rivista anarchica
anno 44 n. 391
estate 2014





L'Eco del Cardinale

1.
Nel 1995, la rivista Liberal invitò Umberto Eco e Carlo Maria Martini (1927-2012) ad aprire un dialogo epistolare. L'anno successivo, con l'aggiunta di commenti vari, tutte le lettere vennero pubblicate in volume, In cosa crede chi non crede?, pubblicato da Atlantide Editoriale, a Roma. In questo 2014, dopo che il volumetto è stato tradotto in varie lingue, l'editore Bompiani lo ripubblica – sfrondato dagli interventi altrui e ridotto all'osso dello scambio epistolare tra i due eletti a rappresentare l'uno il pensiero “laico”, l'altro il pensiero “religioso”. A suo tempo non ne avevo letto alcunché, ora l'ho letto – e ne sono rimasto piuttosto deluso. A entrambi i contendenti, infatti, ho da rimproverare qualcosa – a cominciare dal titolo che implica un'assurda equivalenza tra due classi di persone il cui pensiero, per entrambe, viene sintetizzato nell'uso del verbo “credere”. Ma, al contempo, vorrei mettere in evidenza alcuni aspetti della vicenda che risultano significativi in tutt'altri versanti – versanti che non riguardano più solo questi due dialoganti ma tutti noi.

2.
I dialoghi possono assumere forme diverse – e non è affatto detto che il primo a prendere la parola debba per forza di cose interrogare l'altro. Si dialoga anche asserendo – almeno quando si ha il coraggio di sostenere le proprie tesi; si dialoga anche per cercare un confronto. Ma un “dialogo epistolare” tra autorità – autorità diversamente collocate già in linea di principio, come diversamente collocato è chi dice di trovarsi nel campo della laicità e chi dice di trovarsi nel campo della religione – è un dialogo un po' speciale – necessita di ossequio a regole perlopiù implicite. Se a cominciare è l'uno, allora – a maggior ragione se quanto dice finisce con il prendere la forma della domanda -, potrebbe sembrare che quest'uno sia gerarchicamente sottoposto all'altro e, nella misura in cui l'altro lo confina dentro la risposta alla sua domanda, quest'uno è davvero subordinato all'altro.
Il fatto che sia Eco a cominciare – e che la sua argomentazione prenda presto la forma della domanda – è dunque significativo. Per un po' subisce, ma, alla terza lettera giunge per Eco il momento di dire – anzi, pardon, di “confessare”, ça va sans dire – che gli “spiace un po' che la redazione abbia deciso che debba essere” lui a cominciare. Gli sembra di essere “petulante”. E spiega: “forse la redazione soggiace a un banale clichè per cui i filosofi sono specializzati nel formulare domande di cui non conoscono le risposte, mentre un pastore d'anime è per definizione colui che ha sempre la risposta giusta”. Qui Eco dimentica che la logica della domanda e della risposta – prima di assecondare il rapporto tra filosofo e cardinale – sta assecondando lo stato delle reciproche autorità. A chi sta più in basso tocca di domandare (come ai dibattiti che detesto: “Ora, potete fare una domanda ai relatori” – a sancire l'autorità di questi) e a chi sta più in alto di rispondere. Da ciò la soluzione: il cardinale risponde alla terza lettera e poi ne scrive subito una quarta, l'ultima, cui risponde Eco.

3.
Eco è uno scrittore, ma il termine è sempre rimasto troppo generico per venire usato come qualifica – “Caro scrittore”, non si dice. Eco insegna, è docente – un “Caro professore”, pertanto, potrebbe andar bene. Ma è lui a dover iniziare e, allora, si trova subito di fronte ad una scelta piuttosto complicata: “Cara Eminenza”? “Caro Cardinale”? No. E ci sarebbe da sperare che questo rifiuto provenga dalla coscienza di un laico che non ha intenzione alcuna di riconoscere i titoli di un religioso, ma – a quanto pare – le cose non stanno così. Eco sceglie “Caro Carlo Maria Martini” e decide di affrontare di primo acchito – come primo argomento del dialogo – il modo con cui si pone nei confronti del proprio interlocutore. Dice che gli si rivolge chiamandolo per “il nome che porta”, senza “riferimenti alla veste che indossa”. Dice anche che ciò è dovuto a “omaggio” e “prudenza”: omaggio perché ritiene i vari titoli (eminenza, professore, ministro, etc.) “riduttivi”, perché “ci sono persone il cui capitale intellettuale è dato dal nome con cui firmano le proprie idee” – e il nome, allora, è il “titolo maggiore”; prudenza, perché “potrebbe apparire imbarazzante che avvenga uno scambio di opinioni tra un laico e un cardinale” – “potrebbe sembrare che il laico voglia condurre il cardinale a esprimere pareri in quanto principe della Chiesa e pastore d'anime” e ciò, secondo lui, “sarebbe far violenza a chi è appellato e a chi ascolta la risposta”. Meglio, allora, ecco la ragione prudente dell'uso del nome e del cognome puliti puliti, far finta – far finta lo dico io – che il dialogo sia davvero “uno scambio di riflessioni tra uomini liberi”, dove il valore finale – “liberi” – non si capisce bene cosa possa designare: liberi dalle istituzioni cui gli interlocutori eventualmente appartengano? Liberi dalle idee pregiudiziali e pregiudizievoli che si sono fatti entrambi prima di cominciare a dialogare?
Che la spiegazione non convinca è evidente – sa di foglia di fico sulle pudenda delle statue –, ma la questione sarebbe morta lì se, con il procedere del dialogo, le cose non si complicassero. Infatti, se la prima e la seconda lettera, e le rispettive risposte, si scandiscono con un “Caro Carlo Maria Martini” da una parte e con un “Caro Umberto Eco” dall'altra, la terza e la quarta, invece, si aprono all'insegna del “Caro Martini” e, di rimando, “Caro Eco”. Ci si può chiedere cosa possa essere avvenuto, nel frattempo, da aver indotto questo lieve mutamento della rotta affettiva. Da un lato, si può pensare che la riduzione della formula può corrispondere all'intervenuta consuetudine – un meccanismo di implicitazione più utile e innocuo che non inutile e dannoso –, ma, dall'altro, si può anche pensare ai motivi di questa intervenuta consuetudine, ovvero al fatto che l'andamento del dialogo, nelle prime due lettere, abbia già messo in chiaro la mancanza di diatribe dolorose e tutta la disposizione dei dialoganti alla bonomia paciosa.

4.
E, infatti, eccoci ai contenuti del dialogo. I quali – perdete ogni speranza o voi che entrate – vengono immediatamente circoscritti ai cosiddetti “problemi dell'etica”, lo propone Eco, “perché ritengo che principalmente di questi ci si dovrebbe occupare nel corso di un dialogo che intenda trovare alcuni punti comuni tra il mondo cattolico e quello laico”. Si parlerà, dunque, della fine dei tempi – in un confronto tra “apocalisse” laica e Apocalisse cristiana –, di quando inizia la vita umana, del matrimonio dei preti cattolici e, infine, dell'etica ben fondata e dell'etica malferma (nelle parole di Martini: “su cosa basa la certezza e l'imperatività del suo agire morale chi non intende fare appello, per fondare l'assolutezza di un'etica, a principi metafisici o comunque a valori trascendenti e neppure a imperativi categorici universalmente validi?”
Il criterio selettivo concernente l'etica – nella presunzione che quest'ambito sia impermeabile a qualsiasi infiltrazione (teoria della conoscenza, per esempio) –, allora, ha eliminato tutta una serie di possibili argomenti di discussione – tipo le prove dell'esistenza di Dio, le prove del rapporto tra il Dio cristiano e la Chiesa, ovvero dell'investitura divina dei poteri della Chiesa, l'invenzione della Santissima Trinità, le contraddizioni tra i quattro Vangeli, il ruolo della Chiesa nella storia del mondo, il suo rapporto con il Potere, etc.
Va da sé che la selezione degli argomenti preconfiguri i termini dell'accordo finale tra “chi crede in un Dio trascendente e chi non crede in alcun principio sovraindividuale”.

5.
Dicevo che il dialogo risulta deludente sul versante di entrambi. Se Eco scova contraddizioni va a scovarle ben lontane dai punti nevralgici. Per esempio, le va a scovare sul matrimonio dei ministri del culto – le contraddizioni tra il Levitino e il libro di Ezechiele riguardo al permesso di farsi la barba o di sposarsi (soltanto una vergine o la vedova di un altro sacerdote, per Ezechiele). Quisquilie.
Sul sacerdozio femminile, peraltro, Martini sembra accusare il peso delle contraddizioni evidenti nelle parole dei padri della Chiesa, ma in virtù di una capriola mirabolante trova il modo di stare in pace con la propria coscienza. La proibizione del sacerdozio femminile, infatti, rifletterebbe “una prassi della Chiesa che è profondamente radicata nella sua tradizione e che non ha mai avuto reali eccezioni in due millenni di storia” (si noti il “reali”), che “non è legata solo a ragioni astratte o a priori, ma a qualcosa che riguarda il suo stesso mistero”. Secondo Martini “il fatto stesso (...) che tante delle ragioni portate lungo i secoli per dare il sacerdozio solo a uomini non siano oggi più riproponibili” (...) ci avverte che siamo qui di fronte non a ragionamenti semplicemente umani”. Ora, che Eco non gli contesti – non dico da “laico”, ma da semplice persona ragionevole – uno sragionamento del genere è perlomeno sorprendente.
Come fa, poi, un semiotico come lui ad ignorare che se Martini – per stabilire o, meglio, non stabilire quando inizia la “vita umana” – parla di “Vita” con la maiuscola contrapponendola ad una “vita” con la minuscola sta metaforizzando? Impunemente, forzando il linguaggio alle proprie necessità retoriche, Martini dice che “c'è un uso largo” e un uso “stretto” del termine Vita: “la vita che ha supremo valore per i Vangeli non è quella fisica e neppure quella psichica (...), ma la vita divina comunicata all'uomo” e che “il valore supremo in questo mondo è l'uomo vivente della vita divina”. Ed Eco tace. Come, alla conclusione – allorché si tratta di fare pappa e ciccia sull'etica –, è pronto ad accettare come oro colato che “l'altro è in noi”.
Ma non delude di meno Martini – anche lui restìo ad usare i propri strumenti più sottili e taglienti. Più volte, infatti, pecca di omissioni per la salvezza non tanto delle anime quanto, a suo dire, per quella dei lettori. Dichiara una volta che “non è sempre facile dire che cosa la Bibbia voglia dire su certi punti particolari”, poi avvisa che rinuncerà ad addentrarsi “in considerazioni molto sottili”, perché teme “che altrimenti questa lettera, che fa parte di un epistolario pubblico, non troverà lettori” e ribadisce, infine, tirando in ballo “alcuni lettori” che “si sono lamentati” con lui “che i nostri dialoghi sono troppo difficili”. Con il che si sente esentato da qualsiasi approfondimento.

6.
Nell'ambito della religione cattolica usa di designare il rapporto tra l'autorità ecclesiastica e quella dei suoi fedeli come quello del buon pastore e delle sue pecorelle. Nell'ambito della cosiddetta laicità non so come si possa designare il rapporto tra l'autorità e chi aspira al suo sapere – docente e discente, sapiente e adepti, pianeta e satelliti, non so. In questo caso, però, si può constatare come in determinate circostanze in ambedue le autorità alberghi un sentire comune: la sfiducia nei confronti di chi ne ascolta la parola. Come se le pecorelle, della parola del pastore, potessero udire solo un'indistinta eco lontana.

Felice Accame