rivista anarchica
anno 44 n. 394
dicembre 2014 - gennaio 2015


 


Sobrietà
nell'abbondanza

Il libro di Pierre Rabhi La sobrietà felice (Add Editore, Torino, 2013, p. 192, € 15,00) ben si sposa con quello di Maurizio Pallante, Monasteri del terzo millennio, recensito lo scorso numero. Addirittura direi che i due si completano a vicenda avendo entrambi a cuore il comune denominatore di favorire tutte quelle azioni che aiutino la comprensione della necessità impellente di smetterla di “crescere”, ma fondare nuovi paradigmi di pensiero che colleghino passato e futuro creando nel presente una vita sostenibile per tutti.
Pierre Rabhi è di origini algerine e vive in Francia, nella zona dell'Ardèche, facendo l'agricoltore, da quando aveva poco più di vent'anni. Da allora insieme a sua moglie e alla sua famiglia ha pian piano trasformato un luogo spoglio e austero, come dice lui stesso, in una modesta oasi, in un piccolo regno di pazienza che offre loro da vivere e dove hanno costruito la loro vita legata a quella della natura. È risaputo che il “miracolo economico” che ha avvantaggiato - e chissà se continua ad avvantaggiare - solo un quinto dell'umanità, è potuto avvenire perché i Paesi del Sud hanno fornito materie prime e manodopera a buon mercato. Oggi i risultati di questo squilibrio planetario sono divenuti macroscopici, così «non avendo costruito il mondo con umanità, si è costretti a fare azioni umanitarie». Per cercare di limitare proprio questo tipo di interventi, fra le molte sue attività, Rabhi insegna tecniche d'agro-ecologia in parecchi Paesi del Sahel (Burkina Faso, Niger, Mali) e anche nel Maghreb, in modo tale che i contadini poveri possano fertilizzare una terra difficile senza dover ricorrere ai concimi chimici per i quali, oltretutto, dovrebbero indebitarsi.
Nel pensiero di questo “poeta della terra” c'è l'idea che l'unica cosa veramente utile da fare sia cambiare l'essere umano, cominciando con l'insegnargli, fin dalla più tenera età, a essere solidale con il suo prossimo e non entrare nel circolo vizioso della competizione. Come molti, anche lui è convinto che l'azione politica sia ovunque, in ogni atto della vita quotidiana e nel comportamento di ogni consumatore. Anche coltivare il proprio giardino è un atto politico, un atto di resistenza che ci riporta al senso dell'umano. Sull'onda di questi pensieri, dalla sua esperienza personale e dagli incontri intessuti con altre persone sono nate diverse e interessanti esperienze collettive di cui si può avere notizia sul web (vedi: www.lesamanins.comwww.colibris-lemouvement.orgwww.la-ferme-des-enfants.comwww.oasisentouslieux.org).
Ma torniamo al libro e all'idea di sobrietà felice. Per essere chiaro e far comprendere a fondo l'idea di vita sottesa a queste due parole Rabhi si avvale di racconti e metafore, confronta antichità e modernità, cercando di non mitizzare, tantomeno demonizzare, nessuna delle due. Racconta, e per farlo parte dalla sua storia e da quelle altrui. Non è un teorico ma un uomo legato alla terra e il suo parlare ha la stessa risonanza delle fiabe, un linguaggio semplice ma, proprio per questo, estremamente efficace. Partendo dall'odierna contingenza chiarisce e rende evidente ciò di cui da sempre abbiamo bisogno, ciò che è importante perché costruisce fondamenta nell'animo in subbuglio.
Mi spiego meglio e, come esempio, riporto alcune righe da un articolo comparso su Il manifesto (del 14/5/14, a proposito del libro di Hessel Esigete! Un disarmo nucleare): «Il budget del nucleare militare nel mondo per i prossimi dieci anni è previsto in mille miliardi di euro. Una cifra che non include il grande comparto di spesa che finanzia l'intersezione fra nucleare militare e civile...». Proseguo, citando dal libro di Rabhi: «Ogni sperpero è proibito dalla morale sacra in quanto offesa alla natura e ai principi che la animano [...]Questa sobrietà nell'abbondanza è una lezione di nobiltà. Pensiamo al magnifico discorso che il capo indiano Seattle ha indirizzato al presidente degli Stati Uniti, il quale gli proponeva di acquistare il territorio del suo popolo [...]: “Io sono un selvaggio e non conosco altro modo di vivere. Ho visto un migliaio di bisonti marcire nella prateria, abbandonati dall'uomo bianco che li aveva abbattuti sparando da un treno di passaggio”».
Trovo questa immagine emblematica di tutto ciò che ci ha portato alla condizione in cui siamo, e siamo ancora lì, soltanto con strumenti molto più pericolosi dei fucili (vedi il nucleare di cui sopra). L'inutile sterminio della vita (inquinamento del suolo e dei mari, sfruttamento delle risorse fossili, deforestazione, guerre su guerre e poi, come ciliegina sulla torta, il nucleare, civile e militare) sembra non aver fine. Una parte potente dell'umanità è assolutamente folle e la nostra specie, insieme a tante altre, è a rischio d'estinzione.
È una lotta impari e tanto vale arrendersi, verrebbe da dire. Invece sono proprio figure come quella di Pierre Rabhi – e molte altre affini, anche in ambiti diversi, magari poco conosciute, ma che esistono e lavorano – che ci sostengono nello sforzo di opposizione. Sono loro a costituire lo zoccolo duro che rema al contrario, che alla distruzione oppone costruzione di realtà vitali e pensiero intelligente, che permette all'umanità intera di non precipitare completamente nel baratro. Esempi di persone normali che hanno iniziato ad agire partendo dalla propria vita, scegliendo di non rinunciare alla propria libertà in cambio di denaro, inventori di strategie della sopravvivenza.
«La sobrietà felice non può ridursi ad un'attitudine individuale, ripiegata su se stessa. Partendo da uno stile di vita personale, siamo tassativamente invitati a lavorare per la sobrietà nel mondo. Passare dalla logica del profitto senza limiti a quella della vita è una questione di cambiare paradigma, come dicono gli scienziati. [...] Rifondare il futuro sulla logica della vita implica innanzitutto rinunciare ai miti fondatori della modernità, incompatibili con tale proposito. [...] Cambiare paradigma significa, secondo le nostre aspirazioni, mettere l'uomo e la natura al centro delle nostre preoccupazioni e mettere tutti i mezzi di cui disponiamo al loro servizio. [...]”Solo dopo che l'ultimo albero sarà stato tagliato, che l'ultimo fiume sarà stato avvelenato, che l'ultimo pesce sarà stato catturato, solo allora scoprirete che il denaro non si mangia”. Questa profezia è pura intelligenza, quella delle popolazioni autoctone, primitive, tradizionali, poco importano gli aggettivi».
Sarebbe utile che ognuno di noi invece che vivere “come sempre” facesse della propria quotidianità il campo di sperimentazione, sarebbe utile ricavare le teorie dal confronto delle pratiche, sono molti quelli che ci stanno provando e anche su queste pagine sono comparse diverse testimonianze in tal senso, ma ciò che un libro come questo sollecita è l'estensione a macchia d'olio, qualcosa che abbia la forza di allargarsi e allargarsi. La forza dei piccoli che fanno la loro parte.

Silvia Papi



Rudolf Rocker,
ovvero l'importanza della cultura per la liberazione

David Bernardini, l'autore del libro Contro le ombre della notte. Storia e pensiero dell'anarchico tedesco Rudolf Rocker (Zero in condotta, Milano, 2014, pp. 148, € 12,00) che scrive di aver incontrato Rocker per caso, ha colmato una lacuna nel panorama storiografico italiano relativo al rivoluzionario tedesco, che fu protagonista delle principali vicende dell'800 e della prima metà del 900. Trattare di Rocker vuol dire trattare di un vasto periodo storico, che si snoda dalla presenza di Bismark in Germania, all'avvento del secondo dopoguerra. Il libro di Bernardini è prevalentemente rivolto agli aspetti biografici del pensatore e militante, ma non esclude la descrizione del più maturo pensiero di Rocker, quale emerge dall'opera maggiore Nazionalismo e Cultura.
La biografia di Rocker consente al lettore di comprendere come, in Rocker, si sia sviluppato il concetto, profondamente caratterizzante la sua teoria dell'anarchismo, della cultura, intesa come valore, che ha una funzione emancipatrice, antitetica al potere. Il libro individua le basi della formazione di Rocker nella Germania bismarckiana, percorsa dalla prime scissioni a sinistra di gruppi consistenti di giovani socialdemocratici, mentre nella clandestinità sono diffuse le letture degli scritti di Bakunin, che suscitano entusiasmi nell'ambiente politico nel quale Rocker muove i suoi primi passi. A 19 anni Rocker, per le sue idee politiche, è costretto ad emigrare prima a Parigi, nel periodo tempestoso della propaganda del fatto e successivamente a Londra, dove vive e milita, diventando il portavoce dei lavoratori ebrei, avendo studiato l'yiddish a Parigi e votandosi alla loro causa. Massimo Ortalli nel libro Ritratti in piedi, dialoghi tra storia e letteratura, Imola, 2013, in Un giovedì da anarchici. Attorno all'uomo che fu Giovedi di Gilbert Keith Chesterton (1908 pag 434), scrive che nei primi anni del 900 “a Londra vivevano ed operavano personaggi quali ad es. Kropotkin, Malatesta, Rocker, Malato, Tcherkesow, Shapiro, Tarrida del Marmol”, ... ossia a dire gli esponenti più noti dell'anarchismo internazionale.
Max Nettlau in Histoire de l'anarchie Paris (p. 235) scrive che negli ultimi anni dell'800 “uno dei movimenti anarchici europei fra i più intensi e diffusi fu quello degli ebrei dell'antica Russia e della Galizia austriaca, che parlavano l'yiddish, cioè un tedesco mischiato a numerose parole ebree e slave. Gli emigrati ebrei hanno creato dei forti movimenti operai, soprattutto a Londra e negli Stati Uniti; socialisti dal 1885 circa, in gran parte anarchici dal 1890, provvisti di giornali di lunga durata, di opuscoli, di traduzioni. La Rivista Germinal fu redatta da Rudof Rocker che, attirato da questo movimento, seppe dominare la lingua parlata e scritta”.
Sono anni fondamentali nella formazione di Rocker, inserito nel mondo cosmopolita della immigrazione, bruscamente interrotti dallo scoppio della I guerra mondiale. L'ondata di sciovinismo, che si abbatte su tutti quei cittadini che, anche naturalizzati inglesi da generazioni, provengono dai Paesi belligeranti con l'Inghilterra, e la Germania è fra questi, non risparmia Rocker e la sua famiglia, dividendola per la durata della guerra e imprigionando Rocker, con i suoi connazionali, nei campi di concentramento allestiti dal governo inglese per i nemici interni.
La cura dettagliata con la quale Bernardini descrive il periodo londinese, le traversie che seguono all'internamento e la successiva esperienza, una volta rientrato Rocker in Germania nel primo dopoguerra, del sorgere e dell'avvento del nazismo mette in grado il lettore di capire perché Rocker attribuirà, nella sua opera maggiore, prioritaria importanza alla cultura per l'emancipazione degli individui e dei popoli.
Cultura della libertà, intesa come strumento forgiato per opporsi al fanatismo ideologico, dalle caratteristiche populiste, promosso dal potere, che Rocker riscontrerà di nuovo operativo sia nella marcia di conquista del nazismo in Germania che nel suo suggello elettorale. Alla opposizione in linea di principio, se non all'ostilità di Rocker nei riguardi della democrazia, e nello specifico delle democrazie occidentali, impotenti per anni di fronte al sorgere del fascismo e del nazismo, fa riscontro un vero entusiasmo per il classico pensiero liberale, del quale Rocker ha illustrato la variante nord-americana nel libro I pionieri della libertà.
Con la precisazione però che, come scrive Cesare Zaccaria, nella introduzione al primo volume di Nazionalismo e Cultura nell'edizione del 1960, “È ovvio che quando Rocker parla di “liberalismo” come di un movimento che si separa dalla democrazia e che solo fino ad un certo punto trova sede nei movimenti socialisti, egli ha in mente i liberali delle società anglosassoni, non certo i conservatori nostrani che per noi si mascherano con tale nome”.
L'autore ci mostra come, arrivato dopo il periodo inglese nella Germania della rivoluzione dei consigli, sorta nel vuoto di potere seguito alla sconfitta bellica, Rocker contribuisce, nel congresso tenuto tra il 27 e 30 dicembre 1919 a Berlino, dalla Libera Unione dei Sindacati tedeschi, all'importante dichiarazione dei Principi dell'anarcosindacalismo, che si richiama esplicitamente ai postulati di Saint-Imier. Rocker resta attivissimo durante la Repubblica di Weimar, battendosi contro il bolscevismo e le sue persecuzioni antianarchiche e contro il sorgente nazismo, finchè in circostanze drammatiche, appena insediatosi Hitler, riesce a sfuggire al nazismo e giungere negli Stati Uniti, con la compagna ed i figli.
La biografia di Rocker, come scritta dall'autore, non trascura la personalità di Milly e non la appiattisce nella funzione di compagna devota, ma la descrive nelle sue relazioni con il compagno e con il movimento nord-americano ed internazionale, nonché nella sua autentica personalità e nella sua tenacia nelle idee condivise con il compagno.
Il rifugio americano è l'ultima tappa dell'esistenza di Rocker. Con la sua morte il 10/9/1958 non termina la vita delle sue idee, racchiuse soprattutto nella sua opera maggiore, che è stata tradotta nella maggior parte delle lingue del mondo. Senza doversi chiedere ancora se l'anarchismo di Rocker sia di derivazione liberale o bakuninista, perché in effetti deriva da ambedue le fonti, è da sottolineare il suo messaggio universale di condivisione delle sorti dei più oppressi, come Rocker testimoniò con tutta la sua vita. Nelle sue memorie Rocker ricorda “gli anarchici di origine tedesca e francese dei quartieri occidentali di Londra” che, durante la prima guerra mondiale allestiscono le cucine economiche per aiutarsi e soccorrersi vicendevolmente, mentre nel continente migliaia di proletari, eseguendo gli ordini dei loro governi, cercavano di togliersi l'un l'altro la luce della vita” (p. 65, Contro le ombre della notte). La capacità di pensare per vasti orizzonti, che Rocker ebbe in sommo grado, pur essendo allo stesso tempo ben radicato nelle lotte quotidiane di base, a Londra come in Germania, a Parigi come negli Stati Uniti, venne colta con acutezza e lungimiranza da Aurelio Chessa nella sua introduzione al libro di Rocker “Artisti e Ribelli Scritti letterari e sociali”. Aurelio Chessa, che pubblicò questo libro nel 1996 scrisse, fra l'altro che; “la lettura di questo testo offre l'occasione di conoscere alcune delle caratteristiche fondamentali e originarie dell'anarchismo internazionale a cavallo tra 800 e 900. In particolare gli scritti di Rocker rappresentano una critica stringente e puntuale delle correnti socialdemocratiche e autoritarie presenti nel movimento operaio. Esse, in un periodo storico come quello attuale, in cui un imperante conformismo tende a distruggere ogni sana aspirazione all'uguaglianza e alla libertà, possono rappresentare un importante riferimento ideale per le giovani generazioni”.

Enrico Calandri



Una storia mondiale
dell'anarchia

Quasi trecento pagine per raccontare e documentare un'appassionante e coinvolgente storia mondiale dell'anarchia. Lo fa Gaetano Manfredonia in un libro fresco di stampa (Histoire mondiale de l'anarchie, Arte Editions/ Editions Textuel, Parigi, 2014, pp. 288, € 45,00). In un'elegante veste tipografica il volume, con centinaia di foto e immagini di grande qualità a colori e in bianco e nero, ripercorre la storia dell'anarchia dalle origini ai giorni nostri.
Dal 1789, l'anno della rivoluzione francese che l'autore considera la maggiore rottura rivoluzionaria nella storia contemporanea e un ponte tra le idee e la pratica anarchica, fino alla caduta del muro di Berlino, Manfredonia ci offre - con una straordinaria e intelligente capacità di sintesi - l'essenziale dei valori, delle idee e delle lotte degli anarchici. Dall'Italia alla Francia, dalla Spagna alla Russia, dall'Argentina gli Stati Uniti, dall'Egitto a Israele, dalla Cina al Giappone nel volume si trova per la prima volta insieme la storia mondiale degli anarchici e dell'anarchia, attraverso storie e vicende di uomini e di donne, attraverso le copertine dei libri e le prime pagine dei giornali in ogni lingua, compreso un periodico anarchico in lingua yiddis, Arbeter fraynt, pubblicato a Londra dal 1885 al 1914. Una storia di passione e di partecipazione disinteressata, che si intreccia con persecuzioni e sacrifici, che non ha eguali nelle altre storie del pensiero politico, in quanto l'anarchico, in qualunque latitudine e longitudine, non ha mai lottato per conquistare un qualsiasi potere o per interessi personali, ma esclusivamente per la libertà di tutta l'umanità.

Gaetano Manfredonia

La qualità e la varietà dell'iconografia conferisce a questo volume, del quale si auspica anche un'edizione italiana, un carattere speciale di tensione politica e di documentazione storica ed archivistica: le foto, le riproduzioni di lettere e di manoscritti, di canzoni e di caricature, che provengono da vari archivi anarchici, sparsi nel mondo, testimoniano in maniera eloquente come l'anarchismo ha contributo a fare evolvere e a far migliore la società e la vita, rivendicando e difendendo i valori dell'autonomia, della libertà e della solidarietà tra tutti gli uomini. Documenti inediti e vivi, perché parlanti nel loro silenzio, rimettono in scena uomini e donne che, nel loro contesto sociale e politico, hanno costruito con coerenza le tappe storiche di un cammino di libertà. Il volume affronta anche tematiche di grande interesse e ancora oggi dibattute, come l'individualismo e l'insurrezionalismo, il collettivismo e l'illegalismo, il sindacalismo, la geografia, la morale, la solidarietà, il femminismo, ecc.
Il volume è diviso in tre parti. Nella prima parte, dalle origini al 1914, si parla dell'anarchia e dell'anarchismo, delle rivolte individuali e delle azioni collettive e di come cambiare l'individuo per cambiare la società. La seconda parte riguarda gli anarchici tra guerra e rivoluzione nella morsa delle due guerre mondiali, la loro opposizione alla guerra e il loro pacifismo al di sopra delle frontiere, la loro opposizione concreta al fascismo, al nazismo, al franchismo e al bolscevismo. La terza parte è dedicata alla continuità della lotta anarchica, per costruire un mondo nuovo e libero, soffermandosi sulla difficile ricostruzione del movimento anarchico, sul dopo franchismo, su Cuba libera, sui kibboutz israeliani, sulle lotte anticoloniali, sulle lotte per l'obiezione di coscienza al militarismo fino al maggio 68 e all'ecologia sociale. Una panoramica quanto mai interessante, nel corso della quale incontriamo - giusto per citare qualche nome tra i tanti - Charles Fourier, Joseph Produdhon, Michele Bakunin, Eliseo Reclus, John Most, Max Nettlau, Errico Malatesta, Nestor Makhno, Rudolf Rocker, Francisco Ferrer, Pietro Kropotkin, Pietro Gori, Louis Leçoin, Luisa Michel, Emma Goldman, Voltairine De Cleyre, Leda Rafanelli, Giovanni Rossi, Giuseppe Pinelli, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.
Anche se pubblicato da due case editrici francesi, il libro è stato stampato da una tipografia italiana e Gaetano Manfredonia è un anarchico italiano di origini foggiane, che da molti anni vive e lavora in Francia come professore di scienze economiche e direttore delle biblioteche territoriali e della Biblioteca de la Corrèze e, oltre a collaborare alla stampa anarchica, ha pubblicato in lingua francese ricerche su Luigi Fabbri, sulle canzoni anarchiche e nel 2001 il volume L'anarchismo in Europa.
Per le richieste, www.arteboutique.com oppure www.editionstextuel.com.

Giuseppe Galzerano



Dalla parte
dei contadini di Biancavilla

Quella di Antonio Bruno è stata una delle più singolari e originali delle esperienze letterarie siciliane del secolo scorso, iniziata ormai più di cento anni fa, nel 1913, con la pubblicazione dei suoi due primi libri: il saggio Come amò e non fu riamato Giacomo Leopardi e la raccolta di poesie dal titolo More di macchia.

Antonio Bruno

Nato a Biancavilla, in provincia di Catania, il 1891, unico figlio di una famiglia nobile e agiata, Bruno, dopo un'approfondìta formazione scolastica ricevuta al Convitto Cutelli di Catania, sotto il magistero del docente e scrittore Francesco Guglielmino, vivifica i suoi interessi letterari, che poggiano sulla solida e ben assimilata conoscenza dei classici, guardando al suo tempo e appassionandosi alle poetiche, ai proclami e ai poemi dei futuristi che sembrano infiammare, con la loro diffusa presenza, città e paesi della Sicilia intera; che sono attivi nella Catania colta e aperta al nuovo che lui frequenta e finanche nella più vicina e piccola cittadina di Regalbuto, distante pochi chilometri da Biancavilla, dove proprio nel 1913 si reca Filippo Marinetti e vi trova un circolo di poeti futuristi che lo meravigliano per vivacità e creatività, tanto che, preannunciando in una lettera ad Aldo Palazzeschi che gli parlerà di loro, lo informa, intanto, che 'fanno cose da pazzi'. Approdato, quindi, con convinzione e fervore, al futurismo, Bruno ne diventerà ben presto uno dei migliori e più partecipi esponenti. Contribuerà a fondare, a Catania, la rivista Pickwick, il prodotto più raffinato dell'avanguardia letteraria della città; poi, lasciata la sua terra odiata-amata e stabilitosi a Firenze, parteciperà alla redazione de L'Italia futurista, la rivista diretta da Emilio Settimelli, e nel 1917, scriverà Fuochi di bengala, uno dei suoi libri migliori - un originalissimo collage di poesie visive, di pagine di diario, di lamentazioni e provocazioni e di canti che esaltano l'amore-passione contro le limitazioni della morale piccolo-borghese, perbenista e provinciale del suo tempo - che accrediterà il suo genio letterario, non solo nell'ambiente degli scrittori futuristi ma in generale nel più vasto mondo della cultura e della critica letteraria italiana.
A testimoniare gli auguri, gli apprezzamenti e i commenti entusiastici di scrittori e intellettuali, di vario orientamento culturale, per questa sua opera e in generale per la sua raggiunta eccellenza poetica - che rimase però allora, e lo è ancora oggi, poco conosciuta e valorizzata - sono le carte d'archivio di Antonio Bruno, recuperate qualche anno fa e adesso conservate (e messe a disposizione del pubblico e degli studiosi) alla Biblioteca Comunale di Biancavilla. Artefice dell'operazione di ritorno al luogo d'origine dei documenti di Bruno, è stato il cultore di storia locale Placido Sangiorgio, che si è adoperato affinchè un parente dello scrittore, Alfio Fiorentino, donasse, nel 2011, al Comune di Biancavilla, il prezioso tesoro cartaceo che suo nonno aveva ereditato, settantanove anni prima, dallo scrittore. Lo stesso Sangiorgio ha curato, sempre nel 2011, la pubblicazione di un bel volume che riproduce buona parte delle 'carte segrete' che testimoniano della suggestiva 'avventura futurista' di Antonio Bruno e che svelano quanto ampio e variegato fu il coro di giudizi positivi nei confronti del suo libro Fuochi di bengala, espressi, in accorate lettere, da Ada Negri ('vi è una vellutata delicatezza nelle pagine che lei scrive, vi sento il tocco di un'arte fine, il palpito di un cuore ancora bambino, gli accenti di una meravigliata sensibilità'), da Giuseppe Borgese ('le sue pagine sono piene d'ingegno'), da Dino Campana ('il vostro libro mi piace perché c'è la saldezza della tempra aristocratica che è necessaria per salvare il carattere nella letteratura'), da Giovanni Verga ('ancora molto lei potrebbe darci, anche senza gli astrattismi futuristici perché il futuro è in lei') e da tanti altri.
Ma le carte inedite del poeta di Biancavilla offrono la possibilità di 'leggere' tutto il suo articolato e difficile percorso umano e poetico. Vi si trovano, infatti, le tracce del suo rapporto problematico con il paese natio (dove, come gli scrisse, sapendo di compiacerlo, il suo amico Filippo Leocata 'le anime d 'eccezione vengono torturate da un' intellettualità grottesca, da un' imbecillità diffusa e da una delinquenza imperante') che lo portò per tutta la sua breve vita a fughe disperate e liberatorie (a Firenze, a Parigi) e a nostalgici ritorni, quasi sempre deludenti; i numerosi abbozzi di trame e spunti narrativi; le lettere a donne amate a lungo e follemente e ad altre che gli furono compagne di poche ore (e quelle, sempre affettuose indirizzate ai suoi genitori); i disegni e gli schizzi di futuristiche parole in libertà; tanti fogli di diario; le diverse testimonianze sulla sua produzione letteraria migliore (Un poeta di provincia, 50 lettere d'amore alla signorina Dolly Ferretti, etc.) e sulla sua attività di traduttore (di un' opera del francese Pierre Louys e del celebre racconto Il corvo di Edgar Allan Poe); le corrispondenze importanti con l'artista Giacomo Balla, con Giuseppe Ungaretti etc., ed anche i reperti grafici e testuali del suo degli ultimi anni della sua vita (a cui deciderà di porre fine con il suicidio, avvenuto nel 1932 nella stanza di un modestissimo albergo di Catania) quando proverà a scrivere un poema dai versi visionari, utopici e anarchici che intitolò Canti Nuziali di Maria d'Albaville ad Antonio il Bruno all'alba della Terra Nuova,, firmandolo con lo pseudonimo di Conte d'Alberville.
Inoltre, il volume, tra tanto e interessante materiale documentario, riporta anche gli scritti del giovanissimo Bruno, dove l'entusiasmo per le lettere e le arti si coniugava con la passione politica e la difesa degli umili e degli oppressi che lo scrittore vedeva concretamente nei contadini delle campagne di Biancavilla, ai quali, mostrando la sua sensibilità umana e i suoi convincimenti egualitari, rivolgeva così le sue parole in un manifestino pubblico scritto a difesa dei loro diritti e fatto stampare a sue spese: 'Voi mi piacete quando soggiorno nel luogo dove sono nato, perché solo in Voi, nei vostri cuori semplici, vivono per istinto il senso della giustizia e della bontà che l'uomo porta con sè dalla nascita, e che la società coi suoi ordinamenti stabiliti dai più potenti e dai più crudeli rende inutili e dannosi, in una necessità immorale di lotta per l'esistenza, non dell'uomo contro la natura inclemente e avara dei suoi beni, ma dell'uomo contro l'altro uomo, al fine di sopraffarlo e di godere del lavoro di lui e della sua sopraffazione'.
A più di cent'anni dal suo inizo, l'avventura poetica di Bruno meriterebbe sicuramente maggiore fama e diffusione e lo studio ulteriore delle sue carte, consultabili nella sede della biblioteca di Biancavilla, potrebbe ben servire allo scopo.

Silvestro Livolsi



Poesie
dal profondo carcerario

La narrazione in forma poetica della realtà carceraria è la proposta di questo breve, ma intenso contributo di Maria Grazia Greco (Matricola n. 20478. Il carcere che si prende la vita, Sensibili alle Foglie, Cuneo, 2014, pp. 96, € 14,00).
Interessi su tematiche dell'emarginazione, del disagio sociale e attività di impegno civile hanno portato di recente l'autrice a decidere di lavorare come docente a Rebibbia, nel reparto G12-Alta Sicurezza. Il reparto speciale per mafiosi, camorristi, narcotrafficanti, per chi è condannato a “fine pena mai”. E nel reparto G9, quello dei pedofili e stupratori dove chi ci arriva è emarginato anche dal codice non scritto dagli stessi carcerati.

“Perché mi avete messo qua
nel reparto speciale
il reparto degli infami
dei paria
degli 'intoccabili'
quelli scansati schifati da tutti
pederasti spie stupratori guardie infedeli
Superiore, te l'ho detto!
Non sono un pederasta, io!
Sì che lo sei.
Se c'è scritto qui è vero.”

Un'esigenza di riflessione e di denuncia, un'altra voce che decide di restituire attraverso parole in versi la non-vita del carcere. La lettura, la cantabilità, l'accostamento più intimo dei versi liberi contribuiscono ad elaborare nell'immaginario la realtà dei reietti umani.
Uno spiraglio, la scelta di sedersi tra i banchi di scuola in un carcere. Volontà di elevazione culturale e intellettuale, e insieme aspirazione al reinserimento nella società. Un'altra possibilità di vita, una volta scontata la pena:

“la scuola in carcere è un'opportunità
che non si può,
che non si deve perdere
un possibile orizzonte d'umanità,
di elevazione
per chi impara e per chi insegna,
per voi che apprendete da noi
per noi
Sì, anche per noi”

Una pena che suona come una vendetta. Senza speranza. Senza appello. Ogni istante là, sottratti alla vista, in celle 3x4, si muore di carcere.

“Superiore, se mi lasciate qui con i pederasti...

Io...IO M'IMPICCO

E Impiccati!
Sai che perdita?
Solo uno dei tanti
Solo un rifiuto di meno
Un rifiuto puzzolente di meno!”

Una scrittura immediata e profonda, ricca di forza che costringe a pensare. Parole per un teatro civile, capace di smuovere le coscienze e svelare allo sguardo pubblico la disumanizzazione in atto.

Claudia Piccinelli



Alle origini
dell'anarcha-feminism

Nel suo libro La donna più pericolosa d'America (La Fiaccola, Ragusa, 2014, pp. 112, € 12,00), Pamela Galassi spiega le motivazioni che la portano a considerare l'anarchica Emma Goldman come la “epioniera del femminismo contemporaneo”. Ritenuta una delle prime militanti femministe, durante l'arco della propria vita si prodigò affinché la questione dell'emancipazione della donna potesse considerarsi argomento di assoluta importanza, soprattutto all'interno dei movimenti radicali.
In forte e aperto contrasto con i movimenti suffragisti dell'epoca, concentrati principalmente sull'acquisizione del diritto di voto e da lei giudicati “da salotto”, promulgò la necessità per le donne di un'emancipazione dagli agenti esterni (patriarcato, restrizioni economiche, restrizioni politiche) e interni (moralismi), ma anche dalla stessa idea di emancipazione proposta dalle aderenti al movimento suffragista.
“Goldman, partendo dalla convinzione che l'indipendenza delle donne prenderà il via da una rigenerazione dell'individuo-donna non solo a livello esteriore, attraverso miglioramenti economici e politici, ma anche, anzi soprattutto, interiore, da una trasformazione del modo di pensare, afferma che per liberarsi dagli ostacoli esteriori e interiori è necessario opporsi al dominio che le istituzioni esercitano sui corpi e le menti, un dominio che distorce la personalità, che porta alla passività, all'omologazione. All'interno del processo di rottura da questa dipendenza economica e psicologica, il tema della sessualità diviene centrale soprattutto per l'individuo-donna, secolarmente oppressa dal patriarcato e dalla morale puritana”.
L'autrice sottolinea come il femminismo di Goldman sia diretta espressione della tipologia di anarchismo di cui si faceva promotrice e che poneva l'individuo al centro della società. Per lei, ogni singolo doveva liberarsi da coercizioni di qualsiasi natura poiché solo in questo modo la rivoluzione avrebbe potuto compiersi. “L'individuo [...] necessita di operare una profonda liberazione personale, in quanto mutamento personale e mutamento sociale sono due elementi inscindibili di un unico processo rivoluzionario”.
Affinché una rivoluzione potesse avvenire, era indispensabile il verificarsi dell'affrancamento da tutte le imposizioni che non permettevano a uomini e donne di vivere liberamente. Per Goldman, quindi, la questione femminile era elemento indispensabile per una rivoluzione sociale. Questa sua convinzione la portò a scontrarsi con molti compagni anarchici e appartenenti a movimenti radicali convinti che, una volta sovvertito l'ordine sociale e politico, l'emancipazione della donna sarebbe avvenuta naturalmente. Per loro era un errore porre la questione femminile al centro delle battaglie; tutti gli sforzi sarebbero dovuti essere riposti nella causa dei lavoratori, mettendo da parte, temporaneamente, il femminismo.
Impegnatissima in campagne di informazione e propaganda, i temi di cui si trovò a dibattere furono la prostituzione, l'amore libero, il matrimonio, la libertà sessuale, la maternità, il controllo delle nascite e i metodi contraccettivi. Convinta che non potesse esserci progresso senza educazione, il suo impegno in campo informativo e divulgativo fu molto forte.
Il volume di Pamela Galassi fornisce un quadro delle idee di Emma Goldman in ambito femminista; dalle idee che l'hanno influenzata, fino allo sviluppo del suo pensiero, alle battaglie combattute e ai temi affrontati che hanno fatto di Goldman una delle anarcha-feminists più combattive del suo tempo.

Carlotta Pedrazzini



Al di qua e al di là
della pena di morte

Abbraccia un albero per me di Christine Kaufmann (Effigie edizioni, Milano, 2014, pp. 127, € 15,00), non è solo un libro di accusa sull'atrocità e assurdità della pena di morte, ma è anche e soprattutto la storia di un rapporto intenso e molto intimo.
L'autrice è una donna tedesca che, dopo aver vissuto nelle isole greche, in Messico, alle Canarie e in Costa Rica (dove conosce un italiano che sarà il compagno della sua vita), si stabilisce nell'entroterra framurese, in una casa di pietra che ha più di mille anni. È una scelta drastica ma coerente con il loro modo di sentire la vita. Tanti animali, galline, cavalli e cani, il tutto immerso nella quiete di un bosco meraviglioso. Nessuna televisione. Il luogo ideale per far nascere e crescere i loro tre figli.
Nel dicembre 1999, in seguito alla lettura dei racconti per bambini scritti da Running Bear ai propri figli, e sollecitata da un'associazione che si occupa di diritti umani, Christine dà il via a una fitta corrispondenza con lo stesso Running Bear, un indiano Cherokee rinchiuso nella prigione di San Quentin dal 1976.
Non è uno stinco di santo. Questo va detto subito. Per quanto a lui piacesse descriversi come un Robin Hood Cherokee, si trova in prigione perché ha commesso diverse rapine. Ma non ha mai ammazzato nessuno pertanto sta scontando “solo” l'ergastolo, e non è nel braccio della morte. Quando uno dei suoi figli sarà arrestato per omicidio, verrà convinto di indicare il padre come mandante per evitare a se stesso la pena di morte. Tanto lui è già in prigione, gli dicono. Peccato che la deposizione del figlio farà sì che il padre venga trasferito tout court nel braccio della morte e a nulla varranno i tentativi del figlio di ritrattare per evitare un'ingiustizia del genere.
Sin dall'inizio le lettere tra Christine e Running Bear (già nel braccio della morte) sono intense, profonde e intime, e tra i due si cementa un'amicizia memorabile. Credo che la scelta di vita di lei le consentano di entrare in sintonia con lo spirito di lui. Entrambi capiscono visceralmente il senso di libertà che può dare il vento tra i capelli durante una passeggiata a cavallo, il piacere del contatto dei piedi nudi con la madre terra, l'energia che si sente ad abbracciare un albero.
Comunque, sebbene il linguaggio usato per scrivere le lettere da parte di entrambi sia essenziale, senza fronzoli ed espedienti letterari, si ha l'impressione di essere ora sulla spalla dell'uno ora su quella dell'altra, ad ascoltare i racconti della vita di entrambi.
Lui con la propria vita in prigione, gli scherzi strafottenti delle guardie e le privazioni, gli acciacchi della vecchiaia, i consigli fraterni, la sua vita famigliare fatta di lettere e visite dei figli, la paura di legarsi a qualcuno nel braccio della morte perché poi te lo strappano via, i riti con la salvia e le tradizioni Cherokee.
Lei con i suoi sfoghi sui figli che crescono, sugli alti e bassi con il proprio compagno, le iniziative affinché si parli della pena di morte, i disegni sui sassi raccolti in spiaggia per raccogliere soldi.
Poi la decisione di andare a trovarlo. E il fluire delle lettere, dei segnali di fumo, come li chiama lui, si interrompe per lasciare posto al racconto di questo primo viaggio e dell'intenso loro primo incontro in prigione, cui seguono ancora lettere, sempre più numerose e più intime. Parrebbe uno scambio di corrispondenza tra un padre e una figlia. Lui sicuramente andrà a trovarla non appena uscirà di prigione. Lei non ha mai creduto neanche per un attimo che lui potesse davvero essere ammazzato. In fondo è anziano e poi ci sono i ricorsi, devono essere almeno tre prima che si possa eseguire una sentenza di morte negli Stati Uniti.
E ancora un altro viaggio, e la sfortuna che lui sia in ospedale per un infarto. Christine è molto contrariata per non essere stata avvisata, ma forse, per via della sua salute precaria, davvero l'esecuzione non avverrà mai. Purtroppo non sarà così, e l'ottimismo lascerà il posto all'amarezza di constatare che l'avvocato d'ufficio non ha combinato praticamente nulla, all'impotenza e alla consapevolezza che un povero indiano non ha possibilità di difendersi nel paese che si vanta di essere la più grande democrazia al mondo. Viene stabilito il giorno dell'esecuzione.
A questo punto Christine deve fare i conti con lo sgomento. È arrivato il momento di tenere fede a una promessa fatta quando l'esecuzione pareva essere un'ipotesi remotissima. Tutti le diranno che è pazza. Che è una follia. Ma lei ha deciso: presenzierà all'esecuzione. All'assurda realtà dell'esecuzione. La crudeltà delle guardie, la forza di Running Bear che accetta di compiere quell'ultimo passo sulle sue gambe, i dimostranti nativi che cantano davanti all'ingresso del carcere per salutare un fratello.
Ed è qui che Christine decide di scrivere la sua personalissima condanna della pena di morte riuscendo ad esprimerne l'assurda inumanità.

Eugenia Lentini



Anarchico, fabbro,
proletario

Un libro di Claudio Venza e Clara Germani, L'anarchico triestino, edito da Odradek nel 2011, ci aveva fatto conoscere la vita del fabbro Umberto Tommasini (Vivaro del Friuli, 1896/1980), militante “di base” costretto dalle circostanze – il fascismo, la guerra di Spagna, lo stalinismo – alla prigione e al confino (a contatto con Gramsci e con Bordiga), all'esilio in Francia, e alla partecipazione convinta e dalla parte giusta alla guerra civile spagnola, dove era stato vicino a Durruti al tempo della breve estate dell'anarchia, (titolo del libro più bello di Enzensberger) e soprattutto a Berneri (di qui la sua motivata ostilità, protratta nel tempo, verso il comunista triestino Vidali, emissario del Pcus e repressore degli anarchici, a lungo considerato dai comunisti italiani e russi come un eroe). Nel film di Bormann e Toich (Ivan Bormann, Fabio Toich, An anarchist life) che torna sulla vita di Tommasini e ne mostra o ricostruisce le vicissitudini, le immagini di Berneri contrapposte a quelle di Vidali sono molto eloquenti, i loro sono volti che dicono, che sembrano corrispondere alle loro anime...
Vita da anarchico, quella di Tommasini, ma anche da fabbro, da proletario, come risulta dal bel documentario a lungo metraggio composto con materiali diversi da due giovani triestini, Ivan Bormann e Fabio Toich, mentre un altro giovane triestino, Fabio Bobich, commenta la vita spesso sé malgrado avventurosa di Tommasini con agili disegni animati di “linea chiara”, dal segno vivo ed essenziale.
I registi hanno giocato sulla diversità e disparità tra i materiali recuperabili e le riprese ad hoc. Tra i primi molte foto e una lunga intervista con Tommasini di qualche anno fa, che ce lo rende vicino e simpatico con la sua faccia vissuta e pulita, e molte immagini rubate a film e documentari sulla guerra civile e ad altri, scegliendo tra le meno viste e le più adeguate. Tra i secondi i commenti di chi l'ha conosciuto, asciutti ed emozionanti, e quelli veloci e forse superflui di tre dei non molti artisti che oggi si dichiarano più o meno anarchici (Celestini, Cristicchi e Cacucci), lievemente retorici. Nell'incontro conviviale programmato tra amici conoscenti parenti di Tommasini e ripreso dai due registi spicca per intima somiglianza un giovane nipote, una maestra triestina, alcuni vecchi compagni di Umberto, e tra loro c'è Elis, un fabbro anarchico di oggi che molti lettori di questa rivista conoscono e apprezzano e che è anche animatore culturale di rilievo dalle parti di Marghera e di Mestre. L'insieme è caloroso e simpatico, un degno omaggio alla vita di un “militante di base” vissuta con pudore e con coerenza, e per questo esemplare, un modello per tutti e soprattutto per certi militanti di oggi che amano considerarsi più di quel che sono e ignorano la virtù (rivoluzionaria) del sapersi giudicare, in un'idea di militanza piuttosto esteriore, recitata. Non sembra proprio che Ivan e i due Fabio e il giovane Tommasini e gli amici del vecchio appartengano a questa categoria di persone, ed è anche questo uno dei pregi del film.
A esso, se vogliamo trovare dei limiti, possiamo rimproverare soltanto il titolo inglese, anche se ne capiamo le ragioni in vista di una possibile circolazione fuori d'Italia, e – come succede per la maggioranza dei film a impianto documentario che ci capita di vedere – un montaggio non abbastanza “stretto”, una tensione che a volte si allenta. (Ma questo non riguarda il film di cui paliamo, che è tutt'altro che noioso e la cui visione è sempre appassionante. Lo diciamo in generale: c'è una sorta di obbligo non scritto a far durare un film un'ora e mezza di media, per ragioni di circolazione, e ci sono film che sarebbero molto migliori se durassero un'ora o mezz'ora e altri che hanno bisogno di molto più tempo per approfondire il loro progetto. Perché non devono esserci dei film-poema o dei film-racconto invece che, sempre, dei film-romanzo, o al massimo dei film-saggio? È questo un ricatto o una moda di questi anni, che fa perdere di forza a molte opere degne. La misura di Anarchist life è però quella giusta.).

Umberto Tommasini

Un motivo invece di grande interesse, oltre a quello della documentazione e del racconto di storie taciute o censurate del Novecento proletario e rivoluzionario, è che il film racconti la vitalità di una storia complessa di un'Italia di più confini, che come tante storie “di provincia” e di margini non vengono considerate quanto meritano dai padroni del mercato della cultura, che stanno a Roma e a Milano.

Goffredo Fofi



Brassens
tra Lucania e Francia

Una rilettura e una riscoperta del cantautore Georges Brassens attraverso le sue origini lucane (Mimmo Mastrangelo, Georges Brassens - il francese lucano, Valentina Porfidio editore, 2013, pp. 90, € 10,00): al già noto profilo biografico del chansonnier d'oltralpe, scandito e accompagnato da citazioni delle sue canzoni e corredato da un memoriale degli autori italiani che a lui si sono ispirati, viene aggiunto un nuovo “Brassens su misura”, questa volta quasi a voler rovesciare la prospettiva e rivendicare in poche righe la natura del suo stile sobrio, delle sue idee anarchiche e della sua innata musicalità.

Elisa Sciuto

A Georges Brassens abbiamo
dedicato un dossier in “A” 371
(maggio 2012) con contributi di
Alberto Patrucco, Alessio Lega, Allain
Leprest, André Sève, Elisa Sciuto,
Fabio Wolf, Fausto Amodei,
Francesco Cannito, François-Réne
Cristiani, Giangilberto Monti,  Gianni
Mura, Giuseppe Ciarallo, Jean-Pierre
Leloir, Laila Sage, Laura Monferdini,
Lorenzo Valera, Margherita Zorzi,
Mariano Brustio, Nanni Svampa,
Paolo Capodacqua