rivista anarchica
anno 44 n. 390
giugno 2014




Due di mille

La mia considerazione fondamentale sulla cultura contemporanea è che ci metteremo del tempo.
Ci metteremo molto tempo a capire che l'universo non può essere separato sempre in due metà, che vengono sistematicamente e sintomaticamente collocate agli estremi opposti: il buono e il cattivo, Caino e Abele, il bianco e lo Zio Tom, il lombardo e il napoletano, il dolce, il salato e il piccante, che per comodità molta cucina accorpa. Ci metteremo ancora molto tempo a capire che quel terzo che nel proverbio gode quando i due litiganti si azzuffano è l'elemento che ci può salvare dalle pericolose derive storiche che abbiamo già conosciuto.
Parliamo di donne. Lo facciamo dopo questo preambolo perché di recente, in modo curioso e imprevisto, mi è capitato di sentire sempre più spesso, dopo averla considerata desueta, la parola “femminismo”, a volte affiancata a espressioni bizzarre, tipo “quote rosa”, “parità della donna nella famiglia e sul lavoro”, “pari opportunità”. Come se appunto avessimo due entità separate, dotate di anatomie diverse, e che vanno semplicemente riequilibrate su una bilancia sociale che non appare equa.
Di nuovo, come dicevo tempo fa, parrebbe una questione di numeri. Peccato che non lo sia. E pensarla come tale – pensare cioè che basti incrementare a vanvera il numero delle ministre per riequilibrare una cultura sbarellata – è un tragico errore e un modo pericoloso di neutralizzare le sacche autentiche di resistenza. Il cambiamento qualitativo, quello che davvero ci vorrebbe, è culturale e civile, e non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con la percentuale di ministre, che a volte non sembra che siano arrivate lì per meriti, a giudicare dalle battute spesso infelici e delle valutazioni politiche totalmente errate che si lascian sfuggire, ma solo perché ci volevano delle donne (e magari se erano pure inoffensive perché non troppo intelligenti, meglio).
Il cambiamento deve essere ben più profondo, e la sua ratio scardina, secondo me, il principio stesso della bilancia, perché se i termini da considerare non sono solo due – maschio e femmina – semplicemente la bilancia non si può più usare. Il cambiamento, pensate un po', può partire soltanto dalla nozione semplice che siamo persone, e come tali tutte dobbiamo essere considerate. La questione è elementare, e credo che in qualche modo, nei percorsi educativi, essa andrebbe considerata.
Anni fa, ho sviluppato tutto il mio corso, all'università, intorno a un artista, Derek Jarman, che nell'86 fu uno dei primi a dichiarare pubblicamente di essere sieropositivo. Essendo gay, si espose a una censura pesantissima. Impiegò 7 anni a morire, ma lo fece senza mai rinnegare la sua omosessualità, senza mai rinunciare a essere una persona: non uomo, non donna, ma persona. Il corso fu molto bello, emotivamente trascinante (per me di certo, ma spero anche per i miei studenti) e poi fu dimenticato. Anni dopo, una mia studentessa di allora, poi dottoranda e poi addottorata, mi confessò un aneddoto importante. Figlia di genitori marxisti e insegnanti, progressista e alfabetizzata, aveva seguito quel corso e ricordava perfettamente il momento in cui aveva dovuto svolgere il suo “assignment” di fine corso: scegliere un film tra quelli analizzati e svilupparci un paper. Chiese aiuto a un suo amico regista, esprimendosi testualmente in questo modo: “Sì, devo fare questo paper e voglio farlo bene. Solo che il regista è difficile, e soprattutto la mia prof è brava, ma è lesbica”. Solo anni dopo, la ragazza scoprì che le cose stavano in modo diverso. Ma in quell'occasione, per il corso che avevo scelto di sviluppare e per come mi ero portata nel svilupparlo, ero stata catalogata, senza se e senza ma, anche da una persona intelligente e cresciuta in un ambiente stimolante, sulla base di una elementare dicotomia: se parli di omosessualità, dimostrando di comprenderne i problemi, non sei eterosessuale.
E poi, alla fine, ripensandoci, questo malinteso non mi spiace poi molto: a suo modo, il gay è rivoluzionario, perché sfugge alla dicotomia maschio/femmina.
Non sfuggono affatto le “quote rosa”, la “scrittura femminile”, la “fantascienza delle donne”, e via decidendo. Per di più, questo genere di battaglia è già stata combattuta. Ha prodotto grandi teoriche, molte delle quali però si sono fatalmente allontanate dalla quotidianità delle donne, dimenticandone i problemi reali. Non è stato un fallimento assoluto, ed era comunque una rivolta necessaria. Adesso, però, io penso che la battaglia sia un'altra, e passi dalla cultura, dalla scuola, esattamente da tutto quello che in questo nostro disgraziato paese non conta una cippa. E io credo che si tratti di una battaglia per il rispetto della persona come entità accidentalmente sessuata, accidentalmente collocata in una definita fascia d'età, accidentalmente ricca o poverissima, accidentalmente madre o professionista o lesbica o eterosessuale o tutte queste cose insieme. E la persona non è semplicemente e riduttivamente uomo o donna. È molte cose insieme, e di queste molte cose bisognerebbe tener conto.
Mettiamola in un altro modo, più pratico: anche se sono donna, voglio poter dire che le molte donne governanti in questo momento non mi rispecchiano per niente, perché dimostrano l'intelligenza media di un paguro, e hanno un'esperienza della vita talmente lontana dalla mia da risultarmi del tutto incomprensibile. In quanto donna, vorrei avere la libertà di dire anche che una donna lavora male, che è una cialtrona o che è pronta ad uccidere per il suo successo personale. Il fatto di aver subito una storia – autentica – di censura e proibizioni non rende le donne necessariamente brave, buone e sante. Perché? Perché si è persone: ecco perché. E perché le persone sono fatte di sfumature. E perché più del bianco e del nero, mi piacciono i colori in mezzo, che sono quelli di cui viviamo.

Nicoletta Vallorani