rivista anarchica
anno 44 n. 394
dicembre 2014 - gennaio 2015






“Oltre noi dilegua”
Le canzoni e i percorsi di Max Manfredi, visionario e giullare

Uno potrebbe pensare che, in tutto questo sfacelo, le canzoni siano una cosa poco importante, ma non è vero: è tutto così poco importante, che tutto è importante in modo uguale, anche le canzoni.
Dice giustamente Giovanni Pascoli nella poesia Alexandros: Alessandro Magno il conquistatore, colui che incide pesantemente sulla Storia, si trova, dopo aver vinto e traversato ogni terra, di fronte al mare, di fronte al nulla. Lì si chiede «tutto qui?». E Pascoli gli fa dire «io non so perché ho fatto tutto questo... c'era una canzone, un canto che intonava Timoteo sul flauto»

“[...] Io non sapea di meta
che mossi. Un nomo di tra le are
Timotheo, l'auleta:
soffio possente d'un fatale andare,
la morte; e m'è nel cuor, presente
in conchiglia murmure di mare.
O squillo acuto, o spirito possente,
passi in alto e gridi, che ti segua!
questo è il Fine, è l'Oceano, il Niente...
e il canto passa ed oltre noi dilegua”.

Appunto, il canto resiste... la canzone è eterna e ci oltrepassa, finché ci sarà memoria.
Chi parla è Max Manfredi. Cercare di intervistare Max è un'esperienza disperante e avvincente. Sono vent'anni che lo considero uno dei massimi scrittori di versi, i suoi dischi li ho ascoltati uno dopo l'altro, man mano che uscivano, con una selvaggia fame di parole, di ritmi, di immagini. La sua lingua è vorticosa, acuta, aguzza, provocatoria. La cura musicale, la ricerca di soluzioni armoniche e timbriche inusuali per la canzone italiana, il canto sospeso fra la grazia distante e impostata di toni quasi lirici e l'aggrovigliarsi beffardo della dizione, in certe tirate più satiriche, ne fanno un artista dalle tante sfaccettature, imprendibile. Ha conquistato un bel pubblico di fedeli sostenitori, che lo seguono nell'incessante attività live e che comprano i suoi dischi a scatola chiusa, ma trattandosi di uno dei migliori, o - come sosteneva de André - del migliore in assoluto, penso che ci siano tanti che potrebbero ancora fare l'incontro illuminante con le sue canzoni.
Da una diecina d'anni godo del privilegio di essergli amico oltre che collega, mi è capitato di fare dei concerti in comune, e di parlarci per nottate intere, ma non m'era mai capitato di provare a indirizzare il suo discorso allo scopo di tirar fuori dalle sue parole un articolo. È un mestiere quasi impossibile: Max è un fiume in piena di visioni, di intemperanze, di citazioni, di riflessioni filosofiche, battute acide, improvvise cadute depressive... poi, se cerchi di portarlo su un argomento che non gli interessa, si congela su un monosillabo.
A trascrivervi degli stralci di questa, a tratti folle, chiacchierata che partiva dall'intenzione di presentare ai lettori di “A” l'ultimo disco di Max dal titolo “Dremong” (è il nome di un raro orso tibetano, probabilmente l'ispiratore della leggenda dello Yeti, l'uomo delle nevi). È un disco bellissimo, ricco di canzoni, immagini, viaggi in molti mondi poetici e musicali, un'escursione fuori dall'ovvio o forse contro l'ovvio, giacché «Accetto una sola etica» dice Max «quella della bellezza, e quella la inseguo ossessivamente brano per brano».
Max Manfredi

Alessio. Eppure, proprio a concludere il tuo nuovo disco, troviamo una canzone “etica”, un canto che fa esplicito riferimento alla resistenza antifascista.
Max. Lo spunto per scriverla mi arrivò da un racconto dell'amico Mario Mantovani, che mi suggerì il titolo del brano Le castagne matte. Io avevo ideato una melodia, che ho associato a quell'atmosfera, arrivando così alla mia canzone. Contemporaneamente, l'allora presidente dell'ANPI, aveva lanciato l'idea di scrivere una sorta di nuovo inno della resistenza. Assieme a Claudio Roncone e Cristiano Angelini abbiamo rielaborato il mio spunto, che è diventato Futuro bella sposa (la si può ascoltare online). La canzone che ne uscì ebbe un grande sostenitore in Don Andrea Gallo, ma nonostante il suo entusiasmo non attecchì per quello che si proponeva di essere. Mi è rimasta l'altra versione, nata dalle stesse “cellule staminali”, che mi somiglia e mi piace di più, e infatti ho messo questa nel disco, e testimonia certo la mia simpatia per la storia della resistenza, ma in modo non didascalico: una favola eroica, che parla della sconfitta oltre che della vittoria della resistenza.

“Sicuri che bruciare noi non si voleva più
le castagne matte la bella gioventù
il vento tra ponte e ferrovia
una “paloma” o un canto di anarchia
in tanti a resistere lassù
è normale quando non resisti più
bella sposa promesse che mi fai
non ti lascio tu non lasciarmi mai
traditora, sorride per un po'
sputa e si allontana con l'ultimo kapò”

A. Questo tuo “Dremong” è a suo modo un disco già atteso dai suoi compratori, nel senso che i costi sono stati finanziati attraverso una piattaforma di crowdfunding online, che tu hai seguito capillarmente presentando i brani del disco con una sorta di tournée preventiva. Quest'esperienza - che nel tuo caso ha avuto un buon successo - ti ha convinto? Trovi che sia un modo significativamente diverso di procedere al finanziamento delle spese di un disco?
M. Direi, meno trionfalisticamente, che è solo una delle strade possibili da percorrere, in assenza della strada maestra, quella che troverei ancora la più auspicabile: l'etichetta/editore che si fa carico di una scelta e produce un disco in cui crede. Dal momento che questo è impensabile, tutte le altre strade sono possibili: questa è una, il problema è che - ad onta delle apparenze - non è molto democratica, perché se non hai le persone che ti appoggiano non ricevi il finanziamento che ti serve. Non a caso quelli che hanno cominciato erano gruppi già famosi.

In rapporto diretto con il pubblico

A. Comunque è una sorta di produzione dal basso.
M. Non la chiamerei così: è una produzione che non è né dall'alto né dal basso. È un tentativo di avere un rapporto diretto con la committenza (sempre sperando di allargare la clientela). Ormai il pubblico finisce che lo conosci quasi individualmente, sia attraverso la rete sia nei concerti, in un rapporto personalizzato che si amplia in modo artigianale. D'altra parte è difficile in questo paese allargare il proprio pubblico senza essere in TV tutti i giorni, cosa che non mi càpita. Siamo tutti costretti a prendere una strada picaresca, da giullare, fatta di centinaia di concerti “porta a porta”, così, lentamente, un consenso si condensa attorno a un prodotto - questa volta davvero dal basso. Gli appassionati si condensano lentamente intorno ai cantanti più resistenti convogliando le loro magre risorse... ce ne sarà per tutti? Per parafrasare John Belushi “quando il gioco non c'è più, i duri cominciano a giocare...”.

A. La traiettoria di quello che scrivi è complessa e difficile da vedere, tanto più che i tuoi dischi sono composti come antologie che mettono assieme canzoni scritte in tempi molto diversi, l'impressione è di trovarsi di fronte a un caleidoscopio tanto bello quanto indecifrabile. Come componi la scaletta di un disco?
M. I dischi sono sempre antologie: mazzi di fiori, magari con la spina o l'insetto velenoso. Non è mai stato il mio caso quello di concentrarmi su un tema per fare un disco. Un mio disco è sempre una lotta contro il tempo, e non lo dico nel senso “thriller” degli agenti segreti: non dico “lotta contro il tempo” nel senso di fare in fretta, fare prima, ma proprio di ingaggiare una battaglia contro il concetto stesso di tempo ridefinendolo, vedendo quanti e quali tipi di tempo ci sono oggi. I greci distinguevano il tempo in Aion, Kronos e Kairos. Ecco, ora il Kronos è certamente andato a male, è tornato a essere solo la pendola, il capello che imbianca... “le mamme imbiancano”, come dicevano le vecchie . Si è sfasciato tutto, sfaldato tutto, non è più possibile ragionare in termini lineari, il nostro tempo non è più leggibile, non è che poi arriverà uno figo a dire «le cose stanno così». Non c'è null'altro che l'esperienza personale, che può diventare storica solo nel momento in cui l'esperienza storica sia così tragica da incidere sull'esperienza personale.
I miei dischi sono una lotta contro il tempo, che vorrei, come si dice, ammazzare e quindi mi tocca riconoscerne le varie modalità, così come il killer deve riconoscere le abitudini della sua vittima.

A. Ci sono delle tue canzoni che, per quanto visionarie, raccontano una storia. Penso in particolare a Luna persa che dava il titolo al tuo precedente album. In questo “Dremong” mi pare che le storie, quando ci sono, sono più indecifrabili e che soprattutto le canzoni siano qui paesaggistiche, che non abbiano un tema preciso, come Diadema, o che parlino del tempo in senso proprio atmosferico come Piogge.
M. Le storie nelle mie canzoni, anche quando ci sono, hanno un montaggio estremamente frammentato, un non-tempo. Una delle mie più vecchie canzoni presenti in “Dremong” è appunto Piogge,che è proprio il casoprincipe del concetto ciclico del tempo che torna su se stesso.

A. È una canzone che si iscrive benissimo in una tradizione, rinascimentale in senso letterario, ma anche della canzone d'autore: a me fa pensare alla Canzone dei dodici mesi di Guccini.
M. Perché a sua volta la Canzone dei dodici mesi si riferisce proprio al rinascimento. Guccini è venuto prima di me, e forse la sua canzone mi ha anche invogliato a fare una cosa di quel tenore... non so più. Mi interessava soprattutto le impressioni lungo l'anno, con questo segnalibro della piogge, mese per mese, perché sempre, almeno una volta al mese, piove.

Allargando il campo del linguaggio

A. Se già il linguaggio di Guccini è letterario il tuo appare ancora più colto, più sorvegliato.
M. Sorvegliato e libero, certamente: la libertà vigilata del linguaggio.

A. Brassens aveva coniato per la canzone la definizione di “Poesia per tutte le tasche” tu però non scrivi affatto “poesia per tutte le tasche”, nelle tue canzoni c'è un linguaggio a triplo, quadruplo fondo, che sembra più avere un rapporto con la letteratura che con la canzone.
M. Direi più che altro un rapporto con la vita. Il che non significa che siano canzoni autobiografiche, ma che hanno rapporto con la mia vita: ciò che ho visto, di cui ho sentito parlare, ciò che ho provato, che ho letto, che ho visto in televisione, che ho sognato, che ho mangiato... Io, diversamente da te, credo che le mie canzoni siano poco letterarie, nel senso che non è più possibile un riferimento alle letterature precedenti, che le rendeva più mediate, e quindi più leggibili. Le mie sono canzoni dove si allarga il campo del linguaggio comprendendo la vita intera, e quando non c'è neppure l'apparenza di una storia è il linguaggio stesso a farsi l'oggetto della canzone. Ovviamente poi c'è il paradosso che più lo allarghi, questo linguaggio, più lo devi sorvegliare.
C'è il racconto - in canzoni come Luna persa o Jan di Leyda - il linguaggio deve starsene buono in nome dell'esigenza epica (che poi non se ne sta buono lo stesso). Dal momento in cui non c'è più quest'esigenza - come in certe canzoni di “Dremong” - il linguaggio fa un po' quello che gli pare. Del resto è in casa sua.

Alessio Lega
alessiolegaconcerti@gmail.com