rivista anarchica
anno 44 n. 394
dicembre 2014 - gennaio 2015






L'osteria dei soprannomi

Per passare attraverso questo libro e arrivare alla fine non ci si può accontentare di una lettura superficiale. Neanche questa volta: i libri di Marco Sommariva, già lo sapevo, non sono roba da portarsi in borsa in spiaggia, né buoni per passare un'ora buca al caffè. Serve un certo impegno. È come se tra le righe che raccontano le storie fossero scritte altre storie, un po' nascoste, un po' che vengono a galla. Serve una certa attenzione. Serve un certo rispetto, se vogliamo. Questo è un po' un caso a parte: certo l'autore è lo stesso, riconoscibilissimo con quel modo tutto suo di parlarti. Eppure questo libro è un mondo completamente a parte rispetto al mucchio di cose che di Marco ho già letto. È quello più sofferto e difficile. È quello più meditato, come non accorgersi del grande lavoro di scavo e rifinitura. Ed è quello che somiglia decisamente meno al resto. Per dirne una, è molto meno racconto e molto più trascrizioni di dialoghi, che durano pagine e pagine lasciando poco posto alle fantasie personali di chi legge. È più facile farsi entrare in testa questa storia non tanto figurandosela come possa accadere giusto qui fuori di casa nel mondo reale, quanto in uno spazio teatrale o come fosse un film, o un qualchecosa che viene più facile immaginare dentro un televisore. Altra differenza, secondo me importante, è che qui dentro non sono stato capace di trovare della musica. Quella musica che, pur se in forme diverse, ha sempre caratterizzato fortemente tutte le storie di Marco che ho letto finora. Qua no. “L'osteria dei soprannomi” (ed. Chinaski, 15 euro) è per buona parte fatto di silenzi, e attraverso questi silenzi trasuda una parte importante della storia, quella “vera”, quella che dà il nome al libro. Silenzio in forma di episodi brevi che a un certo punto finiscono e lasciano mezza pagina vuota, per ricominciare daccapo appena a una ditata di distanza. Silenzio in forma di pagine scritte poco, giusto due righe, una citazione, una manciata di parole prese da altre bocche, messe lì in alto a guardare giù tutto il resto del foglio rimasto in bianco. Silenzio, soprattutto, in forma di puntini di sospensione messi tra una frase e l'altra, come se la storia si interrompesse un attimo a guardarsi intorno e cercare parole in testa, o a cercare respiro, a cercare un po' ossigeno in mezzo all'aria avvelenata. Silenzi come aggiustamenti del ritmo, oppure come indecisioni, come disorientamento.
Le persone dentro a questa storia -mai così reali, così concrete, sembra di riconoscerle tutte- sono travestite da “personaggi”: ognuna ha per maschera un nome finto, un soprannome appunto. Una maschera a volte così improbabile e bizzarra che, come nella vita vera, nasconde per iperbole una verità troppo evidente. La storia si perde, riaffiora, gira l'angolo camminando veloce, giusto un momento prima che tu riesca a guardarla bene in faccia. Si arriva frastornati a pagina 228, e si appoggia il libro lì, a prendere polvere. Ma no, ecco che ritorna in mente... ma cosa si sono detti? Aspetta. E ti ritrovi poco dopo a riassaggiare il libro una briciola alla volta. A cercare un pezzetto di te dentro ogni pagina, disordinatamente. A rileggere i nomi dei capitoli, che sembrano titoli di canzoni, o nomi di poesie.
Pino Masi
Vacanze in Salento, quest'anno. Su QuiSalento (acquisto obbligatorio per chiunque non intenda trascorrere le serate chiuso in casa) scrivono che in un paese non distantissimo da dove siamo c'è un concerto di Pino Masi. Quello della ballata del Pinelli. Quello di “Quella notte davanti alla Bussola”. Quello di “Compagno sembra ieri”. Quello lì, insomma. Primo pensiero: ostrega, non ne ho più sentito parlare da trent'anni (attaccata come una coda a questa frase c'era una considerazione davvero sconveniente, che non trascrivo). Secondo pensiero: andiamoci, dai. Il posto è un circolo dell'Arci, piccolo ma tenuto bene, a Collepasso, circa a metà strada tra Maglie e Gallipoli. Mi resta impresso anche adesso il sorriso sorpreso con cui ci hanno accolto all'ingresso: in fin dei conti Lucia ed io eravamo solo due turisti ficcanaso capitati lì a chiedere informazioni di pomeriggio, mentre stavano pulendo il locale. Sì, è qui, è stasera. Quando ritorniamo c'è gente, la sala si riempie tutta poco dopo.
Prima di Pino Masi c'è Giuseppe Santagada, un ragazzo salentino che canta (e pure bene, va detto) le canzoni di “Storia di un impiegato” accompagnandosi alla chitarra e con la collaborazione di un flautista. Sono rimasto favorevolmente impressionato da come, spesso nel corso della sua esibizione, Giuseppe si sia staccato da quella che poteva essere comunque un'onesta riproposizione, per metterci dentro un po' meno di De André e un po' più di se stesso, tirando fuori quella sua voce così piacevole, adattando le frasi e i respiri alla propria personalità. Penso sarebbe bello sentire anche canzoni scritte di suo pugno. Chissà.
Pino Masi

Pino Masi è una bestia strana: i suoi occhi hanno guardato da vicino quasi settant'anni di storia, li tiene spesso socchiusi ma quando ti guarda in faccia è come se ti passasse sul viso due punte da trapano. Quei quasi settant'anni di storia glieli ritrovi tutti in gola: una voce inaspettata e senza tempo, solida come un quattromila alpino (lui che è siciliano e cresciuto a Pisa, vai a dire) che contrasta con la carta geografica accidentata e ruvida che porta in faccia.
Sono i contrasti, le sorprese, gli spiazzamenti che caratterizzano la serata. Non è un vero e proprio concerto, nel senso di ripetizione multipla della sequenza introduzione-canzone-applausi, quanto una specie di spettacolo di saltimbanchi, approssimativo e gioioso, davanti al quale si fa fatica a restare seduti (si starebbe meglio per strada). Sono davvero poche, due o tre forse, le canzoni eseguite per intero: Masi si interrompe, racconta, riprende la canzone dall'inizio o da una qualsiasi altra parte, si interrompe ancora, ci pensa sopra, racconta meglio. Immagino gli sia impossibile essere anche oggi un cantautore normale. Non lo è mai stato, un cantautore normale: lo direi piuttosto un sognatore a voce alta, un utopista irriducibile, uno che non ha mai smesso di avere voglia di provare a cambiare il mondo. Non me lo vedo né come monumento vivente alla Coerenza, né come personificazione della Memoria Storica, men che meno come jukebox del Bel Tempo Che Fu.
Se Pino Masi fosse una cosa sarebbe un albero centenario con le radici affondate nel terreno e aggrappate ai sassi, alto coi rami forti che non hanno paura alcuna di vento pioggia o grandine dove trovano casa tutti gli uccelli canori del cielo. A fine serata resta a scambiare parole e strette di mano con tutti. È a un metro da te a sistemare la chitarra nella custodia con gli stessi gesti di un guerrigliero che ripone il fucile, mentre con la testa è già là dove sarà a cantare domani, o dopodomani.

Marco Pandin