rivista anarchica
anno 44 n. 394
dicembre 2014 - gennaio 2015





Totu sa beridadi


Totu sa beridadi (Edizioni Strade Bianche/ Stampa Alternativa) è l'autobiografia di Mario Trudu, ergastolano ostativo, condannato per due sequestri di persona, in carcere da 35 anni, attualmente nella casa di reclusione di San Gimignano.
Mario Trudu, nato ad Arzana (Nuoro) l'11 marzo 1950, pastore, nel 1979 viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona a scopo di estorsione. Condannato per un delitto del quale da sempre si dichiara innocente, durante una breve latitanza è responsabile del sequestro dell'ingegner Gazzotti.
Nel racconto Trudu ripercorre la sua vita dal tempo in cui era pastore, sui monti dell'Ogliastra, poi le vicende dei sequestri e i lunghi anni di carcere spesso “duro”, decenni passati nelle prigioni fra la Sardegna e “il continente”, in quel regime “eccezionale” e parallelo che fa di 1200 persone nella sua condizione quelli “della morte viva”, perché non collaboratori di giustizia. “Totu sa beridadi” apre uno squarcio sulla storia, ancora piena di ombre, della Sardegna dei sequestri, il processo all'Anonima, che tanto hanno occupato le cronache a cavallo degli anni '70 e '80, e la figura del “giudice sceriffo”, il giudice Lombardini, suicidatosi dopo l'inchiesta aperta dalla magistratura su sue presunte poco chiare iniziative. Il libro è anche un atto d'accusa che tutti ci coinvolge sul nostro sistema-carcere.
Tessuti nella narrazione, i disegni che illustrano alcune tappe della vicenda, autore lo stesso Trudu che in carcere si è diplomato in Istituto d'Arte.

Ecco uno stralcio dalla postfazione di Francesca de Carolis:

L'autobiografia di Mario Trudu mi è arrivata per posta, che era già un volumetto con tanto di titolo e copertina, stampato e rilegato, con cuciture a mano, come solo si può fare in carcere. Accompagnato da una lettera quasi di scuse: “Non è certamente rilegato alla perfezione, qui le cose si possono ottenere solo se uno s'ingegna a usare le unghie e i denti. A nessuno rimarrà il dubbio che questo non sia un lavoro artigianale...”. E dopo l'augurio di buona lettura, l'invito a dare un parere, “senza che si cerchi di addolcire verità negative, sono un uomo forte, se non fosse così non sarei ancora tra i vivi, le uniche cose in grado di abbattermi potrebbero essere le notizie favorevoli. Non sono abituato ad affrontarle”.
Così ho conosciuto Mario Trudu, che mi ha scritto dalla Presone 'e Ispoleto. E la Sardegna già inonda dell'eco della sua lingua. Avventurarmi nella lettura del libro è stato come attraversare i monti aspri di quella terra, guardare la vita alla luce delle sue lune, ritrovare, seguendo sentieri fra arbusti di lentisco e alberi di leccio, pagine inquiete che compongono le cronache della stagione dei sequestri, anni forse ancora da ben capire. Un racconto che ci svela, in filigrana e a mio parere meglio di molti saggi, i meccanismi e le “regole” in vigore in un passato ancora molto recente nella Sardegna più profonda. Ma non solo.
La prima cosa che mi ha conquistata è l'immagine potente della natura di cui trabocca la prima parte del libro, nella narrazione puntigliosa, a momenti quasi un trattato di botanica, a tratti di pastorizia, che è pure racconto delle sue leggi, a volte spietate, come lo sa essere la vita, e molto spiega della forza e durezza dell'autore: una sorta di roccia del Gennargentu, che pure svela momenti di inaspettata dolcezza e nascoste fragilità. Questo ho pensato ogni volta che per parlare del libro ho in seguito incontrato, nel carcere di Spoleto, Mario Trudu: pastore, due condanne per sequestro di persona, e del primo da sempre si dichiara innocente, fine pena mai, ma proprio mai. Che dopo 35 anni di carcere ancora aspetta almeno un permesso, per avvicinarsi ai suoi, almeno per Natale. Ma questo è il destino degli ostativi. E non c'è pentimento, in senso morale, che valga.
I nostri incontri si sono svolti nella biblioteca del carcere e ogni volta, in questi mesi, Mario è comparso con un gran sorriso e una borsa da cui tirava fuori biscotti, cioccolata e caffè. Così posso testimoniare che il caffè in carcere, almeno quello, è davvero molto buono, come vuole la leggenda. E fra un caffè e l'altro, rileggendo insieme le pagine dell'autobiografia, mi è capitato di voler suggerire, confesso, di ammorbidire passaggi particolarmente duri. Mario (dopo sei mesi, a fatica e con molto timore, siamo passati al tu) ha accettato qualche compromesso solo per le parole riservate a coloro dai quali ritiene, e in queste pagine dimostra, di aver subito grande ingiustizia… ma al pensiero ancora la rabbia, dice, “consuma le mie viscere”. Per il resto, mi ha risposto con il garbo ma anche la fermezza di chi ha a che fare con qualcuno che si ostina a non voler capire…: “Voglio che resti così, che si sappia esattamente come sono andate le cose, anche quello che ero, perché si deve capire la differenza con quello che sono ora”. Insomma il pastore pronto anche a uccidere per un'offesa e la persona che adesso è, che adesso sa. Per parlare a tutti noi, fuori, che vogliamo il condannato inchiodato per sempre al momento del reato. E che levi il fastidio! Così, quando qualcuno viene inghiottito dalle porte di un carcere, la sua vicenda sembra finire lì. Mentre è proprio da quel momento che iniziano storie altre…
Davvero ce ne è voluto di tempo, e di pazienza da parte sua, con me che ancora ho provato a forzare qualche modifica forse di troppo del linguaggio, della scrittura. Ma il Gennargentu è fatto di pietra dura: “Questo è il mio primo libro, e non credo proprio che ne scriverò altri, non sono uno scrittore. Ma voglio che resti di me qualcosa che mi sia fedele, voglio parole che siano le mie parole”.
Ora penso abbia ragione lui. Se scrivere è anche trovare il filo che spieghi la propria vicenda esistenziale, è cosa che non si può camuffare truccando le parole. Dai monti della vita libera, agli incontri da maledire, all'odore del ferro delle prigioni, passando per la cronaca del sequestro, il pensiero oggi sofferto alle vittime e le ambiguità di una giustizia che sa essere feroce anch'essa… In queste pagine le parole scavano nella vita che è stata, giorno per giorno, ora per ora. Parole che nulla risparmiano, né a sé, né agli altri. Per farlo Mario Trudu aveva bisogno delle sonorità della propria terra. Il libro ne è tutto un rimando.
Gavino Ledda ha recentemente detto che quando ha scritto il suo “Padre padrone”, come pastore ha cantato la letizia della terra usando una lingua, quella italiana, che pure, sostiene, non era del tutto in grado di esprimere questa gioia. Così adesso sta rielaborando quel poema con uno spirito e un linguaggio diversi, più liberi. Ecco: nel continuo ritornare della lingua sarda è il ritorno al tempo libero, all'identità profonda, all'appartenenza mai persa. Trentacinque anni di carcere non hanno fatto di Mario Trudu il “fascicolo” che la struttura avrebbe voluto.
Come si sopravvive a 35 di anni di carcere? La risposta è qui. In totu sa beridadi, di queste pagine.

Francesca de Carolis

Il libro è liberamente scaricabile su: http://stradebianchelibri.weebly.com/uploads/3/0/4/4/30440538/trudu_mario_-_totu_sa_beridadi.pdf .
Per richiedere copie cartacee scrivere a: stradebianchelibri@gmail.com.