rivista anarchica
anno 45 n. 399
giugno 2015


ricordando Liber Forti

Adiòs Liber,
a ti
nuestro conjunto abrazo fraternal

di Lela Campitelli e Federica Rigliani


È morto a Cochabamba (Bolivia), a 95 anni, Liber Forti, militante anarchico nato in Argentina (a Tucumàn, 1919), storico leader del sindacato dei minatori boliviani, protagonista per decenni della vita politica, sindacale, culturale e artistica dell'America Latina.
Lo ricordano qui due compagne: Federica che con lui ha condiviso, qualche anno fa, un'esperienza (non solo) teatrale di cui già riferì anni fa su queste pagine. E Lela che, pur non avendolo conosciuto, ne ha fatto proprio l'insegnamento.




Insegnamenti di vita anarchica applicata

di Federica Rigliani

Qualche anno fa ho raccontato a questa rivista una mia esperienza in quattro puntate, un viaggio fatto sulle Ande alla ricerca di fonti per la mia tesi di laurea. L'ultima puntata era proprio dedicata al gruppo sul quale mi laureavo e per il quale cercavo di costruire una bibliografia: il Teatro de los Andes, allora diretto da César Brie. Per poterlo fare sono andata a cercare le esperienze e gli esempi che, in un modo o nell'altro, erano per me e per il gruppo in questione precursori del viaggio e della ricerca che iniziavo (“A” 376 dicembre 2012 - gennaio 2013).
È stato così che ho conosciuto Liber Forti, anarchico argentino che per anni fu assessore culturale della Federación Sindical de Trabajadores Mineros de Bolivia (FSTMB) e fondò, nel 1946, il Conjunto Teatral Nuevos Horizontes nella piccola cittadina di Tupiza, nel sud della Bolivia. Per raccontare la storia di Liber mi servii di tutto il materiale che riuscii a mettere insieme: articoli di giornale, scritti pubblicati dal Conjunto dagli anni quaranta fino ai sessanta, interviste di chi lo aveva conosciuto, articoli di chi aveva già dato voce a quella storia e a quell'esperienza e una lunga, interminabile, fluida intervista a lui, allora settantacinquenne, nella sua biblioteca di Cochabamba. L'undici marzo, Paolo del Teatro de los Andes mi ha detto che Liber era morto. Aveva 95 anni.
Dai ricordi del fondatore ho messo insieme l'esperienza che, dal '46 al '61, portò un enorme rinnovamento culturale tra le lotte sindacali e la storia di una compagnia composta da “artisti organici” che mantennero un legame strettissimo con un territorio aspro e magico allo stesso tempo, che seminarono con amore e pazienza un solco, contornato anche da delusioni, mosso dalla forza di grandi energie intellettuali che ancora oggi continua a raccogliere frutti.
Situata nella regione di Potosí, la più rivoltosa e la più mineraria di tutta la nazione, Tupiza era sinonimo di miniera sì, ma non fu mai un accampamento minerario come Potosí o Oruro, che fecero la storia del paese e ingoiarono nelle viscere delle loro montagne decine di migliaia di uomini. Un paese di cavatori, la Bolivia, che tra il 1943 e il 1946 visse la prima esperienza di unione tra contadini e minatori, le classi sociali più importanti per numero, forza e densità di popolazione, le più disagiate e povere di un territorio rurale dal sottosuolo ricchissimo. Esperienze sindacali e nascita di movimenti sociali caratterizzavano questi anni intensi di contrasti e avvenimenti politici, tra dittature e governi nazionalisti, sollevamenti sociali e nascita dei partiti di opposizione. I minatori iniziarono ad organizzarsi in sindacati unitari, ispirati dalle correnti socialiste, anarchiche e del nazionalismo rivoluzionario per combattere i baroni dello stagno e rivendicare la nazionalizzazione delle miniere.

Liber Forti (Tucumàn, Argentina, 1919-
Cochabamba, Bolivia, 2015)
Radio Chorloque, i minatori, i campesinos

Liber respirò questo clima, e qui decise di fermarsi, riversando la sua arte con grande senso etico e sociale nell'immediata realtà circostante, con alto livello di sensibilità umana come condizione necessaria del fare teatrale che, da un punto di vista sociale, costringe l'attore-essere umano a non prescindere dalla realtà nella quale vive. Questa sensibilità guidò N.H. verso la strada di cooperazione e di solidarietà che tanto caratterizzò gli obiettivi del Conjunto: di fronte all'estrema povertà e alle condizioni di disagio che vivevano gli abitanti di Tupiza, la sensibilità giovanile e solidale di N.H. non aveva la pretesa di risolvere i problemi, ma di denunciarli e segnalarli alla società che avrebbe dovuto farci i conti in maniera critica. E questa è la grande lezione che N.H. dà a tutto il paese: l'arte intesa come una forma di vita e di lavoro attraverso cui interrogare la società e per cui ogni gesto, ogni intervento, ogni azione dovevano risultare benefici per la collettività tupiceña di cui il Conjunto si sentiva parte. Per questo, con il ricavato degli spettacoli acquistava scarpe per i bambini poveri e scalzi delle scuole serali e interveniva sugli argomenti più disparati riguardanti la comunità: da una discussione su un monumento alla Madre appena costruito alla collaborazione con il piccolo comune per ottenere il materiale necessario per l'illuminazione pubblica, dalla preoccupazione di dotare la cittadina di una radio trasmittente culturale, come Radio Chorloque, alla collaborazione con le scuole e i movimenti popolari e sindacali dei minatori e dei campesinos.
Spirito solidale e sensibilità, insieme ai sentimenti di giustizia e di libertà che si coniugano tanto bene con il movimento artistico e culturale, fecero emergere nel gruppo un senso etico di responsabilità collettiva consolidatosi nel cammino della realizzazione personale di ogni membro, ma sempre nell'azione comune verso gli altri, offrendo così una sensazione feconda di interazione sociale. Il Conjunto era una vera e propria “fondazione nello spirito”, per usare le parole di Liber Forti, perché ridurlo alla semplice definizione di “gruppo teatrale” è, non solo a mio avviso, alquanto riduttivo. Coniugando etica e cultura informava su temi sociali, oltre che sulle esperienze di teatro europeo e internazionale, ed editava in mille difficoltà i Cuadernillos e il Boletín. Nell'ultimo, del 1961, con un editoriale commovente dal titolo “Nos vamos de Tupiza” spiegò le ragioni che lo portarono ad abbandonare, dopo quindici anni, quel luogo diventato anche grazie al suo lavoro culturale crocevia di idee e di effervescenze disparate: “Nostro fu l'impegno attraverso un duro lavoro, con fede e trasparenza [...] per ottenere nobiltà e amore in queste relazioni. Loro fu l'asprezza e l'indifferenza”.
Oggi, avrei ben poco da aggiungere parlando di Liber, non perché non ci sia da aggiungere, solo perché ho perso di vista l'uomo e l'artista, ho vissuto poco i suoi ultimi anni e non ho avuto modo di condividerne le esperienze, quindi non so raccontarle perché non mi si sono appoggiate sulla pelle. E io di questo ho bisogno.
Mi interessa, però, porre l'accento sulla consegna totale che Liber fece della sua vita alla ragione per lui più grande: la cultura e l'educazione come armi di innalzamento dello spessore di un popolo, della sua interezza, della sua umanità. E la sua cocciutaggine l'ha avuta vinta: a 93 anni tornò con oneri e clamore tra chi, riconoscendo in lui un maestro d'arte e di vita, aprì nel 2012 a Tupiza la Primera Edición del Festival Nacionl de Teatro Liber Forti, tenutosi dall'11 al 20 gennaio, che Liber inaugurò personalmente. E i tupiceños, a distanza di anni e alla luce di un'eredità indissolubile che aveva scritto la storia della cittadina e del teatro in Bolivia, gli restituirono la casa che da sempre era stata del Conjunto perché diventasse la sede della Fundación Nuevos Horizontes.
Ecco come un sogno d'inizio secolo ha saltato lo sbarramento dello spazio e del tempo, è diventato realtà attuale, ha cancellato la parola “impossibile” dal suo percorso culturale e umano. E la storia di Liber permane nel tempo, oltre il tempo stesso.
Per questo non voglio ripetere quanto su di lui è stato già detto anche da me, né voglio ridurre queste poche righe a un necrologio compassionevole. Voglio, invece, riprendere le voci di alcune persone che, leggendo la sua storia in un mio post su facebook nel quale lo salutavo per il suo ultimo viaggio, hanno realizzato delle belle considerazioni e dei pensieri interessanti sull'esempio di vita e di resistenza che Liber ha fatto della sua esistenza e del suo lavoro. Francesca Palma ha ringraziato per “il bel viaggio mentale” e la straordinaria testimonianza offerta, mentre Lela Campitelli ha ricordato un volantino, “uno degli strambi volantini che facevamo... diceva: Che ne sarà di noi?”, e ha scritto le sue riflessioni da una Matera antica e moderna, riscattata grazie alla cultura, alla conoscenza, alla possibilità che c'è oggi, in quel posto tanto bistrattato un tempo e legato nella memoria alle condizioni di umiltà che generavano solo vergogna.
Questo è quello che ho proposto a Paolo Finzi, capo-redattore di “A” Rivista Anarchica. Questo mi interessava: cosa ha lasciato la lettura della vita di Liber a chi non lo aveva mai conosciuto né aveva sentito parlare di lui. Liber fu per intere generazioni boliviane un esempio di vita all'insegna della libertà, dei valori di uguaglianza e rispetto, riuscì ad applicare alla vita l'ideale anarchico e libertario di giustizia e alimentazione culturale delle anime. Invece, mi viene in mente la storia di un attuale giornale online, News Town, voce indipendente di un territorio massacrato: l'intera provincia aquilana venuta giù dopo il terremoto terribile del 2009. Nato dopo il sisma, è esempio di resistenza locale di cittadini/e che hanno voluto raccontare ciò che guardavano oltre le transenne invalicabili dell'immensa zona rossa. E oggi, a distanza di sei anni da quella tragedia e dopo tutti gli sforzi fatti dal basso per esserci e resistere, sembra negata loro la possibilità di tornare in un centro storico. News town vive online, non ha copia cartacea e si autofinanzia. Parla della vita che gli gira intorno, segnala e denuncia i mali della realtà più vicina: il territorio devastato dell'Aquila e provincia. Oggi, la redazione prova a tornare in centro storico, perché sono in tanti a scommettere, pur nella difficoltà, nella possibilità di riabitarlo di anime, pensieri, idee e parole, di ripopolarlo di presenze mentali, oltre che fisiche. Eppure non riescono ad allacciare la rete Internet.
Ecco, mi sembra un esempio ad hoc operato da una burocrazia cieca che toglie la possibilità, a chi investe tutto se stesso per esserci in modo responsabile e dal basso, con senso etico e con la forza di una volontà ferrea. La stessa burocrazia che crea solo isolamento ed esclusione, che smorza voci e sopisce coscienze. La cultura si deve poter respirare, non dovresti fermarti a cercala, dovrebbe investirti e prenderti, dovrebbe abitare i luoghi di per sé, arrivare a tutti, nobilitare l'essere umano nella sua essenza più profonda per scuotere coscienze e crearne di nuove. Per questo credo che bisogna porre l'accento sull'importanza che certe esperienze hanno ancora sull'oggi, sull'ora, sul qui - non necessariamente luogo - percorrerne la scia, non all'insegna del passato, ma di un presente del quale tutto, ma proprio tutto, fa parte. Un presente che Liber ci ha lasciato, oltre l'arte attraverso l'arte.

Federica Rigliani

Il teatro sulle Ande

“A” si è più volte occupata del lavoro di Liber Forti e di alcune esperienze teatrali nella Bolivia della seconda metà del '900,
pubblicando quattro articoli curati da Federica Rigliani:





Che ne sarà di noi?

di Lela Campitelli

Ricordo un volantino, uno degli strambi volantini che facevamo... diceva “Che ne sarà di noi?”: non ricordo a quale iniziativa fosse collegato. Non ricordo! Nel frattempo cammino sotto una pioggia fitta, come al solito godendomi le suggestioni del luogo - mi piace la felicità indifferente dei paesaggi, non li collego ai miei stati d'animo. Un furgoncino mi raggiunge e passa oltre al suono di “Tomorrow people”, e penso che siamo noi quelli... La gente di domani! Che strana simmetria!
Il luogo è Matera, Sassi di Matera per la precisione, e lo scenario delle mie riflessioni è una gola rocciosa chiamata Gravina sul cui costone occhieggiano le chiese rupestri, le grotte scavate dai monaci bizantini in fuga dalle guerre iconoclaste. Matera: città da poco eletta a capitale della cultura per il 2019, con i Sassi Patrimonio Mondiale dell'Umanità dal 1997, nel cuore del Parco Naturale della Murgia e delle Chiese Rupestri. La città di cui parlava Carlo Levi, nel racconto del suo confino in Basilicata, dalla cui testimonianza partì un'interpellanza parlamentare su quella che veniva considerata la “vergogna” italiana per le condizioni di estrema povertà e insalubrità che documentava. Oggi simbolo di una specie di riscatto quindi, ma sul rovescio della medaglia c'è la soglia, non si sa se ancora non varcata, della città in vendita, della città souvenir, del luogo conservato per l'illusione della memoria.
Qui non si parla d'altro che di Pasolini, un altro cristo, ripetutamente crocifisso. Demolito nel vacuo spazio dell'immagine, e nel riverbero respinto delle sue parole, divenute quinte teatrali. Sensazione... opprimente sensazione di perdita del rifugio per la coscienza che può essere la testimonianza: parole di quella portata! La parola fatta corpo e sostanza. Sento che di nuovo tutte le possibilità di dire crollano. E Federica aspetta da me il tassello di un lavoro corale!
Mentre mi domando cosa ne è stato di noi, mi riempie di una felicità inattesa - come il paesaggio di prima - un'immagine, più una visione; proprio il racconto di Liber Forti fatto da Federica. La sua vita, l'utopia come dura costruzione giorno per giorno.
Certe persone, come lui, sconosciute ai più, note a chi segue la storia dei movimenti non-violenti, hanno attraversato un secolo tra lotte per i diritti, esperimenti sociali e nuovi linguaggi. E questo mi permette ancora una volta di riallacciarmi questo filo alla scarpa e ricominciare a camminare; ancora un po' nel non-sense del mio momento storico, ma con questa sensazione di felicità che viene da una vita caparbiamente impiegata in un progetto che va oltre se stessi e oltre il proprio tempo.
Si tratta di percorsi umani che elevano la condizione del singolo a molla del processo umano e universale, lo riportano a una condizione ontologica che precede l'uomo-massa, lo ricongiungono alla possibilità di riprendere in mano la sua storia, il suo disegno nel mondo, a partire da un'alleanza con quelli che in apparenza sono i più deboli della catena, quelle persone che subiscono l'oppressione del sistema economico e ne fanno direttamente le spese.
Le vicende del nostro mondo, oggi, ci impediscono di concepire un'utopia, proiettarci in un futuro diverso dal presente, costruire comunità fuori da un disegno economico-globale, che vede anche le nostre più intime istanze profondamente compromesse dai diktat e dagli input dello “spettacolo” - per dirla alla Debord. Ma c'è un lavoro quotidiano che può essere svolto, un lavoro paziente e continuo, da fare notte e giorno, con meticolosità artigiana, con i mezzi dell'antica tessitura, trama-ordito, o se necessario con il metodo di Penelope del fare e disfare. Un lavoro di decodifica e discernimento, raccolta e riserva delle testimonianze, presenza e distanza per trovare di volta in volta i posti, i momenti, i rari coni di luce per il racconto.
Chi era Liber Forti, e chi siamo noi oggi? Quale il ruolo di un artista e la sua posizione nel mondo? Che cos'è l'umanità e qual è il suo progetto?
Scopro che queste domande sono ancora il file rouge, il non senso della mia solitaria camminata.
Penso ad Antonin Artaud quando dice: “non c'è rivoluzione senza rivoluzione nella cultura, cioè senza una rivoluzione della coscienza moderna dinanzi all'uomo, alla natura e alla vita”.
Poi mi viene in mente una frase di Julian Beck: “Il teatro è il cavallo di legno per prendere la città”.

Lela Campitelli



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