rivista anarchica
anno 45 n. 398
maggio 2015






Egle Sommacal.
Il cielo si sta oscurando

A volte, anche senza bisogno di parole, succede che un musicista riesca a raccontare delle belle storie attraverso il suo strumento e a segnare un punto nuovo sulle mappe, allungando un percorso, tracciando una strada nuova, spostando il confine un po' più in là. Ci riesce ancora Egle Sommacal, che ha da poco realizzato “Il cielo si sta oscurando”, terzo lavoro da solista. Avevo segnalato il suo debutto “Legno” su “A” 334 (aprile 2008) come pure il successivo “Tanto non arriva” su “A” 346 (estate 2009), parlandone come di opere capaci di accendere attenzione e far riflettere, entrambe importanti e fuori posto quasi fossero lavori adatti ad altri luoghi e tempi, come se nel nostro paese non potessero succedere oggi certi miracoli. Dove il primo era bello ed ombroso e malinconico, e il secondo bello e maturo e consapevole, il terzo è bello di una meraviglia devastante. Se con i precedenti l'aveva messo in discussione, con questo lavoro Egle distrugge il suo ruolo sociale di chitarrista muto, intrappolato nella propria arte e destinato ad esecuzioni perfette. Egle regala sogni, proprio come certi poeti. Te li fa toccare. Ti spinge ad allungare le dita, a immaginare. Difficile muoversi nel vocabolario per trovare le parole giuste, tante sono le emozioni, la sorpresa, l'appagamento, che giungono a ondate su questa spiaggia.
Egle Sommacal

Quando ho ascoltato il cd per la prima volta avevo la sensazione che la musica fosse fisicamente già presente nella stanza e stesse aspettando me. La chitarra di Egle racconta canzoni senza tempo, anzi che il tempo lo hanno afferrato tra le mani e stretto forte, e addirittura fermato. Sono tutte composizioni originali e recenti, non sono né blues né folk ma a volte pare abbiano addosso secoli, ciascuna indecisa se essere una storia di ieri oppure una pagina di diario scritta di fresco, con l'inchiostro ancora che brilla al sole. In più occasioni durante l'ascolto ci si sorprende dell'assenza della voce umana, per arrendersi all'evidenza di questa voce, voce insolita, voce differente da tutte, voce che passa per strade inusuali e raggiunge comunque il centro perfetto della testa. Amo queste corde di metallo che vibrano tese, questo legno semplice che avvolge ed amplifica, il riverbero dell'aria tutt'attorno. Non so voi, ma io trovo meravigliosi i suoni che escono da certi strumenti acustici, poveri, vecchi, addirittura antichi, suoni così curiosi proprio per nostra scarsa abitudine alla curiosità, suoni così altri dal magma irriconoscibile, liberi dalle manipolazioni tecnologiche di tendenza e dalla compressione obbligatoria per riuscire a farli passare, omologati, attraverso la radiolina prima, il walkman poi, lo smartphone adesso. Ogni ascolto ripetuto si rivela un'ora di illuminazione, un accadimento, un'esperienza. Quando passa sotto il laser l'ultimo brano (ti risveglia dal viaggio una pioggia veloce di risate, sempre imprevista), senti addosso tutta la viscosità pesante del silenzio e il solo modo per continuare a respirare è far ricominciare tutto daccapo.
Il cd è stato pubblicato senza far troppo chiasso dall'indie bolognese Unhip (www.unhiprecords.com).


Le tre opere di Mike Watt


“Metti insieme il tuo gruppo musicale. Dipingi il tuo quadro. Scrivi il tuo libro, la tua poesia”. Segnalazione auto-pubblicitaria, anche se solo per metà (è una coproduzione/collaborazione tra Dethector e stella*nera). Esce a fine marzo “Le tre opere”, testi originali inglesi e traduzioni italiane dell'americano Mike Watt. L'autore dovreste già conoscerlo, o almeno lo spero: è uno di quelli che c'erano in California ad accendere la miccia sotto il culo del rock tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta. Suonava il basso coi Minutemen e anche grazie a lui e al suo gruppo il punk di lì aveva preso quella sua certa piega impegnata e problematica, la loro era una vena creativa bizzarra, piuttosto diversa dalla politicizzazione estrema che si usava sbandierare volentieri dalle nostre parti su palchi e copertine.
Erano in tre (D. Boon chitarra, Watt al basso, George Hurley alla batteria), ragazzi semplici che, fossero nati nel nostro quartiere invece che in America, sarebbero senz'altro stati nostri compagni di giochi. Facevano pezzi brevissimi e contorti, canzoni sghembe e spesso ironiche, stilisticamente più affini alle sperimentazioni del Pop Group e di Captain Beefheart che all'hardcore. L'attività dei Minutemen si interrompe alla fine del 1985, quando D. Boon rimane vittima di un incidente stradale. Watt e Hurley sono distrutti, ci mettono un po' a tornare sulla scena: spinti dagli amici formano i fIREHOSE e si lasciano invischiare volentieri in dozzine di progetti diversi, da allora non li hanno fermati più niente e nessuno. Del primo periodo restano una manciata di album che fanno sospirare di nostalgia (il mio preferito è “Double nickels on the dime” del 1984, un disco davvero curioso e innovativo) e le sequenze raccolte nel documentario “We jam econo”, tre parole che spiegano proprio tutto, reperibile a facile portata di mouse. Curioso, anche se non sempre, l'album del 1995 “Ball-hog or tugboat?” realizzato da Watt con la collaborazione di amici musicisti misti tra vecchia nuova e nuovissima leva (membri di Pearl Jam, RHCP, Sonic Youth, Nirvana, Meat Puppets, Dinosaur Jr., Henry Rollins dei Black Flag, Pat Smear dei Germs, Mark Lanegan, Carla Bozulich, Petra e Rachel Haden, etc.).

Mike Watt

Il libro curato da Dethector si concentra su tre “opere punk rock” di produzione recente, ed una raccolta di poesie. Ciascuna delle opere di Watt è molto fortemente caratterizzata. In “Contemplando la sala macchine” (1997) egli setaccia scrupolosamente il rapporto col padre, ed esamina più in generale i meccanismi che regolano i gruppi, sovrapponendo la vita in mare del genitore alla sua vita in strada, mettendo in evidenza gli intrecci, le complicità e gli scherzi del destino che legano gli uomini tra loro, siano essi membri di un equipaggio a bordo di una nave oppure musicisti stipati dentro un furgone diretto al prossimo concerto. In “La fermata intermedia dell'assistente” (2004) Watt racconta di una improvvisa quanto grave malattia che lo ha colpito e quasi ucciso, dalla quale è uscito solo dopo cure ed una lunga convalescenza, in una sorta di viaggio d'ispirazione dantesca. I toni del discorso cambiano completamente, influenzati per certo dal delirio e dalla febbre, dal rimbalzare frenetico dei pensieri in testa nelle ore immobili su un letto d'ospedale, dalla deriva dei farmaci. In “Uomo-con-il-trattino” (2010), esplicitamente ispirato ai quadri apocalittici di Hyeronimus Bosch, sono raccolti trenta pezzi in cui Watt racconta il modo in cui “gli uomini diventano uomini”. Ancora, lo stile cambia: qui si fa visionario, strisciante come serpe, le parole usate come giochi di specchi, come enigmi, come profezie. Quasi la seconda metà del volume è occupata da una raccolta di poesie, non esplicitamente datate ma complessivamente recenti, che spesso rivelano il lato più intimo dell'autore. Un paio sono inni d'amore smisurato ai monumenti (John Coltrane, John Entwistle degli Who), molte altre sono invece un'occasione per fermarsi a sedere sul ciglio della strada, guardarsi intorno e riflettere. Detta così è francamente detta male: il libro, specie in questa quarta parte, è molto più complesso e meditativo di quanto io possa avervi descritto in queste poche righe.
La traduzione italiana a volte non smette di tenersi stretto tra le braccia il testo originale, così che serve un certo impegno investigativo da parte di chi legge. Va detto che Watt ha letteralmente inondato Dethector di aggiunte, spiegazioni, commenti, aneddoti, curiosità che il curatore ha in massima parte evitato di riportare nelle note: a volerci ficcare tutto sarebbe stato necessario altrettanto volume e, azzardo, il risultato sarebbe stato meno interessante.
Il libro, 160 pagine belle piene, non è distribuito commercialmente: si può richiedere a Dethector (dethector.wordpress.com) oppure a stella*nera (e-mail: stella_nera@tin.it) in cambio di un'offerta libera/consapevole.

Marco Pandin