rivista anarchica
anno 44 n. 394
dicembre 2014 - gennaio 2015





Perché il mondo sta ignorando
la rivoluzione dei curdi in Siria?

In questo numero ho deciso di pubblicare un articolo sulla situazione della guerra di resistenza del popolo Curdo in Siria di David Graeber, il noto antropologo libertario. Anche se non condivido totalmente la sua equazione Rojava-Spagna 1936 trovo interessante la provocazione. Nei prossimi numeri mi occuperò ancora della questione, approfondendo la situazione geopolitica della regione.

Andrea Staid


Nel 1937, mio padre si arruolò volontario per combattere nelle Brigate Internazionali in difesa della Repubblica Spagnola. Quello che sarebbe stato un colpo di Stato fascista era stato temporaneamente fermato da un sollevamento dei lavoratori, condotto da anarchici e socialisti, e nella maggior parte della Spagna ne seguì una genuina rivoluzione sociale, portando intere città sotto il controllo di sistemi di democrazia diretta, le fabbriche sotto la gestione operaia e le donne ad assumere sempre più potere.
I rivoluzionari spagnoli speravano di creare la visione di una società libera cui il mondo intero avrebbe potuto ispirarsi. Invece, i poteri mondiali dichiararono una politica di “non intervento” e mantennero un rigoroso embargo nei confronti della repubblica, persino dopo che Hitler e Mussolini, apparenti sostenitori di tale politica di “non intervento”, iniziarono a fare affluire truppe e armi per rinforzare la fazione fascista. Il risultato fu quello di anni di guerra civile terminati con la soppressione della rivoluzione e quello che fu uno dei più sanguinosi massacri del secolo.
Non avrei mai pensato di vedere, nel corso della mia vita, la stessa cosa accadere nuovamente. Ovviamente, nessun evento storico accade realmente due volte. Ci sono infinite differenze fra quello che accadde in Spagna nel 1936 e quello che sta accadendo ora in Rojava, le tre province a larga maggioranza curda nel nord della Siria. Ma alcune delle somiglianze sono così stringenti, e così preoccupanti, che credo sia un dovere morale per me, in quanto cresciuto in una famiglia le cui idee politiche furono in molti modi definite dalla Rivoluzione spagnola, dire: non possiamo fare sì che tutto ciò finisca ancora una volta allo stesso modo.
La regione autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei pochi raggi di luce – un raggio di luce molto luminoso, a dire il vero – a emergere dalla tragedia della Rivoluzione siriana. Dopo aver scacciato gli agenti del regime di Assad nel 2011, e nonostante l'ostilità di quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non solo ha mantenuto la sua indipendenza, ma si è configurato come un considerevole esperimento democratico. Sono state create assemblee popolari che costituiscono il supremo organo decisionale, consigli che rispettano un attento equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre cariche più importanti devono essere ricoperte da un curdo, un arabo e un assiro o armeno cristiano, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono consigli delle donne e dei giovani, e, in un richiamo degno di nota alle Mujeres Libres (Donne Libere) della Spagna, un'armata composta esclusivamente da donne, la milizia “YJA Star” (l'”Unione delle donne libere”, la cui stella nel nome si riferisce all'antica dea mesopotamica Ishtar), che ha condotto una larga parte delle operazioni di combattimento contro le forze dello Stato Islamico.

Come può qualcosa come tutto questo accadere ed essere tuttavia perlopiù ignorato dalla comunità internazionale, persino, almeno in gran parte, dalla sinistra internazionale? Principalmente, sembra, perché il partito rivoluzionario del Rojava, il PYD, lavora in alleanza con il turco Partito Curdo dei Lavoratori (PKK), un movimento combattente marxista impegnato sin dagli anni Settanta in una lunga guerra contro lo Stato turco. La Nato, gli Stati Uniti e l'Unione Europea lo classificano ufficialmente come “organizzazione terroristica”. Nel frattempo, l'opinione di sinistra lo descrive spesso come Stalinista.
Ma, in realtà, il PKK non assomiglia neppure lontanamente al vecchio, organizzato verticalmente, partito Leninista che era una volta. La sua evoluzione interna, e la conversione intellettuale del suo fondatore, Abdullah Ocalan, detenuto in un'isola-prigione turca dal 1999, lo hanno condotto a cambiare radicalmente i propri scopi e le proprie tattiche.
Il PKK ha dichiarato che esso non cerca nemmeno più di creare uno Stato curdo. Invece, ispirato in parte dalla visione dell'ecologista sociale e anarchico Murray Bookchin, ha adottato una visione di “municipalismo libertario”, invitando i curdi a formare libere comunità basate sull'autogoverno, basate sui principi della democrazia diretta, che si federeranno tra loro aldilà dei confini nazionali – che si spera che col tempo diventino sempre più privi di significato. In questo modo, suggeriscono i curdi, la loro lotta potrebbe diventare un modello per un movimento globale verso una radicale e genuina democrazia, un'economia cooperativa e la graduale dissoluzione dello stato-nazione burocratico.
A partire dal 2005 il PKK, ispirato dalla strategia dei ribelli zapatisti in Chiapas, ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nei confronti dello Stato turco e ha iniziato a concentrare i propri sforzi nello sviluppo di strutture democratiche nei territori di cui già ha il controllo. Alcuni si sono chiesti quanto realmente sinceri siano questi sforzi. Ovviamente, elementi autoritari rimangono. Ma quello che è successo in Rojava, dove la Rivoluzione siriana ha dato ai curdi radicali la possibilità di condurre tali esperimenti su territori ampi e confinanti fra loro, suggerisce che tutto ciò è tutt'altro che un'operazione di facciata. Sono stati formati consigli, assemblee e milizie popolari, le proprietà del regime sono state trasformate in cooperative condotte dai lavoratori – e tutto nonostante i continui attacchi dalle forze fasciste dell'ISIS. Il risultato combacia perfettamente con ogni definizione possibile di “rivoluzione sociale”. Nel Medio Oriente, almeno, tali sforzi sono stati notati: particolarmente dopo che il PKK e le forze del Rojava per combattere efficacemente e con successo nei territori dell'ISIS in Iraq per salvare migliaia di rifugiati Yezidi intrappolati sul Monte Sinjar dopo che le locali milizie peshmerga avevano abbandonato il campo di battaglia. Queste azioni sono state ampiamente celebrate nella regione, ma, significativamente, non fecero affatto notizia sulla stampa europea o nord-americana.
Ora, l'ISIS è tornato, con una gran quantità di carri armati americani e di artiglieria pesante sottratti alle forze irachene, per vendicarsi contro molte di quelle stesse milizie rivoluzionarie a Kobané, dichiarando la loro intenzione di massacrare e ridurre in schiavitù – si, letteralmente ridurre in schiavitù – l'intera popolazione civile. Nel frattempo, l'armata turca staziona sui confini, impedendo che rinforzi e munizioni raggiungano i difensori, e gli aeroplani americani ronzano sopra la testa compiendo occasionali, simbolici bombardamenti dall'effetto di una puntura di spillo, giusto per poter dire che non è vero che non fanno niente contro un gruppo in guerra con i difensori di uno dei più grandi esperimenti democratici mondiali.
Se oggi c'è un analogo dei Falangisti assassini e superficialmente devoti di Franco, chi potrebbe essere se non l'ISIS? Se c'è un analogo delle Mujeres Libres di Spagna, chi potrebbero essere se non le coraggiose donne che difendono le barricate a Kobané? Davvero il mondo – e questa volta, cosa più scandalosa di tutte, la sinistra internazionale, si sta rendendo complice del lasciare che la storia ripeta se stessa?

David Graeber

traduzione di Federico Vernarelli

Questo articolo è originariamente apparso su The Guardian l'8 ottobre 2014 con il titolo Why is the world ignoring the revolutionary Kurds in Syria?. http://www.theguardian.com/commentisfree/2014/oct/08/why-world-ignoring-revolutionary-kurds-syria-isis




Kurdistan

Una nuova organizzazione della società

di Giran Ozcan

Spunti libertari, organizzazione ecologica ed emancipazione femminile

KCK (Unione delle Comunità del Kurdistan) è il nome dato a questa organizzazione sociale. Il nome - e la preparazione del suo quadro teorico - è stato proposto dal leader del PKK Abdullah Ocalan dalla sua cella della prigione sull'isola di Imrali in Turchia; nonostante ciò, sia Ocalan sia il PKK riconoscono senza indugi gli indispensabili e inestimabili contributi forniti da Murray Bookchin.
Il KCK è un'organizzazione ombrello democratica, confederale, libera da stato/gerarchia/sfruttamento del Kurdistan libero.
All'interno dell'organizzazione sociale KCK realizzata tra le montagne del Kurdistan, il concetto di denaro è superfluo. I bisogni economici degli abitanti sono internamente soddisfatti attraverso una gestione condivisa delle risorse. Nonostante il denaro sia utilizzato nei rapporti commerciali intrattenuti con l'esterno, all'interno il concetto di denaro è inconcepibile. Nessun singolo o comunità entro l'organizzazione KCK avverte il bisogno di generare un surplus di denaro o di risorse. I surplus sono costantemente redistribuiti e, in questo modo, utilizzati. Rifacendosi alle società pre-gerarchiche e pre-sfruttamento, l'organizzazione KCK adotta la cultura del dono piuttosto che quella dello scambio.
La gestione condivisa dell'agricoltura assicura una produzione ed un consumo di risorse auto-sufficienti, rendendo di conseguenza irrilevanti surplus, valore di scambio e mercificazione di beni.
Il tentativo di emancipazione femminile, da parte dei membri del PKK e della sua leadership, ha avuto inizio con la “distruzione della virilità”. Un attacco nei confronti della falsa virilità inoculata nei soggetti maschili da parte del sistema patriarcale. Questa infusa falsa virilità faceva in modo che, mentre ogni uomo, in ogni cellula del suo corpo, veniva sfruttato e oppresso da parte del sistema capitalistico, questi a sua volta non si astenesse dallo sfruttare la propria madre, sorella, figlia e moglie.
Questa strategia è derivata dall'indagine teorica di Abdullah Ocalan, che lo ha successivamente portato ad affermare che “le donne sono le prime colonie'' e che il primo sfruttamento non è stato quello avvenuto ai danni della classe lavoratrice, bensì quello delle donne. Questo è il motivo per cui l'eguaglianza di genere tra le montagne del Kurdistan è ottenuta attraverso sforzi paralleli di rafforzamento dei poteri delle donne e purificazione degli uomini dalle malattie del patriarcato e dell'organizzazione gerarchica della società.
Le conseguenze pratiche di questo approccio sono: l'equa rappresentanza delle donne all'interno di tutte le posizioni amministrative tramite un sistema co-presidenziale e l'autonoma organizzazione ideologica, politica, sociale e militare delle donne sotto l'organizzazione autonoma: KJB (Unione Suprema delle Donne).
All'interno del Kurdistan libero, le comunità sono organizzate in modo da non considerarsi una minaccia per l'ambiente. Quando possibile, le fonti di energia rinnovabili sono favorite; al contempo, le risorse energetiche come l'acqua e il gas sono consumate in modo simbiotico al fine di sostenere tanto la società quanto l'ambiente.
È promosso il vegetarianismo e la caccia è totalmente bandita, così come la deforestazione (è permesso bruciare solo rami e alberi secchi). Tutto questo è basato sulla premessa che l'ambiente non è fonte di profitto, bensì fonte di vita; l'utilizzo dell'ambiente per sete di profitto soccombe di fronte al riconoscimento di quest'ultimo come fonte di vita.
Alcuni affermano che il PKK “non chiede più uno stato nazionale per i kurdi''. È la verità. Ad ogni modo, ciò che non risulta vero è la ragione a cui ricondurre questo cambio di paradigma.[...]
Gli sviluppi in Rojava (Siria del nord) mostrano che la filosofia del leader del PKK Abdullah Ocalan, invece di rendere più moderate le richieste, sposta, per contro, l'asticella più in alto. Questo è il motivo per cui Rojava non sta combattendo solo per proteggere la propria organizzazione sociale dagli attacchi di gruppi estremisti, ma anche per proteggersi dagli attacchi dei rappresentanti del sistema di capitalismo globale come il KDP, il governo turco, il regime di Assad e l'assordante silenzio dell'occidente!
Il Movimento di Liberazione del Kurdistan guidato dal PKK non sta più chiedendo uno stato nazionale kurdo, il quale riprodurrà solamente sfruttamento, strutture gerarchiche e diseguaglianza di genere; sta piuttosto facendo appello ad un sistema alternativo di organizzazione sociale in cui la questione kurda si risolva parallelamente alle questioni dello sfruttamento, dell'emancipazione di genere e della liberazione di tutti gli uomini. La sua proposta a questo riguardo è il KCK.

Giran Ozcan

traduzione di Carlotta Pedrazzini

Questo articolo è originariamente apparso in www.kurdishquestion.com con il titolo Socialism, gender equality and social ecology in the mountains of Kurdistan.