rivista anarchica
anno 44 n. 389
maggio 2014




Il tripudio dei numeri

Quando ero più giovane e campionavo fidanzati che regolarmente mi abbandonavano perché inadatti a me, un amico molto caro era solito dirmi questo: «Hai una considerazione talmente scarsa di te stessa che basta che uno ti faccia un sorriso e tu ti innamori».
Ecco, noi siamo questo genere di paese.
Basta che arrivi uno squinternato a farci due promesse e noi ne facciamo un leader. Ce lo portiamo in trionfo come fosse la nostra sola speranza. Ne ascoltiamo le parole quasi fossero scolpite nella pietra, il che peraltro determina la nostra distrazione quando il leader in questione ci truffa ripetutamente e magari alla fine fugge con il malloppo.
Noi, il malloppo, non sappiamo neanche che ci sia.
Non abbiamo dimestichezza coi numeri.
Nella maggior parte dei casi, li spariamo a vanvera, pensando che in realtà essi non contino e che in fondo la sola cosa importante sia l'ideale che li autorizza e li rende una sgradevole necessità. Per i numeri, ci sono in contabili, una categoria inferiore dell'esistenza, deprivata di ogni creatività.
Ora, in effetti il problema è che di recente i numeri hanno rivelato una straordinaria potenza. Scandiscono le differenze. Determinano il destinano. Scandiscono, in alcuni dolorosi casi, il tempo della vita e quello della morte, riempiendo lo spazio nel mezzo di scelte difficili.
In numeri, per esempio, sono responsabili della progressiva riduzione e del finale, recente congedo di un giovane giornalista, poco tempo fa. Se ne è parlato poco e niente, e anche qui per una questione di numeri: sono così tanti i giovani e i vecchi liquidati per le spicci in tempi di recessione che uno di più o uno di meno non conta poi molto. Il giovane giornalista era un numero in questa statistica, un numero la cui sorte era legata ad altri numeri, appunto, che il giornalista in questione vedeva calare a un ritmo preoccupante. I numeri delle commissioni lavorative e il numero di cifre, progressivamente ridotte a due, che scandivano il pagamento per ogni suo articolo. Probabilmente, l'esiguità del compenso e della gratificazione connessa, nel tempo (e neanche tanto) ha determinato quel genere di disgusto per se stessi e per il mondo che alla fine uno non è in grado di tollerare. Quantitativamente, c'è un limite al numero di porte chiuse in faccia che uno può tollerare.
Non conoscevo il giornalista in questione. Il che non esclude che io sia stata colpita dal suo silenzioso andarsene. Improvviso – dicono gli amici: un atto senza ragioni o con troppe, tutte legate, appunto, alla magia dei numeri. È volato giù da un palazzo. «In dismissione». Esattamente come la nostra dignità di persone per bene.
Numericamente, le persone per bene – secondo una definizione in uso in tempi preberlusconiani – sono esigue e collocate in fasce sociali inimportanti. Hanno la tendenza a non riprodursi, sempre da qualche tempo a questa parte, e un'ancor più marcata attitudine e a pensare libere e marciare fuori dal gioco quando esso richiede compromessi, catene e silenzi. Appartengono a fasce sociali di poca rilevanza, tipo il mondo dell'istruzione, del volontariato, della mediazione, delle culture di strada. Lì il potere dei numeri è al tempo stesso ignorato e responsabile dei destini, e anche lì i numeri si sparano a vanvera. È di questi giorni la trattativa tra le scuole materne e il comune di Milano. C'è uno stato di necessità, che include la richiesta di 120 educatrici di nuova assunzione come numero base per far funzionare il lavoro. Il Comune ne propone 30, e dopo una estenuante trattativa, si chiude a 85 a tempo determinato. Il che in soldoni vuol dire che se col numero di partenza c'era, poniamo, una educatrice ogni 10 bambini, il Comune ne ha proposta una ogni 40, e alla fine si è chiuso alla percentuale di un'educatrice ogni 14 bambini e spiccioli, ma solo per un tempo determinato. Poi si torna a zero. In questo balletto di cifre, io dubito che il lettore non coinvolto si renda conto di quanta differenza faccia, per una persona sola, occuparsi di 10 bambini, 40, o 14 e un po'. Una differenza abissale, direi, considerata l'età dei piccoletti e il numero di ore di lavoro che il mestiere richiede. Tutti numeri, lo vedete, la cui realtà fattuale tuttavia sfugge ai più.
Rendiamoci conto, per esempio, che la questione dei numeri si sta facendo sostanziale nella scuola tutta, e qualifica il numero di scuole che un preside può dirigere, ad esempio. Teoricamente, non vi è limite al numero di istituti che un dirigente può avere in reggenza, e nei fatti a Milano c'è chi ne ha fino a 6. Il che vuol dire che può manifestarsi in un plesso scolastico non più di una volta alla settimana: praticamente una star del rock, senza il carisma che ne conseguirebbe. E il numero di studenti per classe come il numero di ore cui ammonta una cattedra sono cifre che tendono a lievitare, in un universo teorico che risulta del tutto scorporato dall'applicazione reale di queste cifre.
Perciò io propongo questo: mandiamo il nuovo ministro dell'istruzione, diciamo, per un mese in incognita a insegnare in un istituto professionale per l'industria e l'artigianato nella cintura urbana di Milano, o di Torino, o di qualunque grande metropoli contemporanea. Diamogli una cattedra pesante, possibilmente frantumata su più sedi e con il numero massimo di ore di lezione previsto per settimana. Priviamolo di ogni rispetto per il mestiere che sta facendo. Facciamogli avere lo stipendio molto in ritardo e costringiamolo ad alloggiare come un normale supplente.
Poi intervistiamola, la nuova ministra. Sul numero di neuroni attivi che le sono rimasti in testa. Sono sicura che il conteggio non richiederà molto tempo.

Nicoletta Vallorani