rivista anarchica
anno 45 n. 397
aprile 2015


 


Se ti ribelli,
sei matto

I pazzi vengono definitivamente riconosciuti dagli psichiatri per il fatto che dopo l'internamento mostrano un comportamento agitato.
La differenza tra gli psichiatri e gli altri psicopatici è un po' come il rapporto tra follia convessa e follia concava.

Karl Kraus

Per molto tempo, anche nell'ambito delle ricerche sulla repressione del dissenso e le persecuzioni subite dagli oppositori del regime fascista, il ricorso sistematico alla psichiatria e alla reclusione manicomiale è stato un aspetto storiografico sottaciuto e sottostimato, come se certi “metodi” fossero una prerogativa di altri sistemi totalitari, quali quello nazista o quello staliniano. D'altronde, le stesse vittime, una volta tornate alla cosiddetta normalità dopo la Liberazione, il più delle volte autocensurarono il racconto delle loro vicissitudini attraverso l'arcipelago manicomiale, un po' per evadere anche dal ricordo opprimente di tale esperienza, un po' perché comunque probabilmente in molti vi era il recondito timore di essere ancora presi per pazzi.
Eppure è proprio durante il ventennio fascista che si registra l'incremento dei cosiddetti “manicomi criminali”, con la costruzione di nuove strutture e di nuove sezioni giudiziarie presso istituti “civili” già esistenti, nonché l'aumento – davvero esponenziale – del numero degli “alienati” internati a seguito di sentenza penale oppure in applicazione della legge n. 36 nel 1904 (rimasta, incredibilmente, in vigore sino al 1978!) che prevedeva e regolava l'internamento negli ospedali psichiatrici di quanti, per presunta pericolosità sociale o pubblico scandalo, vedevano così le proprie vite in totale balia del giudizio - e del pregiudizio - di pretori, procuratori, prefetti, questori, podestà e direttori di manicomi.
Nonostante che tale legge fosse stata emanata dal governo del liberale Giolitti, l'individuo vedeva annullata ogni tutela delle proprie libertà ed era consegnato inerme all'arbitrio statale: essa risultava a tutti gli effetti un dispositivo legale volto a togliere dalla circolazione i soggetti “devianti”; infatti, la loro “colpa” e la loro “malattia” discendeva generalmente da una supposta pericolosità legata all'essere improduttivi oppure ad eventuali turbamenti dell'ordine pubblico.
Il fascismo, perciò, accolse pienamente questo impianto ideologico e, soprattutto dal 1927, lo inserì nel suo stato di polizia, tanto che «fissò nel Testo unico delle leggi d Ps (prima del 1926 e poi del 1931) le regole da attivare per il controllo dei degenerati e delle classi pericolose, oltre che dell'alienazione mentale», mirando a colpire ugualmente sospetti oppositori politici, omosessuali, oziosi, nomadi, alcolisti e altri soggetti marginali.
Particolare non secondario, proprio in pieno fascismo, nel 1938 lo psichiatra Ugo Cerletti (tessera n. 0694914 del Pnf) assunse notorietà mondiale per «l'italianissima invenzione» dell'elettroshock. Ad essere colpiti, temporaneamente o in maniera definitiva, da misure di costrizione manicomiale furono circa un migliaio di uomini e donne, di varia tendenza o appartenenza politica, ritenuti pericolosi per la dittatura di Mussolini: se il termine ha un senso, nella stragrande maggioranza dei casi non si trattava di «malati di mente», ma di «avversi al regime»; in non pochi casi, invece, i disturbi psichici erano diretta conseguenza delle violenze fisiche e delle torture mentali a cui furono sottoposti nel corso di spedizioni punitive, in carcere, al confino o dentro i non-luoghi manicomiali.
Il recente saggio di Matteo Petracci I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell'Italia fascista (Roma, Donzelli, 2014, pp. 238, € 33,00) non solo mette in luce questo aspetto misconosciuto, ma è la più consistente e approfondita ricerca sull'argomento, non solo per quanto riguarda l'analisi dei meccanismi burocratici, polizieschi e psichiatrici che gestirono questi autentici gironi infernali, ma riesce anche, con sensibilità e rigore, a farci conoscere le r/esistenze umane che sono rimaste schedate e rinchiuse per oltre settant'anni nei fascicoli del Casellario politico centrale e nelle cartelle cliniche.
E raffrontando queste due dimensioni, è possibile riscontrare come i funzionari di polizia ricorressero alle diagnosi pseudo-mediche e alle categorie lombrosiane, mentre gli psichiatri accettavano – con rarissime eccezioni – di svolgere un ruolo di inquisitori politici, così come le figure degli infermieri e dei secondini tendevano a confondersi dietro sbarre che, purtroppo, non appartengono ancora al passato. Discorso analogo per quanto riguarda l'esile confine che separava il trattamento punitivo da quello terapeutico, con strumenti e pratiche degne dei supplizi del Sant'Uffizio.
Tra queste storie, quelle che mi hanno maggiormente colpito sono senz'altro quelle del militante Secondo B., ritenuto «infermo di mente per mania politica» in quanto «affetto da “morbo di Lenin”» e dell'ex-ardito Gaetano M., giudicato pericoloso «per la sua cultura e la grande passione per le teorie anarchiche», ma soprattutto quella dell'operaia Isolina M., diagnosticata ovviamente isterica per le «sue manifestazioni tumultuarie di impulsività», ma che alla domanda su cosa intendesse per fedeltà, aveva maliziosamente risposto che, nell'attività politica (alludendo a quella sovversiva), significava «non dire quello che si fa».

Marco Rossi



Economia / botta...
Ma i magazzini sociali sono anti-commons?

Elementi di una teoria economica dell'anarchia: è il proposito dell'impegnativo e ambizioso libro di Guido Candela Economia, stato, anarchia. Regole, proprietà e produzione fra dominio e libertà (Elèuthera, Milano, 2014, pp. 303, € 20,00). In queste poche righe darò conto di uno snodo della sua ricerca. In un'economia anarchica, i soggetti possiedono il proprio lavoro e i beni strumentali che usano, mentre la produzione dei beni finali avviene con la collaborazione di più soggetti (pp. 172-178). I Magazzini sociali sono un'istituzione in cui una parte significativa dei beni finali «rimane proprietà di tutti coloro che partecipano all'unità produttiva, e quindi [è] posta “sotto il governo di tutti quelli che la compongono” (Proudhon)» (pp. 168-69). Candela sostiene una tesi originale: nei Magazzini sociali i beni sono anti-commons, «poiché ogni atto di consumo deve acquisire il consenso di tutti i proprietari» (p. 172). Questa tesi implica che i Magazzini siano inefficienti. Infatti l'anti-common è un bene sul quale troppi proprietari vantano diritti d'uso; ciò rende difficile a chiunque il suo pieno utilizzo, potendo subire parziali proibizioni da parte degli altri proprietari. In breve, troppi hanno diritto di esclusione su una risorsa scarsa; da ciò l'inefficienza. Ma vorrei obiettare: perché, in anarchia, le risorse condivise dovrebbero essere anti-commons? Come ci ricorda Carol Rose in The comedy of the commons, la proprietà non è soltanto, come “proprietà privata”, il diritto di escludere gli altri dall'uso o dal godimento di qualcosa; è anche, come “proprietà intrinsecamente pubblica”, il diritto di non essere esclusi, di partecipare alla vita e alla ricchezza comuni, di avere accesso gli uni agli altri. «Al di là della semplice proprietà privata e della “pubblica proprietà” soggetta al controllo statale, esiste la categoria distinta della “proprietà intrinsecamente pubblica”, non controllata interamente né dallo stato né da soggetti privati. È la proprietà “posseduta” e “gestita” collettivamente dalla società in generale, e vanta una titolarità che si sottrae ai titoli di qualsiasi pretesa autorità gerente, e anzi prevale su di essi» (Rose, 1986, p. 720).
Candela annota (p. 190) che una proprietà collettiva, sostituendosi alle tante proprietà individuali, risolverebbe l'inefficienza dei Magazzini sociali. Ciò però succede non soltanto, come lui sembra credere, se la proprietà è pubblica statale, come nel comunismo di stato, bensì anche se i soggetti rinunciano volontariamente ai (troppi) diritti di proprietà privata (che genererebbero gli anti-commons) a favore della “proprietà intrinsecamente pubblica”. A sua volta, perché i soggetti dovrebbero passare da un regime di proprietà privata o pubblica a uno di “proprietà intrinsecamente pubblica”? A mio avviso, una prima risposta, in linea con la migliore riflessione marxista e anarchica, segnala che le forze produttive sono ormai direttamente sociali; che non ha senso né è possibile misurare la produttività individuale di un lavoratore, e che è “nelle cose” che la grande parte della ricchezza sociale sia prima appropriata/condivisa comunitariamente e quindi distribuita secondo criteri differenti da quelli che stabilirebbe il mercato. Una seconda e complementare risposta osserva che vi sono beni/servizi il cui valore cresce al crescere del numero di quelli che li condividono. Sono i beni/servizi a costo marginale (quasi) zero come la conoscenza, la formazione, la socializzazione e la partecipazione; ma sono altresì i beni/servizi che perderebbero il loro valore economico se avessero un accesso razionato, come le piazze cittadine o il web. Questi fondamentali beni/servizi centrati sullo sharing sono, a mio avviso, l'altra ragione decisiva dei Magazzini sociali.
Come scrive l'antropologo Matteo Aria: «potremmo individuare i primi due tratti distintivi della condivisone nel fatto che essa non è una forma di scambio, né si costruisce sulla proprietà privata. Si tratta di un ambito che rispetto al dono, in cui è stato spesso schiacciato e nascosto, non implica il possesso e la circolazione dei beni né ruota intorno all'obbligo di ricambiare e di conseguenza alla gerarchia, al debito e all'indebitarsi a vicenda. Al contrario, riguarda quella spinta a condividere che, valorizzando un sé relazionale diffuso, costruisce, conferma o consolida un gruppo e una comunità. Azioni e situazioni segnate dal movente dichiarato o implicito dello stare, del sentire, produrre, agire e consumare insieme, che piegano l'efficienza, l'utile e l'interesse economico a funzioni subordinate; dimensioni e impulsi in cui gli “io” e le affermazioni individuali si dissolvono, almeno in parte e temporaneamente, nel “noi”». Pertanto non occorre, come afferma Candela, che nel Magazzino «ogni atto di consumo de[bba] acquisire il consenso di tutti i proprietari» (p. 172, corsivo aggiunto). Infatti il consenso converge su una regola, che è in prima battuta di condivisione e soltanto in seconda battuta di ripartizione: siamo d'accordo che lo sharing di una determinata lista di beni/servizi migliori il benessere di tutti e di ciascuno? Se lo siamo, come distribuiamo tra noi il contenuto del Magazzino sociale?

Nicolò Bellanca

All'autore del libro abbiamo chiesto una replica immediata. La riportiamo qui di seguito.



Economia / ...e risposta
La vera questione è la proprietà privata

Direi che conviene partire dal seguente esempio di Proudhon, che purtroppo non ho pensato di riportare nel libro, mentre rende molto chiara la sua idea del 1840 sulla proprietà. L'esempio di riferimento è quello noto come l'obelisco di Luxor. Si parte dalla constatazione della differenza fra lavoro isolato e lavoro comune. Un uomo da solo può erigere un piccolo obelisco, mentre “la forza immensa che risulta dall'unione e dall'armonia dei lavoratori, dalla convergenza e dalla simultaneità dei loro sforzi” può erigere l'obelisco di Luxor. Il tema proudhoniano è: chi ha la proprietà dell'obelisco di Luxor?
Risponde Proudhon (Che cos'è la proprietà?, cap. 5): “La mia tesi è questa: Il lavoratore conserva, anche dopo aver ricevuto il suo salario, un diritto naturale di proprietà sulla cosa che ha prodotto” (corsivo nell'originale).
Il lavoro comune ha creato un valore, l'obelisco di Luxor, e questo valore è di tutti i lavoratori che vi hanno partecipato, conservandone la proprietà. Secondo Proudhon questo principio si applica a ogni prodotto frutto di lavoro comune: “un deserto da mettere a coltura, una casa da costruire, una manifattura da mantenere in esercizio è come l'obelisco da sollevare”.
Allora: il piccolo obelisco (nell'esempio del mio libro, il pane o il burro) è di proprietà individuale, mentre l'obelisco di Luxor (nell'esempio del libro, il pane col burro) ha più proprietari, cioè tutti i lavoratori (anche l'imprenditore, dice Proudhon) che hanno contribuito a quello specifico sforzo comune. Cosicché ho proposto di interpretare i piccoli obelischi come modello di proprietà unica e quello di Luxor come modello di anti-common à la Heller. I prodotti del lavoro comune sono collocati nei Magazzini sociali, governati per questo da un principio di costo (prezzo vero), e non nell'impresa in cui un capitalista pretende, pagando il salario, di escludere gli altri lavoratori dalla proprietà del loro prodotto, assumendosi così il diritto alla massimizzazione del profitto. In estrema sintesi, tuttavia, l'inefficienza dei Magazzini sociali è causata da un equilibrio Cournot-Nash, effetto del residuo di egoismo individuale implicato dalle singole proprietà private dei lavoratori.
Comprendo la simmetria dei dilemmi del common ed anti-common, ma mi sembra che questo modello interpretativo si adegui bene ad illustrare il pensiero di Proudhon, anche se molti altri modelli di riferimento potrebbero essere proposti; semmai il limite del mio ragionamento è nell'assumere come benchmark dell'efficienza proprio la proprietà privata. In questo senso si può infatti affermare che Hardin e Heller “sono dentro un approccio liberale”. Tuttavia, ho fatto questa scelta perché ho voluto contrapporre lo stato e l'anarchia sia con riferimento al pensiero economico ortodosso sia usando il metodo del mainstream: infatti ho pensato che, data la poca conoscenza dei temi dell'anarchismo fra gli economisti dell'accademia, una critica interna potesse essere più efficace di una critica esterna. Questa scelta è stata valutata positivamente da alcuni referee dell'editore. Solo nella Parte terza si introduce il dubbio che, inserendo l'ambiente nel modello, si possa motivare un diverso criterio di benchmark, e quindi sublimare l'inefficienza dei Magazzini sociali, o che è lo stesso abbandonare la proprietà privata come criterio di comparazione. Entrando così in una visione à la Bookchin.
Comunque il riferimento al metodo mainstream mi sembra sia stato utile nel dimostrare che solo espellendo, con l'altruismo, dal modello dei Magazzini sociali il residuo di massimizzazione implicato dalle singole proprietà private individuali si può recuperare all'anarchia la stessa efficienza della proprietà privata. L'equità invece è comunque implicata dalla condivisione, tema su cui tornerò fra poco.
Come tu dici, ho trascurato l'approccio di Rose, le “proprietà intrinsecamente pubbliche”, che invece – come sostieni – sono una categoria di largo interesse in ogni organizzazione sociale, comunismo, capitalismo ed ovviamente anche in anarchia. La mia trascuratezza della categoria economica è un po' dovuta all'ignoranza e per altro verso al metodo assunto. Nel modello a due dimensioni non poteva esservi differenza tra un anti-common di Alef e Bet ed una proprietà intrinsecamente pubblica di Alef e Bet. In modelli di maggiore dimensione, più agenti e più beni, vi possono essere sia molti beni anti-common nei Magazzini sociali, come “scarpe, zappe, tablet, tagli di capelli, prestazioni sanitarie e così via”, proprietà degli specifici lavoratori che hanno contribuito a quella specifica produzione (e scambiati tramite i voucher), sia beni di proprietà comune di tutti i lavoratori, seguendo gli esempi e le motivazioni di Rose. L'anarchismo ovviamente comprende ed esalta questi beni, spesso immateriali, ed è un mio limite averli trascurati.
Infine, è vero che il Magazzino sociale implica la “condivisione” della ricchezza prodotta. Secondo Proudhon e Bakunin il criterio di ripartizione è “a ciascuno secondo il suo lavoro”, mentre per Kropotkin è “a ciascuno secondo i suoi bisogni”: nel lavoro comune, non è possibile misurare la produttività individuale di un lavoratore. La soluzione che propongo nel testo, accennata ma forse troppo poco rimarcata a livello di penna, è uno sharing “aperto”, cioè un qualsiasi criterio è valido purché condiviso in una scelta pubblica espressa dal comitato dei lavoratori proprietari. A questo proposito, nella Parte prima, richiamandomi alla teoria delle scelte pubbliche, sostengo che affinché questa soluzione sia possibile è necessario che i lavoratori abbiamo preferenze non-autoritarie e non-invadenti: nello specifico dei Magazzini sociali, ad esempio, non-autoritarie significa che per la distribuzione dei voucher non vi siano imposti a priori; non-invadenti significa che alcuni non pretendano di più solo per impedire ad altri di averlo. Con questa interpretazione, mi sembra che la condivisione, come tu stesso sostieni, sia elemento essenziale per l'anarchismo classico e post-classico.

Guido Candela



Leggere l'ILVA,
vero e proprio disastro ambientale

Nell'esaminare i problemi dell'ILVA, come proposti da tre testi significativi da poco pubblicati (Giuliano Pavone, L'eroe dei due mari; traduzione in fumetto de “L'eroe dei due mari”, curata da Emanuele Boccafuso, Virginia Carluccio, Gabriele Benefico, Walter Trono ed Alberto Buscicchio, con un contributo di Alessandro Marescotti; i testi e le storie a fumetti di Carlo Gubitosa e Kanjano in ILVA, comizi d'acciaio) vorremmo ricordare che alcune di queste problematiche si vanno chiarendo a seguito dei pieni poteri concessi al commissario ILVA, Enrico Bondi e dal fatto che l'Italia si è trovata nel mirino dell'UE a causa dell'ILVA.
Le autorità italiane hanno sempre saputo, ma fingono ancora di non vedere. Al momento, continuano a garantire all'Ilva di poter produrre come ha sempre fatto negli ultimi 20 anni. Vogliamo portarvi la testimonianza del fatto che a Taranto la situazione non è cambiata, e che tutte le presunte misure prese dalle istituzioni non sono state efficaci e anche se lo fossero state, esse non sono state messe in opera. Noi - ha spiegato Antonia Battaglia, portavoce del Fondo AntiDiossina di Taranto e di PeaceLink al Parlamento Europeo - stiamo morendo di diossina, di inquinamento, di aria. Si può morire perché si respira? Sì, si può. Siamo qui per gridare con tutta la nostra forza il nostro bisogno di aiuto, la nostra sete di giustizia. Vi portiamo i sussurri disperati delle mamme all'Ospedale Moscati di Taranto in attesa che i loro bambini vengano operati di cancro. Vi portiamo la speranza degli operai dell'Ilva, la speranza di poter lavorare senza morire. Vi portiamo le lacrime della gente, la voce di una città a lutto che ha bisogno dell'aiuto dell'Europa, che ha bisogno di ciò per cui i nostri magistrati a Taranto lottano e che ci è negato: la giustizia.
“Noi non vogliamo morire per la produzione, lo abbiamo fatto per decenni, è ora di cambiare e abbiamo bisogno del vostro aiuto. Per favore, non lasciate che il nostro appello cada nel vuoto”. Queste le parole di disperazione dei cittadini di Taranto contenute anche nei libri di Carlo Gubitosa e Giuliano Pavone.
Nel suo romanzo L'eroe dei due mari (Marsilio, Venezia, 2010, pp. 304, € 17,00), Giuliano Pavone ci racconta un divertente e ben impostato imbroglio calcistico che interessa tutta la città, non solo quindi i tifosi della squadra, portandoci nello specifico del paesaggio urbano, dell'impianto siderurgico, dell'insieme del disegno urbanistico tarantino che potremmo definire “anonimo”. Tra una partita e l'altra, tra un gol segnato ed uno mancato, si evidenzia il contesto ambientale del centro siderurgico, a seguito della morte di tre operai dell'ILVA nel momento in cui tutti stanno allo stadio impegnati in una tifoseria che può sconvolgere solo chi non frequenta gli stadi. Il giocatore Cristaldi, il brasiliano che avrebbe dovuto portare la squadra in serie A, stordito dall'evento delle morti in fabbrica, diventa inconsapevolmente l'uomo della denuncia pubblica quando scende in campo con una maglia, la quale porta una scritta su morti ed inquinamento, una decisione che costerà cara a lui, alla squadra e alla città...
A sua volta il testo ILVA, comizi d'acciaio (BeccoGiallo, Padova, 2013, pp. 192, € 15,00) denuncia come l'ILVA si collochi al secondo posto, dopo la centrale termoelettrica Federico Secondo di Brindisi, fra i 10 impianti italiani che più fanno male all'ambiente (pag. 64) e non dimentica di ricordare i lavoratori dell'ILVA come “i martiri dell'acciaio” a causa delle patologie rilevate in rapporto al resto della popolazione (pag. 118). Interessante anche la traduzione in fumetto del romanzo di Pavone, arricchita dalla specifica valutazione di tutte le patologie che colpiscono operai del siderurgico e popolazione urbana.

Laura Tussi



L'anarchismo di ieri
e l'anarchismo di oggi

La casa editrice Virus ha pubblicato l'ultimo libro di Tomás Ibáñez Anarquismo es movimiento* (Barcellona, 2014, pp. 152, € 12,00), nel quale – come riferisce la quarta di copertina – l'autore affronta la “potente vitalità” di cui gode oggi l'anarchismo “nell'intero pianeta” e ci invita e “scoprire le ragioni e le nuove modalità di tale rinascita, che si manifesta in particolar modo nel neo-anarchismo e nel post-anarchismo”.
In effetti Anarquismo es movimiento è un libro denso di idee (anche se non è un testo lungo: ha solo 150 pagine) sull'”impetuoso rinascere dell'anarchismo nel XXI secolo” e sul “processo grazie al quale si è reinventato sul triplice piano delle pratiche, della teoria e della diffusione sociale”, che apre “prospettive eccellenti per tutte le pratiche di resistenza, di sovversione e di ribellione che si oppongono alle imposizioni del sistema sociale vigente”. Ma, soprattutto, come sottolinea l'autore, è un libro “politicamente impegnato a favore dei nuovi modi di concepire e di praticare l'anarchismo”: sia per “contribuire a dare impulso al nuovo anarchismo che si sta sviluppando” sia per “aiutare a riformularlo nel contesto dell'epoca attuale”.
La prima edizione italiana
del libro di Tomás Ibáñez
è stata recentemente pubblicata
da Elèuthera (pp. 144, € 13,00)

Il libro di Tomás Ibáñez è qualcosa di più di un semplice invito a scoprire e analizzare il motivo che sta alla base di questa “rinascita dell'anarchismo” (io direi piuttosto della riattualizzazione del concetto e della pratica dell'anarchia). Di fatto, si tratta anche di una presa di posizione che abbraccia queste nuove forme “di concepire e di praticare” l'anarchia. Vale a dire che, oltre a essere un libro didattico, è anche un libro polemico, dato che il suo autore afferma che tale rinascita dell'anarchismo “apre, infatti, la possibilità di moltiplicare e di intensificare le lotte contro i dispositivi di dominio, di vanificare più spesso gli attacchi alla dignità e alle condizioni di vita delle persone, di sovvertire le relazioni sociali improntate dalla logica mercantilistica, di strappare spazi per vivere in un altro modo, di trasformare le nostre soggettività, di diminuire le disuguaglianze sociali e di ampliare lo spazio aperto all'esercizio delle pratiche di libertà”. E lo è perché il suo autore, nell'affermare le possibilità (reali, non chimeriche) che tale rinascita dell'anarchismo apre per potenziare le lotte di emancipazione, ci incita a viverle non in un ipotetico e lontano “domani o dopodomani”, bensì nel presente; perché “è nel qui e ora che si realizza l'unica rivoluzione che esiste e si vive realmente, nelle nostre pratiche, nelle nostre lotte e nel nostro modo di essere”.
Il libro, quindi, è polemico e lo è sin dall'inizio, e persino sin dal titolo stesso... Ritenere che l'anarchismo “è movimento” significa già aprire il dibattito... Che cosa intende dire Tomás Ibáñez definendolo in questo modo? Intende forse differenziarlo dai “guardiani del tempio”, da coloro che “vogliono preservare l'anarchismo nella forma esatta nella quale lo avevano ereditato, a rischio di asfissiarlo e di impedirne l'evoluzione?”. Inoltre, definire rinascita questo fenomeno di riattualizzazione dell'anarchismo è, come riconosce lui stesso, ritenere che “era più o meno “scomparso” da qualche tempo”. È così? Era “scomparso” o si trattava soltanto di una “eclisse provvisoria”?
Per saperlo, per “accertarsi che le cose siano andate effettivamente così”, Tomás ci invita a gettare “un rapidissimo sguardo” alla storia dell'anarchismo, pur tenendo conto, previamente, di “due scenari teorici in cui la questione di una eventuale eclisse dell'anarchismo non si porrebbe neppure...”. Il primo di questi scenari sarebbe quello nel quale della dicotomia “anarchia versus anarchismo”, si assume come riferimento l'anarchia più che l'anarchismo, poiché si ritiene che l'anarchia sia “una entità ontologicamente distinguibile”, una “delle molteplici modalità possibili della realtà”; vale a dire: se attribuiamo al termine anarchia un significato essenzialista e metafisico invece del suo significato etimologico, cioè senza dirigenti, senza sovrani, senza governi. L'altro scenario, che non ha neppure senso porre, è quello che si presenterebbe se si separa “l'anarchismo in quanto movimento, da un lato, e l'anarchismo in quanto contenuto teorico, dall'altro”; perciò, non solo “gli elementi concettuali o assiologici che lo caratterizzano” non sono separabili “da un pensiero sociale che prende forma nell'ambito di condizioni politiche, economiche, culturali e sociali molto precise, e a partire da lotte sociali determinate”, ma anche perché, per accettare una simile separazione, si dovrebbe previamente accettare l'esistenza di due mondi differenti, come postulavano Platone e i dualisti (di allora e di oggi).
Così, se “anarchia e anarchismo sono due elementi inseparabili di un tutto”, in quanto espressione di un desiderio e di una scommessa per la libertà contro l'autorità, se inoltre è necessario fondere in “un tutto inscindibile l'anarchismo come corpus teorico e l'anarchismo come movimento sociale”, come non riconoscere che, fino a questo punto e nonostante possibili divergenze riguardo la pertinenza semantica di questa o quella parola, espressione o concetto, è difficile non concordare con Tomás in questa prima parte del suo libro se non si è un anarchico essenzialista o piattaformista dell'ultima ora. Dove l'identità di opinioni comincia a essere più polemica è a partire dalle sue “brevi considerazioni storiche” su una storia, la storia dell'anarchismo, la quale, come l'autore riconosce “ha riempito migliaia di pagine e continuerà a riempirne ancora migliaia”.
È logico che, a partire da questo punto, il libro diventi più polemico, dato che riassumere in poche righe una storia così ricca e lunga provoca possibili disaccordi, poiché la storia, nonostante la pretesa di obiettività degli storici, è un campo nel quale il soggettivismo l'ha sempre fatta da padrone. Ma, nonostante i possibili disaccordi e le polemiche che possono suscitare, l'importante è che Tomás li prenda in considerazione e che non abbia paura di dire ciò che pensa. Proprio perché preferisce suscitare il dibattito argomentando le sue posizioni invece di rincorrere una approvazione non argomentata.
Così, riassumendo la storia dell'anarchismo a partire dalla “Rivoluzione francese del 1848, con gli scritti di Joseph Déjacque, di Anselme Bellagarrique e, soprattutto, di Pierre-Joseph Proudhon” per arrivare alla Rivoluzione spagnola del 1936, Tomás afferma che “l'anarchismo nel corso di questi anni fu un pensiero vivo [...] in contatto con il mondo nel quale è inserito [...], capace di incidere sulla realtà”. E, sulla storia successiva e fino alla fine degli anni sessanta, Tomás ci dice che “l'anarchismo si ripiegò, si contrasse e praticamente scomparve dalla scena politica mondiale e dalle lotte sociali per numerosi decenni”, e “invece di essere una pellicola in movimento” [...], l'anarchismo andò fossilizzandosi dagli anni quaranta del Novecento sin quasi alla fine degli anni sessanta”. Si tratta di affermazioni che, senza dubbio, susciteranno discussioni. Quindi, benché alcuni di noi le accettino come considerazioni generali di quei periodi per quanto riguarda l'anarchismo “ufficiale” (quello delle organizzazioni che pretendevano di monopolizzarlo), non ci sembra che corrispondano all'anarchismo di coloro che combattevano tale fossilizzazione e si sforzavano di essere coerenti con un anarchismo vivo e in contatto con il mondo del suo tempo.
Tomás Ibáñez

Analogamente, susciterà polemica anche ciò che afferma sulla “rinascita libertaria”. Non solo perché colloca tale rinascita alla fine degli anni sessanta, ma anche perché ritiene che non avrebbe potuto “spuntare una nuova tappa di fioritura anarchica” senza i “grandi movimenti di opposizione alla guerra del Vietnam” nei “campus di Stati Uniti, Germania, Italia o Francia” e senza “lo sviluppo in una parte della gioventù di atteggiamenti anticonformisti, sentimenti di ribellione contro l'autorità e di sfida nei confronti delle convenzioni sociali e, infine, con la favolosa esplosione del Maggio '68 in Francia”.
E ciò non solo perché colloca l'origine di tale fioritura in quei movimenti e più particolarmente nel Maggio '68, ma anche perché non analizza il motivo per cui quei movimenti riuscirono a provocarla, nonostante fosse evidente che, come lui stesso ammette, nessuno di quei movimenti fosse o potesse essere considerato propriamente “anarchico”: sia per l'obiettivo concreto che li ha suscitati sia per il numero di anarchici che vi hanno partecipato. E la stessa cosa si può dire del favore di cui ha goduto ultimamente l'anarchismo nelle lotte, nelle piazze e persino negli ambienti culturali e universitari.
Per questi motivi non deve sorprendere che Tomás concluda questo primo capitolo, dedicato alla “impetuosa rinascita dell'anarchismo nel XXI secolo”, ammettendo che “la rinascita dell'anarchismo ha continuamente fatto passare, per così dire, di sorpresa in sorpresa” sia lui sia molti altri; quindi è ovvio che se, quando si sono verificate queste “sorprese”, fosse stato già consapevole – come lo è oggi – che è “l'importanza concessa al fenomeno del potere quella che spiega la potente attualità dell'anarchismo”, allora non si sarebbe sorpreso del fatto che l'anarchismo ricompaia e si riattualizzi in tutte quelle occasioni in cui si pone in modo concreto la lotta contro la dominazione. Non solo perché l'anarchismo è l'espressione teorica e pratica più in consonanza con il rifiuto di tutte le forme in cui la dominazione si manifesta, ma anche perché da tempo la storia lo ha “assolto dall'accusa di essere rimasto cieco di fronte alle cause principali dell'ingiustizia e dello sfruttamento, che alcuni situavano esclusivamente nell'ambito dell'economia”. Né dobbiamo dimenticare che da molto tempo la storia ha evidenziato il carattere illusorio delle alternative che promettevano la libertà attraverso la sottomissione.
Ebbene, non è perché Tomás è consapevole di ciò né perché ciò costituisce la base della sua analisi che il terzo e quarto capitolo del libro, smetteranno di dare adito alla discussione e alla polemica. Anzi, poiché sia la rinascita/rinnovamento sia il post-anarchismo sono problematiche che, nonostante siano motivate da un indiscutibile desiderio di perfezionismo dell'anarchismo che li ha preceduti, sono necessariamente sottomesse al soggettivismo interpretativo dei lettori, così come lo sono a quello dei protagonisti di tali iniziative innovatrici...
Infine, che tale rinnovamento assuma la forma che Tomás definisce neo-anarchismo, su un piano più pratico, e post-anarchismo su un piano più teorico, e che entrambe derivino da “una nuova analisi dei rapporti di potere e delle caratteristiche assunte dall'esercizio del potere nella società contemporanea”, non le avalla come forme definitive dell'anarchismo odierno e ancor meno le esime da critiche e polemiche. Perché è evidente che una cosa è integrare nella riflessione anarchica “la critica post-strutturalista/post-moderna, soprattutto nella sua variante foucaultiana” e un'altra è ridurre l'anarchismo a tale critica. Soprattutto perché, come riconosce Tomás per il post-anarchismo, quest'ultimo e l'anarchismo classico “si differenziano, di fatto, piuttosto poco”, e anche perché lo stesso Saul Newman “ha addolcito, per così dire, la sua critica nei confronti dell'anarchismo classico, sfumando le recriminazioni contro i suoi contenuti moderni e prestando maggiore attenzione alle continuità che alle contrapposizioni tra i due anarchismi”. Il che trasforma il post-anarchismo in un esercizio di pura “creatività intellettuale anarchica”.
Da ciò discende il fatto che, consapevole che le sue convinzioni come le sue ipotesi “possono suscitare adesioni in alcuni oppure provocare riserve in altri”, Tomás ci propone, nel quinto e ultimo capitolo del libro, una “prospettiva libertaria” sulla base di cinque questioni, che lascia aperte come possibili piste dei “percorsi attraverso i quali l'anarchismo dovrà imboccare, con passi più decisi di quelli praticati oggi, per proseguire nella sua espansione e approfondire il suo rinnovamento”.
Si tratta di piste che sicuramente susciteranno adesioni e riserve, come quelle suscitate nei quattro capitoli precedenti e quelle che potranno suscitare le tre Adendas che completano il libro. Sono Adendas che, poiché riguardano “la questione del moderno e del postmoderno, il post-strutturalismo e il relativismo”, possono essere consultate da quanti desiderano “approfondire più in specifico” quello che è “l'argomento principale del libro”. Cosa che, a mio parere, aumenta l'interessa della lettura di Anarquismo es movimiento.

Octavio Alberola
traduzione dal castigliano di Luisa Cortese

* Questo libro sarà prossimamente pubblicato in francese, italiano e portoghese e può essere scaricato al sito www.viruseditorial.net/pdf/anarquismo_es_movimiento_baja.pdf.




Il vescovo
“dimissionato”

Nelle prime competizioni elettorali della nascente Repubblica italiana, in quelle dal '46 al '49, nei paesi che ricadevano nella diocesi di Patti (Me), il partito della Democrazia Cristiana subiva clamorose sconfitte alle amministrative mentre risultava vincente in quelle nazionali.
La colpa del fallimento, i notabili locali della D.C., la attribuirono al vescovo, Angelo Ficarra, che poco o nulla faceva, secondo loro, per propagandare il partito dei cattolici e i suoi candidati: e se ne lamentarono con la Santa Sede, richiedendo, peraltro, un duro intervento dell'organismo preposto al controllo dei vescovi, affinché si convincesse monsignor Ficarra a “dimettersi”. Cosa che avvenne nel '53, rendendo la vicenda di Ficarra, nel clima problematico del secondo dopoguerra, emblematica dell'impossibilità di dissentire, all'interno della chiesa, dalla gerarchia e di pensare come distinte le sfere della politica e della religione.
Rimosso in fretta dalla memoria del clero siciliano e poco citato nelle ricostruzioni delle vicende storiche della chiesa nell'Isola, il “caso Ficarra” venne scoperto da Sciascia, che ne scrisse, nel '79, in Dalla parte degli infedeli ed ora viene ripreso con approfondito acume analitico da Enzo Pace (Angelo Ficarra. Un vescovo senza chiesa, Morcelliana, 2014, pp. 152, € 15,00) che mostra come, oltre alle ragioni politiche del “dimissionamento” forzato di Ficarra, ve ne fossero altre, legate alla sua visione modernista del cattolicesimo, inaccettabile in quegli anni ma anticipatrice del Concilio Vaticano II.

Silvestro Livolsi



Sale da ballo
e rivoluzione

La società spesso perdona il criminale ma non perdona mai il sognatore
Oscar Wilde, Il critico come artista

È da poco uscito anche in Italia (con oltre sei mesi di ritardo dalla prima mondiale) Jimmy's Hall (2014, 109 min.) ultimo film di Ken Loach. Ultimo nel senso di più recente, e nel senso che sarà l'ultimo – stando alle dichiarazioni del regista. Che senso e valore può avere “la critica da giornale” di un film? Giustificare una valutazione da 1 a 10? Scrivere quattro righe per orientare il pubblico? Lasciamo questo ingrato mestiere ai professionisti salariati che lo fanno per guadagnare la pagnotta, e che hanno visto in questo film: “un invito alla gioiosità per la sinistra europea”, “il ruolo repressore della Chiesa”, “un western politico dove i cattivi vincono sui buoni”.
Non so che senso possa avere scrivere delle parole riguardo a un film (quindi soprattutto ad un'emozione); lo faccio per Loach e per me, per “riflettere”, per un'urgenza di dire qualcosa in più, perché questo spettacolo merita di proseguire anche dopo calato il sipario. Perché non si perda tutto nel senso di straniamento e leggera desolazione che accompagna sempre la fine di qualsiasi film. Jimmy's Hall non merita questo.

Una scena del film Jimmy's Hall

Il genio Stanley Kubrik aveva ammesso di non essersi mai veramente posto il problema del cinema, ovvero perché uno strumento tecnico (la cinepresa) dovesse venir utilizzato soltanto (almeno “artisticamente”) per “rendere” sullo schermo un racconto, una storia, o ciò che ha sostituito la pièce teatrale. Lo stesso fa Loach, come tanti altri registi di successo: non sperimenta, non cerca avanguardismo, semplicemente accetta le regole del “cinema come spettacolo” e gioca a quel gioco. Se Loach lo ha fatto sempre bene è prima di tutto perché ha sempre fatto coincidere l'estetica con l'etica (e viceversa); la non improvvisabile conditio sine qua non che (almeno nel contesto contemporaneo di decomposizione e corruzione artistica), dal cinema alla letteratura, dal teatro alle arti figurative, differenzia l'artista dalla schiera sempre più vasta degli intrattenitori, dei professionisti-dilettanti, di chi ne ha solo velleità. Per questo Loach è tra i pochissimi che meritano attenzione. Tanto più se si tratta del film che ne dovrebbe segnare l'uscita di scena.
Già dalle anticipazioni dello show, si può dire almeno una cosa: l'Irlanda. Loach torna a scegliere l'Irlanda, dopo l'Agenda Nascosta, dopo il capolavoro The wind that shakes the barley. Sceglie l'Irlanda per la terza volta, anche per il suo ultimo film. E questo è già dire qualcosa, considerando come gli inglesi - al connazionale Loach - non hanno mai perdonato la sua netta presa di posizione in favore dell'Irlanda.
Su Jimmy's Hall non ci sarebbe molto da dire, ad un livello base di “lettura”: è un racconto che può emozionare alcuni, annoiare altri. La premiata coppia Laverty (sceneggiatura) e Loach sviluppa una storia dalla trama volutamente “banale” sulla figura di James Gralton, attivista sociale irlandese degli anni '20 – '30, realmente vissuto. Il soggetto non ha la carica emotiva o immaginaria che può venir data dalla guerra civile spagnola o la guerra d'indipendenza irlandese, e neanche l'agilità e la godibilità di un'intelligente commedia. Tuttavia Jimmy's Hall compensa alla grande offrendo altri livelli di lettura, e infiniti piani che si intersecano. È impossibile raccontare un film a parole, stupido dare giudizi, ma è possibile e opportuno elaborare delle emozioni, condividere delle prospettive.
Scegliendo un tale soggetto (isolato nel tempo, nello spazio, nella Storia), Loach non poteva fare di meglio per poter parlare dell'urgenza e della battaglia dei nostri giorni, o se preferite di un secolo dopo le vicende di Jimmy Gralton. C'è una crisi finanziaria mondiale che aleggia attorno alla campagna millenaria irlandese, c'è un ordine fasullo (stato e chiesa, nelle loro effettive e terribili declinazioni locali) ri-nato dalla “rivoluzione” e “naturalmente” imposto sulla vita degli abitanti.
Il ritorno di Gralton in un contesto così piccolo e chiuso rispetto alla New York in cui si era “andato ad esiliare”, segna l'inizio della fiction, che ruota attorno alla Hall, un vero “centro sociale”, nel senso non politicizzato (quindi veramente politico) di casa del popolo, spazio di tutti. Il pericoloso “comunista” Gralton (così viene visto dalle allarmate autorità locali) non riesce a stare “lontano dai guai”, anche se in realtà sono gli stessi abitanti del luogo, nella loro parte più ribelle e innocente, a dar voce alla richiesta di riaprire la Hall di Gralton. E Jimmy sa bene a cosa si andrà incontro, sa tutto fin dall'inizio. Ma è impossibile non tentare, non c'è altra scelta. Come sapranno tutti quelli che, come Gralton, conoscono un senso del dovere che va ben al di là della cosidetta “educazione civica”.
Jimmy uscendo dalla Hall abbandonata e sorpreso dai suoi amici sul “luogo del delitto”, risponde a chi gli chiede se è pronto a ricominciare: “life's too short”. La vita è troppo breve, per non lottare, per non rischiare, anche se si trattasse di giocare il tutto per tutto, anche se in fondo non è che per una piccola sala da ballo. La vita è troppo breve per non scegliere la parte della vera giustizia (che ovviamente non è quella da cui Gralton dovrà sfuggire), per non tentare neanche di costruire un vissuto quotidiano non solo più giusto, ma più divertente, più vivo, più felice. Più umano.
E la Jimmy's Hall, che lui ne sia consapevole o meno, è una sorta di testamento, che Loach ha voluto lasciare a tutti, a un destinatario generico che potrebbe essere anche l'universo.
Magari non troppo volontariamente - così come il poeta trova la poesia per il solo seguire l'assonanza di un verso, senza “saperlo” - Loach ha voluto indicare nella Hall una via da seguire nell' “Irlanda” globale di questi nostri anni, indicando una via fatta di “semplici” esseri umani che si unificano in uno spazio e un tempo di vita grazie al processo di costruzione di un gioco collettivo - o ancor meglio di una danza collettiva - che profuma di dignità, di giustizia, di vita.
C'è molto altro nel film, che è giusto non tentar di rendere a parole. Il ruolo del parroco, con la sua cieca e folle ma consapevole povertà spirituale; l'amorevole madre di Jimmy preoccupata che gli stivali del figlio siano puliti e dignitosamente orgogliosa delle sue scelte, tanto nobili quanto coraggiose (e quindi discutibili). E tutte le figure minori, sempre nella “banalità” apparente della trama, prese singolarmente portano piccoli messaggi e piccoli insegnementi a sé stanti. Come la figlia ribelle del fascista, il vice parroco (nella sua lieve evoluzione), i ragazzi in bicicletta (elemento silenzioso che fa da sfondo a tutto il film, forse anche questo da inserire nel testamento di Loach?).
Poi c'è la cosidetta “storia d'amore” tra Gralton e la sua amata O'onag, inventata da Loach e Laverty ed enfatizzata dal sottotitolo del marketing italiano (Jimmy's Hall – Una storia d'amore e libertà). Ancor meno, se c'è di mezzo l'amore tra donna e uomo, è il caso di rendere a parole un mix di immagini, musiche, dialoghi. Però una cosa si può dire: è un altro articolo del “testamento di Loach”; l'unione tra una donna e un uomo, unione profonda, fisica ma ancor più unione spirituale, senza tempo, come elemento fondante, sia individuale che collettivo, di evoluzione nella lotta e nella danza della vita. Una “lotta” amorosa su cui, in un livello diverso, incombono in fondo le stesse minacce che vogliono la chiusura della Hall.
Alla fine la Hall va in fiamme, il pericolo Gralton viene allontanato per sempre, perché una semplice sala da ballo può essere abbastanza per smascherare tanti inganni, tanti autoritarsimi che mantengono, senza un vero motivo, donne e uomini in catene.
Ma alla fine chi sono i vincitori e chi i perdenti? Si può dire che Gralton, come tanti altri, perde vincendo o vince perdendo. Ma poco conta. Di sicuro resta il fatto che, in fondo, tutti perdono una stessa cosa, un qualcosa di grande, di importante, di gioioso. E perché? Soltanto per follia, per crudeltà, per arrettratezza culturale, umana, spirituale, per paura. Ma i giovani diventano vecchi, e i vecchi muiono, e la battaglia rimasta in sospeso ritorna e ritornerà di continuo, come ritorna anche oggi dovunque.
Con il suo ultimo sorriso sincero e lieve ai suoi giovani amici estimatori, Jimmy Gralton non può che dire anche a ciascuno di loro: “Quanto stai lottando per la giustizia, per la felicità collettiva? O forse sei disposto a rinunciare a ogni lotta, e ritirarti a una tranquilla vita privata, dove dominano l'indifferenza, l'egoismo, la sottimissione?”.

Ken Loach

Senza dubbio Jimmy's Hall è una storia d'amore, ma non tanto per le pur splendide parentesi di quel surrogato tanto “pubblicizzato” che è il rapporto uomo-donna, ma per l'amore come forza universale che unisce e muove tutto e tutti, e che spinge Jimmy a fare ciò che fa. Quell'amore che hanno vivo in loro tutti i bambini, gli animali, le piante, e quell'amore che in padre Sheridan, il parroco nemico di Gralton, è soffocato e accecato. Quando Gralton dice al parroco “nel tuo cuore c'è più odio che amore”, il film ci chiede anche: “Quanto amore c'è vivo in te? nella tua vita? Quanto ne trasmetti? Quanto odio? Quanta paura? Quanto coraggio?”.
Un'altra parola chiave del testamento di Loach: il coraggio. Tutta la figura di Gralton è costruita secondo il cliché dell'eroe: innazitutto perché è solo, pur essendo parte di un gruppo (infatti solo lui verrà arrestato, solo lui scapperà). L'eccezzionalità di questo eroe, non sta in abilità fisiche, nel maneggio delle armi, e nemmeno in una particolare elevazione culturale o capacità oratoria. È eccezzionale perchè ha coraggio, e in più - in quanto simbolo - ha la capacità di trasmetterlo agli altri. Il coraggio di Gralton è autentico coraggio, capacità e forza morale di agire nonostante la paura (delle conseguenze, del giudizio). Uno stato dell'essere umano, alla portata di tutti, e un bene prezioso in una società che lo reprime nella stessa misura con cui “incoraggia” alla passività e al conformismo.
C'è chi ha voluto vedere similitudini un po' campate in aria con altri registi, o altre pellicole dello stesso Loach come Terra e Libertà, o il più recente Angel's share, oltre all'ovvio richiamo a Il vento che accarezza l'erba. A me è venuto spontaneo ritornare a Kes, il primo lungometraggio di Loach (del lontano 1969). Lì si racconta la vicenda di un ragazzino (Billy) che nello squallore umano e ambientale di un sobborgo industriale inglese, trova un falchetto. Gli dà un nome, Kes appunto, e se ne innamora e impara ad addestrarlo, e trova in Kes l'amore, la gioia e la richezza che né la famiglia, né la scuola, né niente altro di una vita povera e crudele riescono a dargli. Fino a quando Kes verrà barbaramente ucciso, dal “malvagio” fratello maggiore di Billy.
Ben 45 anni dopo Loach ripropone in fondo lo stesso tema, con al posto del falco una sala da ballo, al posto di un bambino un attivista socialista, segnando il passaggio da una dimensione di individualità e di innocenza, ad una evoluzione che, per forza di cose, deve essere collettiva. Forse il nucleo del messaggio di Loach è questo: la battaglia è (deve essere) collettiva. Solo unendosi gli uni agli altri si può ottenere una casa dignitosa per tutti, che nessuno venga sfruttato, che ciascuno abbia il sacrosanto diritto di dedicare la vita a un falco, a una sala da ballo o a ciò che il suo cuore più desidera. In una rete di fratellanza, in cui ognuno corre in soccorso dell'altro; dove non c'entra niente la “politica” (l'esser “politicizzati”), dove non c'entra niente né Marx né il Vaticano; dove non c'è nessun fratello che uccide un altro fratello, nessuna divisione, ma ci sono protestanti e cattolici che manifestano a Belfast gli uni a fianco agli altri.
Resta sul film “l'idiozia” di fondo del cinema: perché spendere energie per ri-creare questa Hall in una finzione impalpabile e non nella realtà quotidiana? Se non c'è un giudizio, non è tanto per il sacrosanto diritto-dovere all'inutilità dell'arte, ma per la speranza che questo messaggio universale possa essere anch'esso una piccola scintilla che faccia divampare un fuoco benefico, e che questo fuoco si propaghi dovunque.
Non so quante persone hanno visto e trovato bello o gradevole questo film, ma certo sarebbe sufficiente che poche persone si unissero per fare cose tanto piccole quanto enormemente ammirevoli e stra-ordinarie; specialmente per chi le crea e chi le vive, proprio come la Hall di Jimmy.
Ricordando che, non c'è (o almeno non ci dovrebbe essere) bisogno di nessun Jimmy Gralton per aprire dovunque delle sale da ballo un po' speciali (anche solo - tanto per iniziare - come spazi mentali e di relazioni umane), dove possano danzare gli spiriti, i desideri, i sogni delle persone. Perché la vita è breve per tutti noi, non solo per Jimmy Gralton. E come nel film è evidente quanto siano stupidi e malvagi “i cattivi”, così deve essere evidente quanto sia stupido e malvagio arrivare un giorno a rimpiangere di non aver fatto tutto quel che si poteva provare a fare per una vita più giusta e felice; per tutti, ma prima di tutto per se stessi, per ciascuno di noi, nell'individuale che può trovare piena richezza solo nella condivisione collettiva.

Michele Salsi



Donne dietro le sbarre/
Più consapevoli che vittime. E ribelli

La ricerca qualitativa (Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, Ediesse, Roma, 2014, pp. 315, € 16,00), condotta nel 2013 da Susanna Ronconi, formatrice, Grazia Zuffa, psicologa, in collaborazione con la Società della Ragione, nei carceri di Firenze Sollicciano, Pisa e Empoli, raccoglie e analizza interviste a donne detenute - in gran parte tra i 26 e 35 anni - personale educativo e agenti di polizia penitenziaria. La finalità: contenere la sofferenza e prevenire gesti di autolesionismo e suicidi, con attenzione alla differenza femminile in un sistema carcerario pensato e strutturato su un modello maschile.
Lontano da stereotipi, l'analisi rivela che le donne si dimostrano più consapevoli che vittime, sono le prime nella ribellione verso l'autorità della pena. Avanzano richieste di forme alternative alla carcerazione, dimostrando l'estraneità della donna alle strutture di coercizione. Come sottolinea Susanna Ronconi, la ricerca rivela l'inganno che attribuisce una minorazione della donna carcerata a “deficit del femminile”, anziché addebitarla all'istituzione totale, che di questa minorazione è costante riproduttrice.
Le narrazioni biografiche denunciano la dimensione della spersonalizzazione, del corpo percepito come oggetto di controllo, e una forte dose di sofferenza aggiuntiva per l'attesa protratta senza risposte alle richieste, seguita da una percezione di impotenza e abbandono.
Soprattutto dalle biografie materne si coglie l'ambivalenza dell'essere madre in carcere: i primi ad essere sacrificati sono gli affetti familiari, i figli. La madre carcerata si sente oppressa da ulteriori sensi di colpa per il ruolo di figlia, costretta a dover demandare a madri-nonne l'azione di cura dei propri figli.
Ma essere madre e figlia carcerata può voler dire, allo stesso tempo, avvertire un debito di cura nei confronti della propria madre malata. Inoltre, sapere che le relazioni a casa vengono intessute dalla donna e la sua assenza può determinare rottura definitiva degli equilibri, già precari, genera un senso di perdita del ruolo affettivo.
Tuttavia, Grazia Zuffa vede nella rete familiare delle “madri che curano le madri” un'altra faccia del materno, non ancora valorizzata. Così come andrebbe ripreso il lavoro sulla retorica pervasiva e pericolosa della funzione riabilitativa del carcere: il maschio deve diventare un “onesto cittadino e lavoratore”, la donna tornare a essere o diventare una “buona madre” plasmata su un modello liquido, confuso e molteplice. Tuttavia le donne recluse - solo il 4% di tutta la popolazione carceraria - diventano un cristallo attraverso il quale la società cerca di ristabilire una norma. La maternità incarna ancora oggi la “onestà e virtù” femminile: con il reato si tradisce la maternità, e la perdita dei figli ne è la punizione. Come suggerisce la riflessione di Maria Luisa Boccia, teorica della differenza, - riportata nella conversazione a tre nel settimo capitolo - bisognerebbe rinnovare anche lo sguardo sulla maternità, prestando attenzione a come è veicolata attraverso il carcere. Costruire un nuovo discorso sulla maternità sarebbe fondamentale non solo per le donne detenute, ma per tutte le donne.
Paradossi, ostacoli burocratici rappresentano inoltre gli impedimenti di un'istituzione totale che dichiara di puntare alla riabilitazione. Al contrario, invece, ne replica le diseguaglianze sociali, soprattutto quando non fornisce adeguate risposte e beni necessari per la vita quotidiana. Smarrimento, solitudine, scoramento, rabbia, dolore trovano lenimento nel suicidio o sfogo in gesti autolesivi. Al riguardo, uno studio nel carcere di Padova, riportato sulla rivista “Nuovi orizzonti” e i dati di questa ricerca nei carceri toscani riferiscono di un maggior rischio di suicidio per le donne, e minori atti di autolesionismo da taglio, da ricondurre a una maggior cura e rispetto del proprio corpo. Ma emerge altresì che le donne sanno mettere in atto strategie specifiche di resilienza, orientate a coltivare il domani. Comportamenti di protezione dalla sofferenza si collocano in un processo personale fatto di riconoscimento, valorizzazione, attivazione di risorse anche pregresse, per far fronte al cambiamento. Così le donne scoprono una loro identità percepita come molteplice e in mutamento, capace di reagire all'immobilismo consolidato del carcere.
Tra carcerate, le donne suppliscono alle figure interne con il compito di sostegno personale, in prevalenza nella dimensione dell'ascolto. Ricercano solidarietà in relazioni individuali scelte per affinità e rispetto, inclini alla dimensione intima e affettiva in grado di lenire solitudini, liberare vissuti, portare all'autoriflessione. Ma per andare oltre e approdare al riconoscimento di competenze e valore: Ognuna di loro mi ha insegnato tanto, oppure: Era la persona che quando la vedevo mi dimenticavo di tutto, mi sentivo a casa e a mio agio. Ancora: L'unica vera amica, per me lei è una sorella, un'amica, una confidente, lei sopporta me, io sopporto lei, si sta facendo progetti per il fuori.
I piccoli gesti quotidiani di cura mettono in moto un circolo virtuoso che rinforza autostima e autoefficacia: Se una mattina ti svegli e la tua compagna di cella dice - lo faccio io il caffè - ti senti accudita. È molto importante sentirsi qualcuno; poi automaticamente anche tu fai sentire così l'altra persona.
Riordinare, pulire lo spazio angusto della cella, mettersi il rossetto è cura di sé.
Il rispetto di se stesse rappresenta anche la scoperta di essere cittadine in grado di prendere parola e di partecipare a momenti collettivi che restituiscono senso e autostima, promuovono un riconoscimento sociale: È una gioia sentire dire: - un saluto da tutte le ragazze detenute di Empoli che hanno aderito allo sciopero della fame per il sostegno delle altre - Abbiamo aderito ad uno sciopero della fame dal 26 per cinque giorni perché ascoltiamo Radio Radicale.
Investire bene e promuovere un uso diverso del tempo, sfruttando al massimo le poche risorse offerte e soprattutto producendone di nuove in modo autonomo, rappresentano altre energie di resilienza. Le donne dimostrano di sapersi adattare per dare significato all'esperienza: Ho iniziato a fare il corso di muratura, anche; con altre due mie compagne, di là ci sono cinque uomini. Abbiamo fatto anche la teoria: sicurezza sul lavoro, sicurezza sui cantieri, pari opportunità. Poi a settembre (speriamo di non esserci) si dovrebbe iniziare a ristrutturare la palestra sopra. E di saper valorizzare le proprie competenze in maniera informale: Adesso c'era il teatro, mi sono offerta volontaria per cucire i vestiti da teatro; in cucina sono senza grembiuli, mi sono offerta volontaria per cucire i grembiuli. Che mi invento io se una mia amica mi dice - aggiustami una gonna - gliela riparo.
Il tempo vuoto è tempo di occasioni, tempo di scoperta di inclinazioni e di passioni. Diventa tempo per sé: l'attività fisica, lo sport, la danza impegnano il tempo. Restituiscono al corpo i suoi diritti: esprimersi, percepirsi, curarsi. Insieme a musica, scrittura, lettura: per le donne piaceri intimi e opportunità espressive.
Inoltre, la detenzione è una cesura nel tempo. Ma l'esperienza carceraria può diventare opportunità per ripensare quel passato che si vorrebbe lasciare alle spalle, per ricucire legami interrotti, acquisire maggior consapevolezza anche per immaginare un futuro possibile.
Nei carceri misti, possono germogliare nuove relazioni affettive, anche se a distanza, fatte di occasioni fugaci di incontri, di scrittura o di comunicazione muta e a distanza, dalle finestre: È un panno bianco che o muovi o batti (a,b,c,d) è complicatissimo, io ci ho messo tre giorni ad impararlo perché mi interessava chiacchierare con lui.
Per approfondire i significati dello “sguardo della differenza femminile”, Maria Luisa Boccia pone l'attenzione sull'ambiguità del femminile come terreno della cura e della relazionalità. Se la cura è offerta dalle operatrici e operatori dell'istituzione carceraria, sull'assunto della dipendenza, vulnerabilità, debolezza, non responsabilità, e improntata a precisi modelli adottati nelle istituzioni totali, costruiti per soggetti deboli e vittime, la relazione di cura diventa costitutiva del controllo. Quindi occorre trovare la mediazione giusta tra chi ha bisogno di cura e chi la esercita, per favorire una relazione evolutiva, che accompagni verso l'autonomia.
La ricerca inoltre mette in luce l'opportunità di “attivare la soggettività delle donne detenute per cambiare la quotidianità del carcere”. Una sfida che va oltre il riconoscimento di un diritto. Non si può prescindere da una riflessione sulle pratiche del carcere da parte di chi lo vive: detenute, operatrici, volontarie. Se non c'è consapevolezza soggettiva sulle prassi da mettere in atto, non ci sarà riforma, perché nemmeno la miglior legge saprà cambiare la realtà. Boccia sottolinea che “lo sguardo della differenza” da adottare implica dare spazio alle soggettività, alla presa di parola in prima persona, da parte di detenute e operatrici, e alle loro pratiche. Solo così si potrà dare centralità a un'istanza di liberazione.

Claudia Piccinelli



Errico Malatesta
e la Signora

Il 18 maggio 1901 Errico Malatesta scrisse una lettera, intercettata dalla polizia, in cui accennava a trattative con una «Signora» disposta a finanziare progetti sovversivi in Italia. La signora era l'ex-regina di Napoli Maria Sofia di Baviera e la lettera ha dato la stura a innumerevoli illazioni, a cui in buona parte è rimasta a tutt'oggi impenetrabile. Il libro di Enrico Tuccinardi e Salvatore Mazzariello, Architettura di una chimera: Rivoluzione e complotti in una lettera dell'anarchico Malatesta reinterpretata alla luce di inediti documenti d'archivio (Universitas Studiorum, Mantova, 2014, pp. 184, € 16,00), poggia su un'idea felice: a partire da questo singolo documento, seguire tutti i fili che da esso si dipartono per ricostruire, attraverso una paziente e minuziosissima ricerca, l'universo di persone, contatti e progetti che ruotano attorno ad esso.
Ne esce l'affascinante affresco di una rete transnazionale e transpartitica che si dipana attorno all'oceano Atlantico, da Londra a Parigi, Napoli, San Paolo, New York, L'Avana, coinvolgendo anarchici, socialisti eterodossi, nostalgici borbonici, ex-rivoluzionari ora al servizio degli americani, i quali nell'arco di decenni si muovono da un continente all'altro, si incontrano, si separano, si scrivono, si ritrovano, si scambiano informazioni, condividono amicizie, fanno progetti, in un reticolo di contatti tanto mutevole e inafferrabile quanto fitto e persistente. Altrettanta attenzione è dedicata all'«altra rete», quella di ministri, poliziotti, questori, ambasciatori, spie, indaffarati a seguire i primi nelle loro peregrinazioni, a carpire le loro intenzioni, a impedire le loro iniziative.
È questo il tipo di ricerca di cui ha bisogno la storia dell'anarchismo per andare oltre le apparenze. Come diceva E. P. Thompson riguardo al Luddismo, l'anarchismo è un movimento «opaco»: su di esso scarseggiano le fonti, perché così volevano i suoi protagonisti. Mettendo in luce la continuità nel tempo e nello spazio di quel fiume carsico che è l'azione anarchica, questo tipo di ricerca contribuisce a dissipare il luogo comune di un anarchismo millenarista e irrazionale – fatto di rivolte effimere e sempre in balia degli eventi – così congeniale agli storici che trovano comodo fermarsi alle apparenze per trovare una facile conferma ai loro pregiudizi.
Il quadro transnazionale che emerge è tanto più efficace quanto più gli autori lo dipingono senza enfatizzarlo, come se esso si dipanasse dalla loro ricerca quasi involontariamente, senza che essi lo cercassero e ne facessero il loro obiettivo.
Ciò che interessa agli autori è piuttosto fare luce «su un appassionante intrigo d'inizio '900», identificarne i personaggi chiave e chiarire l'intreccio di eventi. Gli eventi in questione sono l'attentato di Gaetano Bresci a Umberto I, con l'annessa vexata quaestio del coinvolgimento di Malatesta, e soprattutto il progetto di evasione di Bresci, che gli autori sostengono, documenti alla mano, essere stato al centro delle trattative fra Maria Sofia e Malatesta, e che nelle intenzioni di quest'ultimo doveva essere la scintilla che avrebbe potuto dare inizio a una rivolta anti-monarchica. L'esistenza di questo progetto, frettolosamente liquidato da gran parte della critica come pettegolezzo storico, spiegherebbe anche il «suicidio» di Bresci, la più radicale misura che il governo potesse escogitare per prevenire quel progetto.
Tuccinardi e Mazzariello svolgono un egregio lavoro «investigativo», dando un nome ai vari protagonisti, scoprendone di insospettati, soppesando tutte le ipotesi e talvolta rivalutandone di screditate, non lasciando alcun sentiero inesplorato, argomentando con scrupolo e cautela in sostegno delle tesi avanzate. Essi gettano così nuova luce su una pagina della vita di Malatesta rimasta finora in ombra.
Consci del valore del loro lavoro, gli autori auspicano che esso possa indurre «ad una rilettura e forse persino ad una revisione storiografica di primaria importanza» e in tale ottica inquadrano l'azione di Malatesta nel 1901 all'interno di una più ampia svolta tattica inaugurata dall'opuscolo Contro la Monarchia, del 1899.
Tuttavia, la parte interpretativa – la quale, va detto, rimane comunque soltanto abbozzata – è quella più debole del libro. Contro la Monarchia fu sicuramente una svolta fondamentale, ma non nel senso che gli autori suggeriscono. Nel fare riferimento a quell'opuscolo essi inseriscono l'intesa fra partiti rivoluzionari in esso propugnata e i contatti con l'ex-regina all'interno di una stessa svolta, consistente nell'apertura a forze esterne all'anarchismo. In realtà questi due tipi di alleanze appartengono a filoni, fra di loro indipendenti, che si ritrovano in Malatesta in tutte le epoche. Basti pensare, rispettivamente, al fronte unico e al tentato accordo con D'Annunzio, durante il biennio rosso. In estrema sintesi, lo schema interpretativo proposto è questo: fino al 1898 Malatesta inseguì una chimera, la rivoluzione puramente anarchica; preso atto della realtà, si adattò pragmaticamente ad architettare complotti con chiunque fosse disponibile. Ritorna insomma lo stereotipo impossibilista della dicotomia fra utopia e realtà. Tuttavia, Contro la Monarchia non fu una svolta rispetto a un presunto esclusivismo anarchico, che mai appartenne a Malatesta, ma rispetto all'esperimento di «lavoro lungo e paziente» chiuso brutalmente dalle cannonate del 1898; e la svolta consistette nella nuova coscienza che l'insurrezione precede, non segue, il progresso graduale.
Più in generale, credo sia vano aspettarsi di fare scoperte sensazionali sulle idee che guidavano l'azione degli anarchici. Tutt'al più si sfondano porte aperte. Tanto opaca era la loro azione quanto trasparenti le loro idee, che la coerenza tra mezzi e fini preservava da qualsiasi machiavellismo. Per capire quelle idee non c'è da scavare negli archivi, ma da leggere i loro scritti. Da essi si capirà bene quanto, all'interno della coerenza tra mezzi e fini di Malatesta, ci fosse tanto posto per accordi perfino con ex-regine, quanto poco ce ne fosse per farsi anche solo nominare candidato-protesta.
Concludo notando alcune bizzarrie del libro. Una è che il disegno in copertina, rielaborazione di una foto, viene presentato come «probabile autoritratto». Un'altra è che al lettore vengono inflitti lunghissimi estratti, fino a cinque pagine, in lingue straniere. Le traduzioni sono relegate in appendice, ma sarebbe stato meglio fare il contrario, magari condensando. Ottimo invece l'apparato iconografico, ulteriore segno di esemplare accuratezza e completezza.
Il libro non costituisce l'ultima parola sugli eventi. Le tesi svolte, per quanto ben documentate, rimangono in parte congetture. Tuttavia, il libro alza di molto l'asticella. Gli storici che vorranno dire qualcosa di nuovo sul tema dovranno lavorare sodo, e ciò è quanto di meglio ci si possa augurare: anche questo è un modo per riconoscere all'anarchismo la dignità culturale che gli spetta.

Davide Turcato



Le cose che vengono
da dio

Se c'è un argomento ostico da introdurre in “ambiente anarchico” è proprio quello riguardante la “religione”. Se, giustamente, questa ostilità è motivata dalla storia – qui da noi leggi storia della Chiesa cattolica, con l'influenza che ha sempre avuto nel determinare vite ed eventi – non lo è altrettanto quando in questione è il senso religioso della vita, inteso come ricerca etica, come orientamento rispetto alle molteplici direzioni che si possono prendere lungo il cammino.
Si compie spesso, secondo me, il fatidico errore di buttar via il bambino insieme all'acqua sporca. Da parte mia, che certo non sono anarchica d.o.c. ma solo una che insiste ad andare ostinatamente in direzione contraria, o quantomeno ci prova, penso sia un gran peccato. Che quell'acqua sia molto sporca non lo mette in dubbio nessuno, che quel bambino sia da salvare è altrettanto certo. Soprattutto in questi tempi, nei quali la fede islamica è nell'occhio del ciclone per tutti i fatti più recenti, è necessario operare delle distinzioni nette e ragionare su chi e perché può essere detto religioso.
Introduco con questa premessa la conversazione intercorsa, nell'agosto 2013, tra Leonardo Boff e Luigi Zoja - il primo conosciutissimo teologo della liberazione, il secondo altrettanto conosciuto psicanalista junghiano - raccolta nel libro Tra eresia e verità (Chiarelettere, Milano, 2014, pp. 145, € 10,00). Conversazione che termina con una domanda e una risposta: «Nel 2011 la teologia della liberazione ha celebrato il suo quarantesimo compleanno. Cosa rispondi a chi sostiene che è superata?»
«Rispondo che è ormai diffusa in tutti i continenti e rappresenta un modo diverso di fare teologia, a partire dai reietti della Terra e dalle periferie del mondo. [...] Nel 2008 c'erano 860 milioni di poveri al mondo, oggi sono prossimi al miliardo. [...] Fino a quando ci saranno persone discriminate e oppresse avrà sempre senso, partendo dalla fede, parlare e agire in nome della liberazione. [...] La nostra sfida non è quella di accrescere le schiere dei cristiani, ma di creare persone oneste, umane, solidali, compassionevoli, rispettose della natura e degli altri. In questo modo si realizza il progetto di Gesù.»
Detta la fine, cito anche dall'inizio: «Nel suo approccio originale alla psicoanalisi Boff ha avuto il merito di far coincidere l'idea junghiana di archetipo con quella indigena della Pacha Mama, la grande Dea Madre o Madre Terra. [...] si può dire che la dimensione psicologica sia diventata sempre più importante nel corso della tua vita?»
«Sono cresciuto in un mondo in cui primitivo e moderno si sono incontrati e contaminati. [...] Il rispetto per la Terra come sistema vitale unitario è un archetipo da riattivare e appartiene alla dimensione del sacro. [...] La nostra cultura ha separato l'uomo dalla natura e l'ha spinto a dominarla, distruggendo quel senso di totalità che contraddistingue ogni visione spirituale della vita. Le religioni venerano le Scritture, l'ostia consacrata, lo spazio del tempio, ma non riescono ad aprirsi al mistero del mondo e all'energia che alimenta l'intero Universo. Questa lacuna spirituale è uno dei più gravi problemi della modernità. La teologia sostiene che tutti gli aspetti del Creato sono simboli e segni del creatore, sacramenti naturali. Ma sono parole morte perché noi non viviamo questa dimensione. Abbiamo avvicinato le popolazioni indigene per sterminarle perché non avevano il senso della proprietà privata ...»
È facilmente immaginabile come nel mezzo a questi due brani si sviluppi una conversazione dove il termine religioso è sempre sotteso ad un'autentica ricerca di verità, ricerca che non ha interesse nel difendere un credo in particolare ma, al contrario, è consapevole che la religione può essere usata per addomesticare e invitare la gente alla rassegnazione, oppure per mobilitarla nella prospettiva della liberazione. Liberazione che per essere reale non può dirsi solo umana, ma deve coinvolgere la Terra con tutti i suoi abitanti, allo stesso modo continuamente sfruttati e sterminati. Nell'auspicio di una democrazia socio-cosmica dove ad alberi, acqua, montagne e animali possa venir riconosciuto il diritto di cittadinanza perché, se - come anche Jung aveva intuito, già a suo tempo - lo sfruttamento della terra avrebbe causato una crisi globale, il cambiamento necessario ad uscire dalla stessa può avvenire solo riallacciando legami profondi con ciò che ci circonda
“Tra eresia e verità” è un libro leggero e di piacevole lettura - anche se il titolo inviterebbe ad intendere il contrario - dove lo spessore umano di chi parla riesce a toccare con leggerezza mai superficiale temi profondissimi e imprescindibili e dove il dialogo è intercalato da ricordi e aneddoti. Così possiamo immaginare un Leonardo Boff bambino, con nonni veneti emigrati in Brasile alla fine dell'Ottocento, vivere in una zona selvaggia e abitata da pochi indigeni, e riusciamo a vedere un giovane studente di teologia nella Germania della seconda metà degli anni Sessanta, con tutti gli incontri che incominciarono a formare la sua personalità.
La loro riflessione, dopo aver visto da più angolature e dati alla mano le problematiche di miseria materiale di tanta parte della popolazione mondiale, ci ricorda come per altri oggi la miseria sia mancanza di senso critico, docile disponibilità a trasformarsi in consumatori, e che quindi - nel cercare soluzioni autenticamente praticabili - non abbiamo a che fare solamente con un problema economico ma anche educativo e psicologico.
Anche qui, come in altri libri da me recensiti (evidentemente il tema mi sta a cuore), viene auspicata un'economia del sufficiente, rispettosa di ogni cosa che vive, e si sottolinea come l'opposto della religione non sia l'ateismo ma la mancanza di connessione con il Tutto.
In ultima analisi possiamo dire che quella che ci viene mostrata è una teologia della liberazione integrale, che comprende tutte le dimensioni dell'essere umano, quella sociale, quella politica e quella personale, una teologia che vede il nostro dramma più grande nell'essere sradicati, nell'aver perso la nostra spiritualità, che non è adorazione di immagini o parole ma, ripeto, capacità di vivere un sentimento di appartenenza.
Convinta come sono che recuperare questa dimensione interiore sia indispensabile oggi per tutti, anarchici e non, voglio concludere questo mio invito alla lettura riportando le parole di una donna - anarchica e religiosa come fu Simone Weil - parole che, in qualche modo, vengono a completare i temi toccati nel libro: «Il criterio delle cose che vengono da Dio è che esse presentano tutti i caratteri della follia, eccetto la perdita dell'attitudine a discernere la verità e ad amare la giustizia. [...] Devono esserci [...] momenti in cui [...] la follia d'amore solamente è ragionevole. Questi momenti non possono essere che quelli dove, come oggi, l'umanità è divenuta folle a forza di mancanza d'amore.»

Silvia Papi



La grande storia
del surrealismo

Quest'ultimo (ed ennesimo) volume di Arturo Schwarz (Il Surrealismo. Ieri e oggi. Storia, filosofia, politica, Skira, Milano 2014, pp. 540 + cd, € 59,00), frutto di oltre dieci anni di lavoro, si propone di presentare il Surrealismo non solo come movimento letterario e artistico, ma come filosofia di vita. Schwarz, storico, saggista e poeta, surrealista militante curatore di mostre e appassionato collezionista nasce nel 1924 ad Alessandria d'Egitto, come Marinetti, non ama quest'ultimo, e con lui il Futurismo, magari adora Leda Rafanelli che (fra Ungaretti, Pea, e gli anarchici lì emigrati), in un reale o immaginato passaggio dalla città, ha, come lei, amato la kabbalah. Biograficamente coinvolto nel clima alchemico di quel luogo immaginista ha, come loro, inventato la propria esistenza. In quella mitica biblioteca il libro troverà posto.
“Quando, nel 1898, Freud scrive L'interpretazione dei sogni, crolla il concetto che vede l'essere umano padrone della natura e di se stesso. Freud fa prendere coscienza del fatto che il nostro vivere quotidiano non è determinato soltanto dalla coscienza, ma da un inconscio che occupa in realtà i nove decimi dell'attività mentale dell'individuo”, Schwarz al Convegno sulla Storiografia del maggio scorso a Reggio Emilia continua: “il Surrealismo non si limita ad essere nichilista ma vuole essere una nuova filosofia della vita i cui elementi essenziali saranno esplicitati nel Primo Manifesto del Surrealismo (1924), aggiungendo che il Surrealismo, ripetiamolo, è una filosofia libertaria della vita e non semplicemente una nuova corrente artistica o una nuova scuola letteraria. È uno strumento di conoscenza che ambisce a cambiare il mondo e cambiare la vita.”
Questi i parametri dell'opera che si sviluppa su tre livelli, o libri, due di carta, il terzo (apparati) ricco cd in tre sezioni. Il primo è il repertorio ragionato dei periodici, il secondo, l'elenco completo delle collettive, il terzo la bibliografia sintetica. Di particolare pregio l'elenco degli autori e la periodizzazione (1924-65, Breton vivo - 1966 -, la fase successiva). Strumenti fondamentali, specie il repertorio dei periodici dal 1919 al 2010, che include gli “affini” coevi o di filiazione.
Superfluo elencare, risultando ineludibile la consultazione per chiunque voglia approcciare in modo approfondito il tema. Il criterio cronologico delle adesioni e filiazioni dà il senso della permeazione del fenomeno, dal 1919 ad oggi, come in un film, in ordine di apparizione. Francia, Spagna, Belgio, ex Iugoslavia, Perù, Giappone, Cecoslovacchia, Inghilterra, Norvegia, Stati Uniti, continuando con America latina, Svizzera, Nord Africa, Portogallo, Austria. L'analogia, la psicanalisi e Freud inondano la pubblicistica surrealista, meno l'Italia che ne resterà solo scalfita, come più volte ha notato l'autore, il quale sarà prima condirettore (pseud. Tristan[!] Sauvage) e poi direttore fra 1959 e 1960, di una rara rivista milanese. A seguire Olanda, Hawaii, Islanda, Germania e Canada. Formazione e sviluppo del movimento, quindi evoluzioni recenti, specie internazionali.
Nel libro il movimento attuale è considerato continuazione e non post, perché col surrealismo, qualcosa è successo per sempre (ready made, automatismo, superamento dei limiti), come è accaduto anche per il Futurismo. Si afferma che il Surrealismo si trova in J. Johns, Rauschenberg, Baj, Dangelo, Kaprow, Serra, Celant, fino alla transavanguardia. L'impulso romantico è già nella prima fase (1916-22) a fronte del nichilismo dadaista, come più volte ribadito, mantenendo distinti i movimenti e anticipando la nascita del S. al 1916 con Freud e Jarry e coevo nei fatti a Dada, e in divenire. Da psichiatra, Breton coglie appieno le potenzialità di Freud, e le usa, specie nel senso della rottura dei freni inibitori, trasformando il sub in-conscio. L'humor nero e la funzione dell'inconscio sono modelli interpretativi che superano la periodizzazione. Breton percorre e precorre fra sensibilità e incontri (Vaché e Jarry) il Surrealismo e cavalcando Wilhelm Reich riconosce la rivoluzione sessuale come Rivoluzione. Il trionfo del principio del piacere sul principio di realtà,sostanzia la differenza. Nel '17 Breton incontra Soupault e Aragon formando così il primo gruppo.
Nella prima parte pone i distinguo, le differenze fra movimenti troppo spesso ritenuti simili, ne antepone le sensibilità ne traccia il percorso. L'Arte si sente e si vive e ciascuno trae ciò che vive entrando in contatto. Ma una cosa è il pubblico altra l'artista. Il secondo può rivendicare per il gruppo, il primo,definire per se medesimo. Poi, come sempre, c'è chi, sia politicamente che eticamente,ha poco a che vedere col movimento,come nel caso di Avida-dollars (Dalì), che ci è comunque caro per Un chien andalou e L'ge d'or di Buñuel. Dada e Surrealismo si intersecano occasionalmente distinguendosi immediatamente poi.
Questa è la sintesi cara a Schwarz che rivendica con orgoglio l'attività politica rivoluzionaria costante nel lungo periodo. Il sogno ad occhi aperti dei surrealisti non fece mai perdere loro di vista la realtà nella quale lottavano, furono contro carceri, esercito, stato. Un sentire forte e marcato in Artaud, autenticamente anarchico, che connota se non l'intero, almeno parti contaminanti del Movimento. Nel libro-archivio si trovano connotati libertari e anarchici che Schwarz con successo indica e fa emergere. Tratteggia in particolare il trotskijsmo che è parte significativa, ma Buñuel, Péret o Mirò già aderente a gruppi anarchici spagnoli e ancora Baj e precise figure dell'anarchismo internazionale sono presenza documentata. Col '51 inizia una collaborazione con «Le Libertaire» della Federation Anarchiste Française, attraverso una Dichiarazione preliminare del 12 ottobre (31 testi specie di Péret, che lì si trovava a suo agio, e Breton).
Il Surrealismo non è scuola o corrente è un modo di agire libero, scrive Schwarz, per trasformare il mondo cambiare la vita. E la vita si trasforma con l'amore fisico e l'amour fou, l'amore come illuminazione, anche se è facile notare la presenza, fra i teorici del surrealismo, di soli maschi. Il trionfo del piacere non solo fisico e il gioco, si trasferiscono nella parola scritta erede del verso libero luciniano e nella scrittura automatica. L'arte, l'anarchia, e anche il surrealismo, sono internazionali e per l'autore, senza tempo. Attinge dalle culture del passato e grazie all'espansione non si conclude, e ciascuno è libero, nell'alveo disegnato, di seguire il proprio percorso. Dopo il '69 vi è anche rilettura, storicizzazione, ristampa, amplificazione, valutazione degli effetti, ma il movimento resta vitale perché condannato a innovare.
Così si apre il secondo libro post-Breton, e/o in continuità, paese per paese, con sintesi storiche, percorsi, analisi, principali pubblicazioni, gruppi ecc., di volta in volta segnalati curati da uno o più autori o gruppi e collettivi. Scorrono così Belgio Cecoslovacchia Danimarca, Francia e Gran Bretagna con numerosi gruppi. Ed ancora Grecia, Jugoslavia, Paesi Bassi, Portogallo, Romania, Spagna, Svezia, Turchia, quindi America latina, Argentina, Brasile, dove Péret sarà fra '29 e '31, Caraibi, Cile (S. Matta), Colombia, Messico, Perù, e Asia, specie Giappone, dove nel '20 alcuni anarchici fondano il Partito comunista anarchico al quale aderiscono tutti i dadaisti. La disamina prosegue con l'Africa - movimento surrealista arabo in esilio a Parigi -, che, inizialmente marxista, tenderà all'anarchismo con la rivista «Le désir libertaire». Per chiudere: Stati Uniti. A Chicago il gruppo della Roosevelt University si ispira agli anarchici di Haymarket ed all'IWW, apre la libreria Solidarity (1964), conia “fate l'amore non la guerra”, a Parigi incontra Debord e a Londra fa nascere la rivista anarco-surrealista «Heatwave» e si relaziona al pedagogista anarchico Sakolsky ed a Löwi che nel 2009 accosta e include anarchia e surrealismo.

Alberto Ciampi



Un po' provo
un po' staffetta partigiana

Con gli occhi, le parole e la bici di Luigi Chiarella, seguiamo le trasformazioni d'inizio secolo di Torino; gli anni dieci per il capoluogo piemontese sono gli anni delle illusioni targate olimpiadi invernali, sono gli anni della manifestazione più dura della crisi. Leggendo Diario di Zona (Edizioni Alegre, Roma, pp. 320, € 16,00) viene naturale l'accostamento alla letteratura operaia di un altro grande autore calabrese, Vincenzo Guerrazzi, che negli anni settanta fece epoca con il suo: il Nord e Sud uniti nella lotta. Nel fluire del racconto di Chiarella, non si parla più della fabbrica, di catene di montaggio, di classe operaia, il profilo è diverso, lo sfruttamento, se possibile più duro da sopportare se hai studiato, hai una coscienza politica matura e nessun contratto definitivo.
Ma Yamunin, così si firma l'autore nel suo blog, https://yamunin.wordpress.com va ben oltre, perché il suo è un vero e proprio oggetto narrativo indefinibile.
Il libro tra l'altro è inserito in una collana molto interessante diretta da Wu Ming 1, che rientra in un progetto editoriale di Alegre che potete approfondire qui: http://www.ilmegafonoquotidiano.it/news/10x10-mi-abbono-ad-alegre-e-racconto-altre-storie. Un flusso di citazioni letterarie, musicali, sembra che per ogni zona nella quale è impegnato a lavorare, scorra una colonna sonora, si alternano a slogan letti sui muri e alle targhe in memoria dei partigiani uccisi, patrimonio comune che abbiamo cominciato a disperdere. L'autore-protagonista porta con sè un doppio fardello, che per certi versi lo accomuna ad Alberto Prunetti, un altro narratore di vaglia dell'Alegre edizioni; Yamunin è un operatore della cultura, recita e scrive per il teatro, ma per sopravvivere si cala nei tombini e nelle cantine di Torino per leggere da precario letturista i contatori dell'acqua.
È in questo scendere nel ventre molle della metropoli che il racconto si fa più vivo e fotografa con le parole luoghi e persone.
Mi sorprende della narrazione la massa di riflessioni alle quali induce, pur nella semplicità quotidiana del lavoro, mi sorprende la gentilezza e la calma con la quale si ribella, s'indigna con le domande e le parole; ecco Yamunin mi sembra in sella alla sua bicicletta, così provos, una staffetta partigiana delle lotte di oggi. Anche quando lo sguardo è più distaccato, come nel passaggio della sua escursione in solitaria sulla collina di Superga, si coglie la capacità dell'autore di cogliere prospettive diverse: così dalla collina più alta di Torino traccio una linea che passa dalla basilica di Superga, attraverso lo stivale e arriva al santuario della Madonna di Polsi a San Luca, sembra Saba in Trieste: potente!

Fabio Cuzzola