche le proprie. È ancora Saul Newman a dirlo con chiarezza, quando fa dell'anarchismo – andando in tal modo ben al di là del filosoficamente corretto – un principio non soltanto politico e sociale ma anche epistemologico e ontologico, un principio che non vuole “semplicemente sostituire un tipo d'autorità con un altro (l'autorità politica dello stato con l'autorità scientifica della ragione) e perciò al posto di un fondamento ne sarebbe messo un altro” (157). Al di là dei padri, ai quali molto dobbiamo, possiamo però “scorgere il vicolo cieco degli approcci positivisti e razionalisti degli anarchici classici, tra cui Kropotkin e Godwin. Dovremmo valutare i discorsi egemonici della verità razionale, della scienza e della morale in tutto e per tutto alla stregua di istituzioni politiche con i loro effetti di dominio” (165). In questo modo l'anarchismo diventa ciò che è, ciò che lo renderà sempre necessario e ben vivo: una forma della libertà senza divinità senza maestri e senza definitive verità.

Alberto Giovanni Biuso

  1. Newman osserva che «si tratta degli stessi interrogativi sollevati da Lacan in risposta al radicalismo del maggio '68: 'L'aspirazione rivoluzionaria ha una sola possibilità, quella di portare, sempre, al discorso del Padrone. È ciò di cui l'esperienza ha dato prova. Ciò a cui aspirate come rivoluzionari è un padrone. L'avrete'» (Il Seminario, Libro XVII: Il rovescio della psicoanalisi, qui a p. 171). Profetico, certamente.



Quel fornaio di
Minervino Murge

Chiarisco subito – per coloro i quali fossero interessati a una lettura storiografica prettamente anarchica del volume di Domenico Cangelli Carmine Giorgio nella storia del sindacalismo rivoluzionario in Puglia (edizioni del Rosone, Foggia 2013, pagg. 180, € 10,00 + spese di spedizione postale, richieste a: anarres56@tiscali.it) – che non vi sono riferimenti specifici poiché il periodo in esame si conclude nel giugno 1914 in coincidenza con la Settimana Rossa quando le Camere del Lavoro di Minervino Murge, Cerignola, Lucera e Bari – che facevano già parte della corrente interna alla CGdL denominata “dell'Azione Diretta” – avevano da poco (gennaio 1913) aderito all'Unione Sindacale Italiana costituitasi a Modena alla fine di novembre del 1912.
Il pregio del libro di Domenico Cangelli sta proprio nell'accendere i riflettori in quel vero e proprio magma vulcanico che era il Psi pugliese – specie nella sua componente giovanile – nella prima decade del novecento. Un magma dal quale è, oggettivamente, difficile distinguere i riformisti dai rivoluzionari; i legalitari dagli antimilitaristi; gli aderenti alla Prima o Seconda Internazionale e costituisce il “brodo di coltura” che consente a intellettuali organici di etichettare quel particolare periodo storico e quel particolare movimento popolare come “marginale”, “ininfluente”, “primitivo”, e in cui spicca la figura del giovane Di Vittorio che – dalle pagine de “La Fiumana” organo della Camera del Lavoro di Bari e provincia (Usi) – a partire dal gennaio 1913 spiega, in modo inequivoco, la sua posizione anarcosindacalista in aperta contrapposizione con il riformismo “votaiolo” e “parolaio” del Psi.
Basato su una mole imponente di dati e riferimenti bibliografici – come documentato dalla bibliografia riportata a margine – il saggio di Domenico Cangelli non si limita a ripercorrere un trentennio di travaglio sociale della Puglia operaia e contadina ma lo inserisce in una “cornice sociale” specifica e documentata: quella nazionale all'indomani dell'unità e, soprattutto, dei “moti” del Matese (1874).
L'opera prende spunto dalle vicissitudini personali – raccolte in una memoria a tutt'oggi inedita – di Carmine Giorgio, un fornaio di Minervino Murge – e attraversa con riferimenti storici precisi e dettagliati l'intero periodo che va dalla “rivolta” di Minervino (1898) alla Settimana Rossa (7-13 giugno 1914). Con particolare riferimento alla violenza – spesso gratuita – delle forze dell'ordine e degli organi di autorità giudiziaria affiancati, in quest'opera disgregatrice, dalla legislazione “compiacente” formulata “ad hoc” di un governo presieduto da chi – come Giolitti – proveniva dalle fila “socialiste”.
La ricostituita sezione pugliese dell'Unione Sindacale Italiana aderente all'Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ait) è impegnata in un – difficile ed impegnativo – percorso di ricostruzione della memoria storica per troppo tempo offuscata da “narrazioni” parziali e fantasiose se non, addirittura, travisate ad uso e consumo di un'unica fazione politica. E sindacale.
Emblematico, in questo contesto, il tentativo posto in essere – nell'estate del 2012 – dalla Cgil con la “complicità” della Fondazione Di Vittorio e l'ausilio tecnico di un “intellettuale organico” – il prof. Vito Antonio Leuzzi – di stravolgere il significato sociale, storico e politico della distruzione della Camera del Lavoro Sindacale (Usi) di Bari – ubicata nella città vecchia – disconoscendo e mistificando il ruolo – preponderante – svolto dagli anarco-sindacalisti e dagli anarchici nella formazione e nella costituzione degli Arditi del Popolo che furono – in tutti i modi – ostacolati non solo dal potere costituito (e dai suoi organi repressivi) ma anche dal Psi, dalla CGdL e dal PCd'I di Gramsci e Bordiga.
A ben vedere – per rimanere ai giorni nostri – dietro il governo delle “larghe intese” si scorge il tragico filo rosso che percorre la storia di un paese nato per “creare un mercato” e cresciuto così, malato dei mali del suo capitalismo “incompiuto”: penuria di capitale per scarsa accumulazione primitiva, nessuna propensione al rischio, frazionamento politico e assenza di un grande mercato interno. L'Italia che Garibaldi unì, insomma, non era un mercato. Mancavano investimenti e smercio e ci pensò lo stato, in mano a un capitalismo molto interessato al controllo delle leve governative. Iniziò così una rapina costante, un travaso ininterrotto di ricchezza prodotta dal lavoro e regalata al capitale dei Lanza e dei Sella, impegnati a “pareggiare il bilancio” per risarcirsi delle spese delle guerre per l'indipendenza. I lavoratori sputarono sangue, pagarono tasse persino sul grano macinato e fu la fame. La finanza, in compenso, divenne “allegra”, e i proventi fiscali finirono alle banche, pronte a sostenere ogni avventura industriale. Quando scoppiò la bolla immobiliare, s'intravidero legami oscuri tra politica e mafia e nel 1893 si scoprì che le banche d'emissione truccavano conti e stampavano banconote false. Non pagò nessuno e cominciarono i salvataggi: le banche fallivano, i lavoratori pagavano e quando la speculazione mise piede in Africa, si andò alla guerra. Nessuno ha calcolato mai quanto c'è costata in oro, sangue e civiltà l'avventura del cattolico Banco di Roma nel mare di sabbia libica, mentre il Sud mancava d'acqua e lavoro. Da Adua all'Amba Alagi, passando per l'ignominia di Sciara Sciat, la Spagna martoriata, la tragica Siberia e da ultimo l'Afghanistan, chi cercherà notizie serie sul debito di cui cianciano gli economisti, dovrà andare a cercarle tra i bilanci delle banche e incrociare i dati con quelli dello stato. Altro che welfare. Qui da noi, la storia del capitale oscilla tra avventure, salvataggi e lavoratori strangolati. Gronda sangue. Anche la Comit è stata salvata: oggi si chiama Intesa e ha ministri al governo.
Valga per tutti quanto formulato in un vecchio manifesto antiprotezionista formulato – giusto cent'anni fa! – dall'Usi e riportato su “La Fiumana” organo ufficiale della CdL Sindacale di Bari e provincia che sembra adattarsi perfettamente al presente: “I nuovi briganti sono rappresentati oggi in Italia dagli industriali e dagli agrari protetti. Costoro però non vivono nella macchia in attesa di poter aggredire il viandante, ma alla luce del sole: occupano i migliori posti nella vita pubblica italiana ed hanno a loro disposizione i poteri dello stato (...) agrari, zuccherieri e siderurgici dal 1887 impunemente possono comandare alla nazione italiana; per il governo borghese che tiene il sacco alle loro rapine quotidiane; per la stampa prezzolata che sostiene con menzogne la necessità di mantenere il privilegio camorristico dei zuccherieri, degli agrari e dei siderurgici; per il popolo che ignora, tace e subisce. I guadagni dei briganti sono superiori ad ogni immaginazione. 18mila latifondisti – mercé la protezione – truffano al popolo italiano oltre 40 milioni; sei società siderurgiche – mercé la protezione – truffano al popolo italiano 260 milioni all'anno.”

Pasquale Piergiovanni



Tutto il potere
ai soviet

Negli ultimi giorni del febbraio 1917 aveva inizio il rivolgimento che andrà a condizionare più di ogni altro evento la storia del XX secolo, la rivoluzione che abbattendo l'autocrazia zarista voleva trasformare la dissoluzione dello sterminato impero russo nel faro che portasse alla liberazione e all'autodeterminazione dei lavoratori e di tutti i popoli oppressi. L'insurrezione, cominciata nelle strade di Pietrogrado, si trasmise immediatamente alla vicina Kronštadt, la città-fortezza posta a difesa della capitale, dove si trovava una concentrazione dei rivoluzionari più radicali e intransigenti dell'intera Russia.
I soldati e i marinai presero il potere, regolando rapidamente i conti con la feroce gerarchia militare che li aveva oppressi fino a quel giorno, e trasmisero il potere al soviet, esercitando un continuo controllo dal basso sul suo operato. Tra i membri del soviet c'era Tomasz Parczewski, polacco di Russia (non esisteva allora una Polonia indipendente) insegnante di ginnasio e, contro ogni suo desiderio, ufficiale dell'esercito russo in quei giorni di guerra contro gli Imperi centrali.
Parczewski è un testimone prezioso degli avvenimenti accaduti a Kronštadt durante quegli anni tumultuosi, sia per la sua estraneità agli schieramenti politici (nel soviet aderiva ai Senzapartito) sia per il suo tentativo, da uomo di studi filosofici e letterari, di raccontare imparzialmente gli eventi.
La storia rivoluzionaria di Kronštadt fu del tutto straordinaria: sin dall'inizio fu attuata dal basso quella rivoluzione socialista (nel senso ampio e liberatorio che aveva al tempo, non quello immiserito imposto dalle pestilenziali ideologie del '900), che portò rapidamente alla rottura con il governo provvisorio e, come conseguenza di quello scontro, all'elezione di Parczewski a governatore dell'isola.
I rivoluzionari di Kronštadt si batterono senza sosta contro il potere di chi voleva che la guerra proseguisse e cercava di impedire ai contadini russi di prendere possesso della terra, e furono in prima fila nella Rivoluzione d'ottobre, forse impossibile senza i marinai della flotta baltica. Quella che doveva essere la liberazione definitiva dai vecchi padroni portò invece al potere non il popolo lavoratore ma il Partito comunista, i suoi commissari e la sua polizia politica, la eka di Lenin. L'amara disillusione dei rivoluzionari di Kronštadt divenne, nel marzo 1921, aperta rivolta contro i bolscevichi, un'insurrezione che l'Armata rossa di Trockij spazzò via con un enorme massacro.
La testimonianza di Tomasz Parczewski (Kronstadt nella Rivoluzione russa, Edizioni Colibrì / Candilita, pp. 311, € 14,00, traduzione di Alina Maria Adamczyk, a cura di Giuseppe Aiello), rifugiatosi nella Polonia divenuta indipendente, fu stampata nel 1935, tre anni dopo la morte dell'autore ed è rimasta pressoché sconosciuta, mai tradotta e scarsamente citata. Questa prima traduzione dal polacco è corredata da un apparato di note per restituire una completezza alla dimensione storica della narrazione, e vuole contribuire con un tassello fondamentale alla ricostruzione di quel tratto di storia volutamente nascosta e mistificata dalla storiografia ufficiale che Volin chiamò Rivoluzione sconosciuta.

Giuseppe Aiello



Camillo Berneri
né santino né liberale

Le edizioni Zero in condotta pubblicano in una nuova edizione il volume Camillo Berneri. Scritti scelti (pp. 322, 20,00), con introduzione di Gino Cerrito, prefazione, note e biografia di Gianni Carrozza.
Camillo Berneri, nato il 20 maggio 1897 a Lodi, laureato in filosofia, aderì al movimento anarchico nel 1916, dopo aver militato nella Federazione Giovanile Socialista. Per la sua molteplice attività di scrittore, organizzatore e propagandista, subì le persecuzioni del regime di Mussolini che lo costrinse all'esilio nel 1926 prima in Francia, poi in Belgio, Olanda, Lussemburgo e Germania. Ciò non gli impedì un'intensa opera di approfondimento teorico, sui principali temi in discussione nei movimenti rivoluzionari dell'epoca, che trovò ospitalità prevalentemente sulla stampa editata dalla diaspora anarchica e antifascista in esilio. Accorso in Spagna all'indomani dell'insurrezione popolare contro il colpo di stato militare – prima in veste di organizzatore e di combattente della sezione italiana della Colonna Ascaso poi di animatore delle trasmissioni in italiano di Radio Barcellona e del giornale Guerra di classe – Berneri, per la sua circostanziata denuncia del ruolo controrivoluzionario dei comunisti e dei loro alleati, divenne oggetto della loro rappresaglia. Il 5 maggio 1937, non ancora quarantenne, venne assassinato da una pattuglia della polizia.
I testi raccolti nella presente antologia riguardano un periodo di grande importanza per le vicende politiche e sociali che caratterizzano la storia europea del primo trentennio del novecento, dall'opposizione alla guerra del '14-18 all'insurrezione antifranchista del '36 in Spagna, passando per la rivoluzione russa, il biennio rosso, la dittatura fascista.
Riproduciamo qui di seguito la premessa di Gianni Carrozza.
Camillo Berneri

L'antologia che le edizioni Zero in condotta presentano è stata pubblicata nel 1988, in francese, dalle Editions du Monde Libertaire. Gino Cerrito ne aveva curato l'introduzione fin dal 1983 ed è il suo ultimo scritto, che ha preceduto di poco la sua morte. All'epoca, e durante quasi vent'anni, è stata la più completa antologia di scritti berneriani.
Ma perché presentarla oggi? Occorre fare un passo indietro per comprendere il modo in cui Berneri è stato conosciuto e vissuto dal movimento anarchico. Durante la sua vita, la quasi totalità dei suoi scritti (con l'eccezione di alcuni opuscoli) appare sui giornali anarchici, soprattutto di lingua italiana, ma anche spagnola, francese, inglese, ai quattro angoli del mondo e principalmente in Europa, Stati Uniti, America Latina. La sua fama di intellettuale militante comincia a diffondersi nella prima metà degli anni '20, ma la maggior parte dei suoi scritti circola sull'onda della diaspora anarchica e antifascista italiana nel mondo.
Se i giornali anarchici di lingua italiana lo ospitano volentieri sulle loro colonne, non avrà quasi mai la possibilità di fare una pubblicazione veramente “sua”, una pubblicazione che esprima non soltanto il suo punto di vista su questo o quel problema specifico, ma una visione d'insieme, una visione del mondo. Ci proverà, tra mille difficoltà, nel fuoco dell'azione, in Spagna, con Guerra di classe, ma l'esperienza sarà interrotta dalla sua morte. Si aspettava comunque che questa interruzione si producesse per effetto della stessa censura che aveva tagliato i fondi a giornali come L'Espagne Antifasciste, le cui analisi critiche davano fastidio al gruppo dirigente della CNT.
Tutta la stampa anarchica internazionale si riempie di articoli sulla sua morte, sul suo pensiero, sulle sue prese di posizione. Lo scritto più completo e acuto è quello di Max Sartin (Raffaele Schiavina) sull'Adunata dei Refrattari, che tanti articoli di Berneri aveva pubblicato. Possiamo datare la tendenza a trasformarlo in icona, in santino, che ha prevalso poi per molti anni, a partire proprio da questo scritto. A partire da questo momento Berneri non è più uno che discute di tutto e con tutti, ma diventa il martire dell'anarchia, il simbolo della rivoluzione spagnola assassinata alle spalle dagli stalinisti, diventa il simbolo dell'intransigenza anarchica di fronte al ministerialismo del gruppo dirigente della CNT e la sua “Lettera aperta alla compagna Federica Montseny” farà il giro del mondo.
L'anno dopo, il comitato Camillo Berneri pubblica a Parigi la prima antologia postuma (Pensieri e battaglie), con una introduzione di Emma Goldman, e nel 1939 esce a Barcellona l'antologia Ensayos. La fine della guerra di Spagna e il successivo scoppio della guerra mondiale inghiottirà nella tempesta tutto quello che tenta di andare oltre il tentativo di sopravvivere da parte degli anarchici scampati alla barbarie nazista, fascista, stalinista e alla repressione più soft e selettiva (ma non meno efficace) dei paesi democratici.
La tendenza a farne un santino perdura in Italia nel dopoguerra, accentuata dal fatto che i giornali su cui Berneri scriveva sono diventati introvabili e dalle riedizioni dei suoi testi politicamente più innocui e meno controversi. Dall'altro lato alcuni militanti più giovani, Masini in testa, tentano di utilizzare l'autorità morale di Berneri e pubblicano alcuni opuscoli riesumando scritti che hanno un forte odore di zolfo: parlare del rispetto che Berneri nutriva per Gramsci ad un movimento arroccato sull'anticomunismo, rievocare la polemica sulle elezioni che aveva preceduto quelle spagnole del 1936 parlando di “cretinismo anti-elettorale”, rimettere in discussione l'anticlericalismo virulento che era una parte costitutiva dell'identità anarchica nell'Italia del dopoguerra, poteva sembrare un'operazione iconoclasta. Lo era, nel senso che dava una scossa ad un movimento arroccato sulla propria identità, ma l'operazione non permetteva di conoscere meglio né Berneri né il contesto in cui questi scritti avevano visto la luce. Ma soprattutto non poteva risolvere i problemi che erano all'origine della crisi dell'anarchismo del dopoguerra.
Un primo contributo alla conoscenza di Berneri viene ancora da Masini, con Pietrogrado 1917 - Barcellona 1937, ma da un Masini profondamente cambiato rispetto a quello che aveva partecipato ai GAAP (Gruppi Anarchici di Azione Proletaria) nel decennio precedente. Fino all'uscita di questa antologia, di Berneri si conosce molto poco: si sa che è stato assassinato in Spagna e gli articoli che appaiono di tanto in tanto sulla stampa libertaria ne tengono viva la memoria ed il mito. Del suo pensiero si sa ancora meno.
A partire da questo momento si comincia a cercare di ricostruire la biografia di Berneri, il contesto del movimento, a cercare di capire chi sono i suoi interlocutori. Il convegno di Milano del 1977, la tesi di Paco Madrid pubblicata da Aurelio Chessa nel 1985, la Memoria antologica pubblicata sempre da Chessa nel cinquantesimo anniversario della sua morte, hanno il merito di riaprire la discussione sulle discutibili (e discusse finché era vivo) opinioni di Berneri. Punti di vista diversi trovano il modo di esprimersi, ma a partire dalla fine degli anni '80 si afferma la tendenza a leggere Berneri più come un liberale atipico che come un militante anarchico che esprime una concezione propria, originale, dei problemi che tratta. I capitoli dedicati a Berneri in studi più generali prodotti da Nico Berti, gli interventi di Pietro Adamo sono alla punta di questa tendenza. L'antologia di scritti editi e inediti curata sempre da Adamo offre un'analisi della formazione e delle opzioni culturali del nostro, sempre in questa chiave. Senza parlare della caricatura che viene fornita da un certo Carlo Lottieri, che lo arruola sfacciatamente – insieme a Francesco Saverio Merlino – fra i predecessori dei cosiddetti “anarcocapitalisti”. Onda lunga dell'implosione dell'Urss? Sintonia con il pensiero unico dominante? Una cosa non esclude l'altra, ovviamente, ma sembra che gli effetti tocchino in pieno anche il cuore del movimento anarchico attraverso alcuni prestigiosi docenti universitari. Questa tendenza trova una conferma nello studio biografico di Carlo De Maria – sicuramente il più serio e completo pubblicato fino ad oggi – e negli interventi che questi studiosi hanno fatto in vari convegni degli ultimi anni.
Manca a tutt'oggi una raccolta seria degli scritti che permetta di uscire da una lettura ideologica di testi berneriani, che spesso vengono letti, selezionati ed utilizzati come pezze d'appoggio per convalidare le chiavi di lettura degli uni o degli altri. Solo una raccolta di scritti, se non generale, almeno degli scritti politici, intorno a cui venga ricostruito il dibattito militante dell'epoca in cui questi sono stati prodotti, permetterebbe di fare un salto di qualità e di ridare all'opera di Berneri quello spessore analitico, etico, militante che finora solo pochi topi di biblioteca hanno potuto apprezzare nella sua complessità.
Merita di essere segnalato uno scritto sintetico di Claudio Strambi, che esprime un punto di vista opposto, e che a mio avviso coglie bene il senso dell'attività intellettuale e militante di Berneri. La scheda biografica che gli è stata dedicata nel Dizionario biografico degli anarchici italiani tenta una ricostruzione equilibrata dei passaggi nodali della sua esistenza, richiamandone le caratteristiche politiche fondamentali.
Va detto infatti che è proprio Berneri ad aver facilitato una lettura contrastata di sé stesso. La quasi totalità dei suoi articoli ha un carattere frammentario, è legata a problemi e momenti precisi della sua epoca, si inquadra molto spesso dentro discussioni o polemiche che si sviluppano sulle colonne della stampa libertaria. È ovvio quindi che, a seconda dell'interlocutore, del momento storico, del dibattito politico, possa dire cose diverse e con qualche estrapolazione, qualche citazione estratta dal contesto, qualche brogliaccio o appunto trovato in un archivio, gli si possa far dire più o meno tutto quello che l'autore desidera leggere. L'inesistenza di uno o più lavori d'insieme che pongano rimedio a questo stato di cose ci riporta alle difficoltà, alle contraddizioni e alle debolezze del movimento anarchico qual è stato fino ad oggi in Italia.
Veniamo quindi alla nostra antologia, che, pur non colmando i vuoti e le insufficienze di cui abbiamo parlato, è un passo importante che il pubblico italiano non aveva ancora a disposizione. Essa rappresenta l'ultimo tentativo in ordine di tempo di ridare la parola allo stesso Berneri, con una scelta ampia di scritti pubblicati quando era vivo, che spazia su tutti gli aspetti della sua produzione politica e permette di farsi un'idea della consistenza del suo lavoro. Non è soddisfacente, certo, e ci auguriamo che questo lavoro venga rapidamente superato da ulteriori ricerche e pubblicazioni.
Se dovessimo segnalare al lettore qualcosa che caratterizza più di tutto il pensiero di Berneri, potremmo dire che la sua scelta rivoluzionaria è critica viva, è desiderio di non accontentarsi dell'esistente, è una spinta ad andare più lontano a partire dalla concretezza delle difficoltà che ci troviamo davanti.
C'è una differenza profonda fra la situazione che conosciamo attualmente nelle società occidentali a capitalismo maturo e quella che ha preceduto l'ultima guerra mondiale. Per capire l'azione e le varie posizioni di Berneri non si può fare astrazione dalla prospettiva concreta e costante di avviare la rottura rivoluzionaria, cercando tutte quelle soluzioni che la rendono possibile per le élites rivoluzionarie, desiderabile e realizzabile per la maggioranza del proletariato, migliore della società esistente per l'umanità intera. Questa prospettiva è talmente presente nell'attività di Berneri (come pure di Malatesta e di buona parte dei militanti della loro generazione) che non ha bisogno di parlarne in modo esplicito. Ma se a 70 anni di distanza vogliamo capire il senso di quel che fa, scrive o dice, dobbiamo fare uno sforzo per tornare a questo elemento che la nostra realtà quotidiana non ci permette necessariamente di sentire come una prospettiva immediatamente praticabile.

Gianni Carrozza



1945/La Sicilia scandagliata
da un giornalista molisano

Nell'autunno del 1945, lo scrittore molisano Francesco Jovine venne in Sicilia per seguire, come inviato del quotidiano romano L'Epoca, i fermenti separatisti che agitavano l'isola. Jovine, autore già noto e apprezzato per il suo romanzo La signora Ava (pubblicato nel '43), e per il suo impegno sociale sui temi e le battaglie del meridionalismo, dal 27 ottobre al 13 dicembre, tenne, per il quotidiano diretto da Leonida Rèpaci, una temporanea rubrica dal titolo Separatismo siciliano e in dieci articoli raccontò storie e personaggi, passioni e umori, grandezze e miserie della Sicilia del dopoguerra.
Nel suo primo pezzo, del 27 ottobre, che ha per titolo “24 ore di repubblica”, Jovine informa che il separatismo in Sicilia è davvero “nell'atmosfera e si giova di cento, mille ragioni, di innumerevoli impulsi sentimentali, delle sottigliezze bizantineggianti degli avvocati, del candore degli illusi, delle torbide mene dei reazionari, degli incoffessati interessi di gruppi politici e di clientele, della rozzezza mentale del popolo”. Ma, constata Jovine, gli effetti concreti che gli agitatori del movimento separatista riescono a realizzare, mischiandosi a briganti e criminali, ai quali chiedono aiuto e sostegno, sono gli assalti a piccoli e spesso remoti e isolati municipi (Falcone, Montelepre, ecc.) e l'instaurazione di fragili repubbliche locali che durano a malapena un giorno, per svanire l'indomani.
Nel pezzo successivo, in “Sguardi verso cielo”, del 31 ottobre, Jovine affronta un tema drammatico per l'isola, denunciando la grave mancanza di energia elettrica, che rallenta la produzione nei luoghi di lavoro; la sera fa assomigliare a catacombe gli alberghi palermitani, con i corridoi e le stanze a malapena illuminate con le antiche “lumere” ad olio; e rende invidiosi i messinesi che al buio, di notte, vedono, “sfolgorante di luce”, Reggio Calabria, al di là dello stretto. “Tutti i giorni la Sicilia ha luce appena sufficiente per prendere coscienza delle sue tenebre”, constata Jovine. Ed è questo solo un aspetto della grave e diffusa precarietà che caratterizza l'isola e che acuisce la voglia di parte del suo popolo di staccarsi dal continente, come continua a mostrare Jovine nel suo articolo del 1 novembre dal titolo “Viva la 49a stella”, ricostruendo storicamente i sentimenti separatistici, nati subito dopo il Risorgimento e ora incanalati in una consistente presenza organizzata, politicamente e militarmente, soprattutto a Palermo, anche se variamente composita. Del movimento separatista, infatti, nel capoluogo vi è un'ala ultra-conservatrice di cui fanno parte “un manipolo di baroni e marchesi decaduti che ronza attorno ai pochi rappresentanti di famiglie principesche dal patrimonio ancora solido”, sotto la guida della principessa Lanza di Trabia (“che è ancora donna piena di fascino, di mente perspicace e incline all'intrigo politico”), che vorrebbe liberare la Sicilia e consegnarla al re; un altro gruppo di latifondisti e nobili parteggia, invece, per il “paternalismo illuminato” del primo sindaco separatista della città, Lucio Tasca Bordonaro, ritenuto un agricoltore modello, che conduce delle tenute con i più arditi ritrovati della tecnica agraria, non dimenticando neppure di preoccuparsi del benessere dei contadini. Tutti però hanno un obiettivo comune e primario: “immunizzarsi dal bacillo rosso” (come recita il titolo dell'articolo del 3 novembre), e fanno proprie le parole pronunciate dal leader maximo del separatismo nell'isola, l'on. Finocchiaro Aprile: “le classi sociali, i partiti, i gruppi politici che paventano il comunismo, se vorranno salvarsi non avranno che un mezzo: fare un blocco e aderire all'indipendenza della Sicilia”.
Per realizzare questo obiettivo e per mantenerlo, annota Jovine in “Maffia che nasce e maffia che muore” (dell'8 novembre) “i separatisti pensano che la Maffia sia sicuramente un elemento di ordine”, poiché “in una regione che soffre della progressiva disgregazione molecolare dei poteri pubblici, in cui domina una violenza armata imponente, sanguinaria, tumultuosa, sorprendente, senza carattere deciso o stabile, sia da preferire un'altra violenza limitata nei fini, nei mezzi, di volto domestico di cui si conoscono il linguaggio e il codice, che ubbidisce a norme abiette, ma tradizionali e inviolabili”. Nota però Jovine che la vecchia criminalità organizzata sta mutando nelle forme, nei metodi, negli obiettivi della sua corsa al denaro e al potere, traendo ispirazione dal gangsterismo di stampo nordamericano.
Esempio di questa trasformazione della Maffia a Jovine pare di vederli in Papuzza, il capo mafia di Adrano, grosso centro agricolo del catanese. Delle sue gesta e della sua ramificata organizzazione (ha tre o quattromila seguaci sparsi in tutta la provincia di Catania, perfettamente organizzati, la maggior parte dei quali vive mescolata alla gente comune, ma ubbidisce fanaticamente agli ordini dell'invisibile capo), Jovine scrive, il 13 novembre, in “Papuzza inaridisce le fonti”. E se Papuzza spadroneggia nella parte orientale dell'isola, a comandare nei grandi feudi della Sicilia centro-occidentale sono i campieri che a colpi di lupara si stanno adoperandosi per rendere vani i tentativi di riforma agraria voluti dal ministro Gullo: e sparano sui contadini che vorrebbero avere la giusta parte dei prodotti dei campi, che hanno coltivato e raccolto col loro lavoro. L'articolo “I campieri sparano dalle alture” (del 15 novembre) dà conto di queste violente intimidazioni e soprattutto della triste vita dei braccianti e dei contadini giornalieri.
Dell'inferno delle miniere, invece, dove non vi è limite d'età in chi vi è condannato a lavorare, a causa della miseria, Jovine parla nell'articolo “Il divertimento del Caruso” (del 17 novembre) raccontando della sua visita alla miniera di Trabonella, dove a colpirlo, tra l'altro, è l'incontro con un ragazzo di dieci anni, di nome Michele Milanese. È “bello, di tenere membra, di viso sottile e dorato con grandi occhi azzurri pesanti e di antichissima malinconia”; ha addosso “come soli indumenti, un paio di mutandine tutte a toppe, incrostate di mota e un cappuccio fatto con un cencio di impermeabile”. Pronuncia una sola parola: 'travagghiu', ma viene subito ripreso dal capomastro che, mentendo spudoratamente, dice allo scrittore che il bambino è lì per giocare a impastare lo zolfo.
Una visita a Catania, poi, diventa l'occasione per constatare come i pochi tentativi dell' imprenditoria locale vengano vanificati dalla burocrazia nazionale: in “Fiammiferi senza fosforo” (uscito il 24 novembre), Jovine racconta la tragicomica vicenda capitata ad un'impresa catanese che vedendosi negare pretestuosamente dal governo l'autorizzazione a produrre fiammiferi, mette ugualmente in commercio, clandestinamente, le poche quantità che aveva già realizzato: solo che questi fiammiferi, viene detto a Jovine, forse perché “adombrati seriamente, per l'ostile trattamento, si rifiutarono d'accendersi, non solo sulle lastre di vetro come si prometteva nella loro confezione, ma finanche sulla carta vetrata”.
È un'isola scandagliata in ogni sua parte, quella che prende corpo negli ampi racconti di Jovine, ricchi di storie e di aneddoti, di rilievi e riflessioni che, ricercando le ragioni dei separatisti, illuminano sulla realtà complessa del dopoguerra, sul feudo e indagano sul carattere e l'identità dei siciliani, sui loro pubblici comportamenti.
Il suo ultimo articolo dalla Sicilia dal titolo “Esportazione dei cervelli”, del 13 dicembre, offre il ritratto del pubblico impiego isolano, della piccola e media borghesia impiegatizia che trasforma il suo ruolo di servizio in potere e crea attorno alla sua funzione, abusandone, clientela e sudditanza, perpetuando così, nel rapporto tra cittadini e rappresentanti dello Stato, modi e mentalità feudali e borboniche. Per questo gran parte dei funzionari siciliani parteggia per il separatismo: vogliono amministrare 'sicilianamente' – secondo i loro interessi e scopi personali – l'isola, allontanando il controllo del centro, del governo e della politica nazionale.

Stefano Livolsi



Parola di
fisarmonicista

“Questo libro che racconta la vita di Jovica Jovic non è scritto per i moralisti, è invece per chi è disposto a contemplare e ad accogliere il valore della fragilità umana, per chi capisce che cos'è l'umanità e la rispetta in tutte le sue manifestazioni”. Così Moni Ovadia mentre dà parola, insieme a Marco Rovelli, alla narrazione della vita particolare di Jovica Jovic (Moni Ovadia, Marco Rovelli, La meravigliosa vita di Jovica Jovic, Feltrinelli, Milano 2013, pagg. 187, € 15,00). Un'esistenza fuori dalle logiche omologanti di quella cultura che continua a farsi carico del pesante “fardello dell'uomo bianco”, presunta depositaria di una missione civilizzatrice ancora da compiere.
Un libro nato dall'incontro di amici intorno a un tavolo di una trattoria di campagna. Condividono il talento per la musica e una visione del mondo che intende contrastare le gabbie di un'ottica ristretta, deformante, miope, discriminante che pesa ancora troppo, soprattutto sulle culture minoritarie, escludendo altri mondi possibili.
“Io sono nato in un bosco”, dice Jovica. “Sono stato partorito da una zingara, io. Sono colpevole. Non ho mai avuto la mia terra. E non si sa da dove vengo e dove vado. Per questo tutti ci disprezzano, perché siamo senza terra”. Ancora: “Io vi ho raccontato tutto di me. Adesso voi dovete scrivere un libro sulla mia vita. Non ho mai scritto un libro, non ho mai pensato di poter scrivere...” Si convince: “E poi a voi vi ascoltano. Se lo scrivete voi questo libro, tutti sapranno che cosa vuol dire essere rom. Sapranno che è anche bello essere rom”.
Una vita inedita, capace di suscitare meraviglia per l'intensità, il gusto e la forza, il coraggio, la tenacia con la quale Jovica sceglie di viverla. Con un bel gesto empatico, gli autori intrecciano parole, frammenti di lettere, favole, profonde riflessioni, ricordi suscitati da vecchie fotografie, dando origine al racconto di una vita che va oltre la dimensione individuale, per abbracciare un più ampio scenario di un mondo “altro”, sfaccettato, complesso, avventuroso, spesso tragico, a volte inafferrabile. Viene restituito un genuino e autentico mosaico corale di tradizioni mai uguali, perché “le diversità tra i rom dipendono da dove sono cresciuti”. Ma tutti accomunati dalla parentela e dalla lingua romanes. Non riconosciuta tra le lingue minoritarie, sopravvive ai margini portandosi addosso i segni di una cultura alla quale non è stato concesso mettere radici.
Jovica è ultimo anello di una catena secolare di musicisti. Una vita con la musica. La musica dentro la vita, si potrebbe dire. Le armi di famiglia, strumenti a corda e la voce: “Un vero cantante deve saper spegnere le fiammelle della lampada”. Il padre Dusan suonava violino e contrabbasso e ha fatto il partigiano. Il bisnonno è morto a centosei anni con il violino in mano e vestito a festa. “La musica tzigana si suona in maniera diversa: non con le note, ma con il cuore”. Ma poi arriva la fisarmonica, e “per avere una fisarmonica, mangiavano la crusca!”. Jovica la imbraccerà presto. A tredici anni avrà già guadagnato il rispetto dei suoi parenti grandi musicisti, per saper suonare i Kolo, la musica delle danze ai matrimoni. Dopo dirà: “C'è forse un modo più nobile di guadagnarsi la vita che offrire la tua musica a chi vuole ascoltarla accettando in cambio da lui quello che liberamente si sente di darti? No, io credo che non c'è”. Nei locali di tutta Europa, suonerà i bottoni della sua nuova Dallapè comprata a Stradella nel 1971. Fidata, inseparabile perché “noi fisarmoniche conosciamo le parole dei poeti”.
Ma il passaporto vero per il mondo, il mestiere di vivere lo apprenderà fin da bambino nell'ascolto religioso delle parole del nonno Mikailo, vecchio e saggio: “La saggezza no: quella dovete cercarla da soli”. Parole da imprimere in testa come un testamento. “Più tardi capii che essere giudicati senza essere conosciuti era il destino secolare del popolo rom”. Così la solidarietà immediata e naturale verso chi dice di essere perseguitato, calunniato, infangato, non creduto diventa la chiave privilegiata per leggere la realtà.
L'intreccio di sette lettere di Jovica rivolte ai lettori, storie cantate che spaziano tra genti diverse del suo popolo, l'abilità affabulatoria e intrigante e la persuasione della parola ci restituiscono lo spirito resiliente del popolo rom. Uno spirito solido, coraggioso, energico e vitale, mai disperato, perseverante e capace di resistere alle avversità e di uscirne rafforzato. Uno spirito che intende resistere all'omologazione.
Nella terra serba ortodossa che lo ha accolto al mondo, la madre Radmila e il padre Dusan si guadagnano verso le altre famiglie quel rispetto fatto di gratitudine che sarebbe durato tutta la vita. E viene trasmesso al piccolo Jovica dalla madre, guardata con gli occhi di bambino innamorato, capace di cogliere la destrezza, la sapienza di Radmila nell'improvvisare tavole imbandite per ospiti inattesi, sempre graditi. Il cibo, dono dell'accoglienza, condivisione e ospitalità.
Nella Kris Romanì, il valore della sincerità. Corte di giustizia del mondo rom, è considerata “giusta” non perché imposta dall'autorità dello stato, ma chi deve essere sottoposto al suo giudizio ne riconosce la saggezza, l'equilibrio, la fama di uomini giusti capaci di giudicare con sapienza. Accettare il giudizio della Kris, riconoscere la propria colpa in modo sincero, significa riguadagnarsi la dignità perduta.
Le parole di Jovica invitano inoltre a cogliere il senso profondo della famiglia allargata: “Ricco è chi ha più figli”. E ancora: “Ognuno sente di appartenere all'altro”. Il racconto si dipana sul significato della verginità e degli ottanta ducati di dote per sposare Angelina. Parole per capire, astenendoci dal giudicare anche le croci che segnano questo popolo. Come quella del furto: “Nessuno vuole rubare, se ha un'altra possibilità”. Spiega: “Povero è il rom al quale non entra nessuno in casa, e non si mangia un piatto in casa sua, e non è invitato da nessuna parte, né ai matrimoni, né alle feste, a niente. Quello è povero. Quello che non ha una casa, ma solo una tenda, che non ha niente, però è generoso e ospitale, e vanno tanti a frequentare la sua tenda, quello è ricco. Questa è la differenza di ricchezza tra i rom”. La ricchezza sta nel carattere, nell'onestà, nella parola mantenuta, nel metterci la faccia.
Le parti narrative si intersecano con le riflessioni di Moni. Ci riporta ai nostri metri di giudizio e sollecita un decentramento di prospettiva. L'ipocrisia della nostra cultura abolisce la forza logica ed etica dei contesti. Il furto al fisco reca danni deleteri non più sopportabili dalla collettività. Derubare il concittadino è classificato tra i comportamenti veniali. Ancora: “Quali metri di giudizio abbiamo per capire chi chiede l'elemosina?” Così, parlare di culture “altre” consente di riportare l'attenzione sulla nostra cultura guardandola con la lente di ingrandimento per svelarne le ipocrisie.
Anche Marco, in veste di insegnante, riconduce il discorso nella quotidianità: la maglietta della Juventus, indossata da uno studente, con scritto dietro Pirlo, calciatore di origini sinte o le considerazioni sulle abilità di un altro grande calciatore svedese di origini rom, uno dei più completi attaccanti di talento. Ogni occasione è proficua per aprire spiragli sul mondo rom. Ma l'elenco potrebbe continuare annoverando nomi di personaggi noti e altrettanto apprezzati, per capire quanto i nostri pregiudizi siano stigmatizzanti. Circostanze propizie per intraprendere la storia di questi popoli stanziali indo-ariani, ma costretti al nomadismo a più ondate migratorie. Un popolo che ha conosciuto lo sterminio nei lager. E proprio ad Auschwitz, madre e padre di Jovica sono statti deportati.
Un popolo che non ha mai dichiarato guerra a nessuno, ma che dalle guerre si trova travolto, perseguitato, torturato. Come nelle guerre balcaniche, con la cancellazione della Jugoslavia dalla carta geografica: “Io non capivo e dicevo che non dovevo scappare, non avevo nemici”. Ancora oggi in Italia, Jovica con la sua famiglia sta combattendo un'altra guerra. Sgomberi. Documenti regolari che scadono. Impossibilità per lui di un ritorno in Serbia a salutare il padre morente. Impronte digitali e denuncia per detenzione illegale di armi: due cacciaviti. Decreto di espulsione. Permesso di soggiorno provvisorio per motivi umanitari. Presto scaduto. Di nuovo straniero illegale. Il musicista che non ha ancora una patria ha affiancato artisti come Piero Pelù, Moni Ovadia, Dario Fo, suonato a Milano al “Binario 21” della stazione e in tournée con il suo gruppo I Muzikanti. Oggi è maestro di fisarmonica, con metodo a orecchio, proprio come si conviene a una cultura che si basa su una trasmissione orale. Ma il suo non è ancora riconosciuto come un lavoro.
Jovica nella sua ultima lettera si fa portavoce del suo popolo. Cosa desideriamo? Documenti in regola, terra a pagamento per costruire casette e vivere insieme alla famiglia allargata. E un lavoro. Una vita normale. È tutto.
Così, le parole in musica composte dal padre Dusan ad Auschwitz, ritrovate da Jovica dopo la sua morte, suonano ancora come un monito per una società che voglia considerarsi civile: Na bi strena men – Non dimenticateci.

Claudia Piccinelli

Jovica, Moni e Marco sono tre amici di “A” (e miei personali). Con Jovica da anni mi capita di partecipare a iniziative pubbliche, spesso nelle scuole, in cui io presento il nostro dvd sullo sterminio nazista degli zingari e lui, spesso con altri, suona la fisarmonica (e come la suona!). Viaggi, lunghe chiacchierate, conoscenza reciproca: una storia che continua.
Di Moni mi piace ricordare, tra le altre cose, la comune partecipazione, tanti anni fa, a un'iniziativa pubblica in occasione del giorno della memoria, promossa dal e al Teatro Parenti, di Milano, da Andree Ruth Shammah. Io ero stato chiamato come anarchico per ricordare i compagni nostri passati per il camino. Nei pochi minuti previsti, io ricordai appunto la presenza anarchica anche nei lager nazisti, ma preferii utilizzare il “mio” tempo per ricordare chi lo sterminio l'aveva subito come conseguenza non di una personale scelta politica (come, tra i tanti “politici”, gli anarchici) ma i rom e i sinti che – unici insieme agli ebrei – furono sterminati su basi “razziali”. E Moni, che suonò dopo le mie parole, ad esse si unì sottolineando come nel suo gruppo ci fosse uno zingaro.
E anche Marco, prima per il cd dei “Les anarchistes” e poi con i suoi volumi di denuncia sociale (lavoro nero, immigrati, ecc.), ha trovato spazio sulla nostra rivista più volte in questi anni.
Ecco perché questo libro a sei mani di/su Jovica lo sentiamo molto come (anche) una nostra storia. Come tutte le storie di persecuzione e di emarginazione.

Paolo Finzi



Carlo Oliva,
un anarchico giallo

Quella che segue non è una recensione, ma è un atto di stima e di amore verso un amico e un intellettuale di grande spessore. Non sarò dunque “distaccata” quanto basta e quanto deve essere chi si accinge a recensire un'opera, ma poi penso anche che non si debba sempre esserlo: la lettura è passione, e di razionale vi è ben poco.
Carlo Oliva era sì un grande critico della letteratura di genere, ma era soprattutto uno degli uomini più colti e intelligenti che abbia conosciuto. Rileggere molte delle sue recensioni e sentire la sua voce mi dà la stessa emozione. Perché la voce di Carlo Oliva che arrivava dalle onde di Radio Popolare, per me era quanto di meno radiofonico esistesse, ma era anche, allo stesso tempo, un'esperienza ipnotica, così che quando finivo di ascoltarlo: a) mi veniva voglia di leggere il libro di cui aveva parlato; b) mi veniva voglia di parlarne con lui. Spesso, per mia fortuna, entrambe le cose sono capitate.
Carlo Oliva disegnato, tanti anni fa,
dalla matita di Roberto Ambrosoli

Le curatrici del volume (Giallo popolare, Mimesis, Milano 2013, pp. 150, € 12,00), Nicoletta Vallorani e Nicoletta Di Ciolla scrivono nella prefazione: “Questa raccolta è dedicata a Carlo Oliva, che è stato partecipe del progetto, ma non ha fatto in tempo a collaborare concretamente. Le curatrici hanno cercato di mantenerne lo spirito e di intuire le scelte che avrebbe fatto lui. Dunque la selezione va intesa in questa prospettiva, ovvero come un tributo a una personalità che ha contribuito in modo determinante, con la mente e col cuore, a creare e mantenere un circolo di scrittori e lettori che alla letteratura di genere facevano riferimento. In questo lavoro, un ruolo fondamentale va assegnato alla Libreria Sherlockiana, per anni animata dalle iniziative e dallo spirito inarrestabile di Tecla Dozio, contro le avverse fortune di questo nostro difficile contesto culturale.
E già in queste poche righe sta il senso dell'intero volume: la letteratura poliziesca, popolare e di genere; la partecipazione attiva di Carlo Oliva alla sua crescita che ha visto negli anni l'affermazione di alcuni tra i più importanti autori e le più importanti autrici, italiani e internazionali, di questo genere letterario che spazia dal noir, al giallo, al poliziesco, al gotico e va oltre, approdando in quell'unica categoria che vale e che contiene tutto: la Letteratura”; ed infine, ultimo elemento ma non meno importante, anzi spesso vero e proprio pilastro per molti degli autori recensiti da Carlo, la Sherlockiana di Milano di Tecla Dozio, luogo nel quale non solo si trovavano libri noti o introvabili, ma in cui ci ritrovavamo noi, autori e, soprattutto, si potevano incontrare Carlo e Tecla, le due persone che, insieme a poche altre – per esempio Luigi Bernardi, scomparso da poco – sono stati i e sono i grandi “costruttori” della letteratura di genere italiana.
Le parole di Tecla Dozio che insieme a quella delle curatrici dà voce all'uomo Oliva oltreché all'intellettuale, sono rivelatrici: “Non era snob nonostante fosse un serio intellettuale, nel senso più nobile del termine. Non evitava di sporcarsi le mani con la letteratura di genere che, anzi, aveva messo al centro dei suoi interessi di lettore e studioso. Questo da molti anni, non da quando il 'giallo' è diventato di moda. Era anarchico nel senso più puro del termine.”
È facile usare aggettivi, soprattutto quando si deve scrivere o parlare di qualcuno che non c'è più, ma in questo caso tutti quelli utilizzati sia da Dozio che da Vallorani e Di Ciolla corrispondono a una verità profonda e pura. Sullo stile della scrittura delle recensioni di Oliva, su quali sono state selezionate e con quale criterio, sono notizie che troverete nel libro.
Io vi posso dire che leggerlo è riascoltare la voce di un uomo davvero grande, un intellettuale generoso e un amico che ha fatto vivere un pezzo importante della cultura di questo paese miope e un po' mediocre in cui la cultura non è mai messa tra le priorità per un riscatto morale e civile come, invece, Oliva e tanti di noi cittadini – autori e lettori – auspicheremmo.

Barbara Garlaschelli



Bambini e diritti/
Una proposta pedagogica

Alice nel paese dei diritti (edizioni Sonda, 2013, pp. 176, € 12,00) è un libro realizzato con la collaborazione di molte persone e dedicato a bambini e adulti. La presentazione di Daniele Novara sui diritti e i doveri dei bambini denuncia la deriva consumistica a cui sono sottoposti i fanciulli nel mondo occidentale e cosiddetto benestante, ribadendo la necessità della presenza di educatori che rispettino la differenza infantile, per una pedagogia “amica” della crescita dei bambini e delle bambine. Le illustrazioni di Pia Valentinis corredano il racconto di Alice che esce dal paese delle meraviglie per esplorare il mondo reale, compiendo un percorso iniziatico e a tappe, per scoprire e spiegare come sono nati i diritti dell'infanzia. Le scoperte di Alice sono poi rese fruibili attraverso test, giochi e racconti. Proseguendo nella lettura, si trova un capitolo dedicato alla “Convenzione dei diritti dei bambini”: un documento molto importante, approvato dall'ONU e da tanti paesi del mondo, impegnati per la tutela dell'infanzia, abilmente ritrascritto, in formula didattica, da Mario Lodi. Questo libro ludico e divertente apre ad una serie di riflessioni imprescindibili non solo sul mondo dell'infanzia, a partire dalla “Dichiarazione universale dei diritti umani”, fino ad arrivare alla “Convenzione internazionale sui diritti dell'Infanzia”, approvata dall'Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU) il 20 novembre 1989. Questi documenti aiutano a comprendere il valore della condizione dello stato del bambino e della bambina, oltre gli stereotipi, i pregiudizi, le discriminazioni, perché “siamo noi stessi nella misura in cui siamo gli altri”, per scoprirci attraverso le reciproche differenze, le implicite contraddizioni ed esplicite conflittualità. Infatti, in un contesto sociale micropedagogico, proprio il conflitto – secondo gli autori –, non la violenza, favorisce l'incontro e trasforma l'indifferenza in consapevolezza, per il diritto dei bambini di litigare in pace, oltre i falsi miti del perbenismo, perché la condizione infantile del litigio è un diritto. Ovviamente si intendono contesti di conflitto e non di violenza: due aspetti pedagogici ben distinti. È necessario gestire i litigi come occasioni formative, per aprirsi a nuovi ambiti di incontro e transitare dall'appartenenza escludente alla cittadinanza aperta e solidale, per favorire la diversità come risorsa.
Alla radice dell'educazione sussiste il concetto di umanità e lo scopo di adeguare la cultura e gli atteggiamenti sociali delle persone a una dimensione planetaria, in cui il diritto del singolo e dei popoli assuma un ruolo centrale. Nel tempo delle grandi migrazioni, l'intero apparato educativo e formativo deve considerare la necessità di accogliere bambini provenienti da vari “altrove”. L'accoglienza comporta di vivere una relazione che innesti fiducia, valorizzazione e capacità di trasformare i problemi in risorse. I grandi spostamenti umani del nuovo millennio costituiscono un segnale importante di una fase rinnovata dell'umanità, in un percorso collettivo vissuto come sfida arricchente e non come minaccia che impoverisce. È sempre più necessario transitare dalla logica dell'accoglienza, basata sulla visione dello “straniero” come ospite, all'idea che dobbiamo costruire una convivenza possibile con il concetto e la pratica della gestione del conflitto. Infatti il conflitto e il disagio sono provocati da ogni convivenza, ogni incontro con il nuovo e il diverso, ed è proprio attraverso la situazione conflittuale e la condizione di disagio che possiamo giungere alla scoperta dell'altro, ma anche di noi stessi, per vivere pienamente una cittadinanza aperta, plurale e solidale, in una innovativa grammatica interiore e in una nuova e ampia concezione dell'essere umano, aperta al dialogo e all'incontro, per favorire contesti di pace e rispetto dei diritti di tutti gli esseri viventi.

Laura Tussi