rivista anarchica
anno 45 n. 399
giugno 2015


donne

Ma oggi la strada è vuota

intervista a Massimo La Torre di Domenico Bilotti


Attrice di cinema e di teatro, scrittrice, poetessa, Goliarda Sapienza ha attraversato lo scorso secolo con grazia e spirito davvero rivoluzionario.
La socialità dei quartieri “vissuti”, ormai scomparsa.


Troppo poco si è detto e scritto (e, forse, ancor meno si è letto) su Goliarda Sapienza (1924-1996), attrice di cinema e di teatro, scrittrice, non occasionalmente poetessa, che ha attraversato con grazia inaudita le rovine dell'Italia che aveva sognato il boom economico e, vent'anni dopo, le macerie dell'Italia che aveva sognato la rivoluzione. L'editore torinese Einaudi sta meritoriamente ripubblicando il suo intero catalogo, dando all'autrice siciliana finalmente la vetrina che avrebbe meritato già in vita. Ne parliamo col professore Massimo La Torre, docente di Filosofia del Diritto presso l'Università di Catanzaro, editorialista di Critica Liberale, per passione cultore delle arti cinematografiche e della letteratura siciliana (nonché per molti anni collaboratore di “A”, sin dalla sua militanza giovanile tra gli anarchici di Messina - ndr).

Vorrei iniziare con una provocazione. La cultura italiana ci ha dato tradizionalmente due modelli forti dell'impegno politico. Uno disperato, direi “pasoliniano”, che deve finire male, torbidamente; un altro radicale, solido, persino scontroso, come cattura l'estetica di certi film in cui l'attore protagonista è il compianto Volonté. Nel consapevole esilio ed auto-esilio di una personalità libera come quella di Goliarda Sapienza, che peso potrebbe avere avuto collocarsi sempre e comunque al di fuori di questi due modelli dominanti?
Innanzitutto La ringrazio per l'occasione che mi offre di parlare di Goliarda Sapienza. È una scrittrice che amo con passione e che leggo e rileggo con immenso piacere, e con profitto anche, ché ritrovo nella sua opera motivi, idee, informazioni, sentimenti che mi nutrono, mi arricchiscono, mi stimolano, e – oso sperare – mi rendono migliore. Di questi motivi e “flussi” d'idee e sensazioni nel séguito cercherò di dire qualcosa di più preciso. E poi c'è la prosa (e la poesia) di Goliarda che trovo splendida. Il suo italiano è corposo, sanguigno, ma netto e chiaro. È barocco, ma non artificiale. Pensato e costruito, di sicuro, ma non di plastica, né álgido. È più vicina, e non tanto per le fortissime radici siciliane, quanto per la testura del suo scrivere, a Gesualdo Bufalino (a quello in particolare di “Dicerie dell'untore” e di “Argo il cieco”) che a Umberto Eco o Italo Calvino. Direi che ci sono tre periodi nella sua produzione. Il primo consiste di “Lettera aperta” e “Il filo di mezzogiorno”, il secondo di “Arte della gioia” e di “Io, Jean Gabin”, e il terzo di “L'Università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio”. La lingua si fa man mano meno densa, meno carnosa, il tono diventa più cartesiano.
Come figura di “intellettuale” Goliarda sta in mezzo, per così dire, tra il “serio” e il “disperato”, o meglio rompe lo schema stesso di tale contrapposizione. Vi è un tono lieve nella sua scrittura; leggendo le sue pagine si ride anche. Devo dire che non mi è mai accaduto di ridere o sorridere leggendo Pasolini, e nemmeno vedendo i suoi film. Totò con Pasolini diventa maschera profetica, e triste. Anche il suo “Decamerone” è greve.
La protagonista degli scritti di Goliarda è paradigmaticamente se stessa, da bambina. Modesta (la protagonista dell'“Arte della gioia”) è una monella. E monelle sono i personaggi di “L'università di Rebibbia” e di “Le certezze del dubbio” (Roberta in particolare). Il femminile è onnipresente, e rende la dimensione intellettuale “altra” rispetto alla seriosità tutta maschile di Volonté e Pasolini. E poi questi due furono comunisti, oscillando tra la “coscienza infelice” e la “Verstellung” hegeliana, che hanno contraddistinto la prospettiva etica e cognitiva del comunismo italiano. “Coscienza infelice”, perché consapevoli dell'inanità dell'utopia sovietica, e immersi nella “Verstellung”, perché proiettati in una rivoluzione che non si può veramente dare (né dunque, per le leggi ferree e “dialettiche” della storia, si può volere).
Goliarda non è mai stata comunista, anche se è la compagna di Citto Maselli, e ci parla delle angosce prodottele dal XX Congresso del PCU del 1956 nel “Filo di mezzogiorno”. E la sua scrittura non è elitista; è a suo modo popolare. Le questioni che affronta sono quelle stesse su cui ha litigato nei vicoli malfamati di Catania o nelle celle del carcere. Parla a tutti e con tutti.

Goliarda Sapienza
Emancipazione e perdizione

Qual è l'opera che, a suo avviso, meglio descrive il genio letterario dell'autrice? Personalmente, propenderei per “L'Università di Rebibbia” (il diario di una dura e avventurosa carcerazione): se la scrittura regge al racconto della marginalità sociale, senza piagnistei e senza falsi miti auto-identificativi, è davvero una scrittura del tempo presente.
I libri che mi sembrano più belli e significativi sono “Lettera aperta”, che è il mio favorito, e “L'arte della gioia”. “L'università di Rebibbia” è ricco e importante, ma la sua prosa mi risulta più asciutta. Sarà forse che io propendo al barocco... Ma “L'università di Rebibbia” e “Le certezze del dubbio” ci raccontano la marginalità, rivendicandola. Ci mostrano il carcere come universo chiuso, concentrazionario, “istituzione totale”, che però si riempie anch'essa di socialità. E cartina tornasole di un intero sistema e di tutta una nazione.
Quei due libri raccontano anche dell'Italia di fine anni Settanta, primi anni Ottanta, distante ormai anni luce da quella attuale. È sorprendente ritrovare quel clima di ostilità al conformismo borghese ed ai suoi riti e miti, oggi che alla televisione ci gingilliamo solo con preti e commissari e nonni, e meglio ancora se con preti nonni e poliziotti. Leggendo quei libri si ritorna a respirare l'aria d'antagonismo e di rivolta esistenziale e politica che non era il privilegio di pochi, ma un fatto di massa, d'ambienti sociali vasti e trasversali. Che da quelle donne, che Goliarda incontra a Rebibbia, d'una umanità disperata ma d'altro lato matura, autentica e compita, si sia passati a modelli quali quelli veicolati dalle “veline” o dalle ospiti delle “cene eleganti” ad Arcore dà il segno implacabile della decadenza d'un paese intero. Roberta – la vera protagonista di “L'università di Rebibbia” e di “Le certezze del dubbio” – è l'alternativa antropologica più estrema alle Pitonesse o Nicole che affollano i nostri rotocalchi. E i nostri sogni?

La Sapienza è stata una bella donna, dalla posa raffinata e non compiaciuta dei primi scatti giovanili, fino alla signora incupita e trapunta di rughe intorno agli occhi, come nelle ultime foto. Senza localismi, ovviamente, direi che è una bellezza tipicamente siciliana, una bellezza “austera”. Anche nei tragici anni Ottanta, dove più volte le rifiutano il magro conforto della Legge Bacchelli, chi la vede la chiama signora, la immagina nobile o duchessa. Direi, l'eleganza estrema della estrema dignità.
Sì, Goliarda è una bellezza siciliana. A cominciare dagli occhi. Ed è una “signora”, nel senso d'una donna che sa stare al mondo, che ha cura di se stessa, che rimane elegante, anche nel carcere, anche in isolamento. È mossa dal senso della propria dignità. Da una morale quasi estetica, aristocratica, se si vuole. Non faccio questo – si dice –, perché non è da me, mi “abbasserebbe”, mi degraderebbe, mi renderebbe brutta. Per questo è rispettata (e protetta) dalle compagne di cella nell'“avventura” di Rebibbia. Ma è tutt'altro che una duchessa, una nobile, per esempio alla maniera di Simonetta Agnello Hornby. Goliarda rimane una plebea, ma colta, ma fine, ma emancipata. Modesta è una plebea, che pur diventando una “signora” non rinnega la propria storia ed è capace permanentemente di sberleffo e di empatia con gli “ultimi” e di antipatia, di disprezzo per i “primi”. “L'arte della gioia” è una specie di anti-“Gattopardo”, per quanto alcuni suoi temi si sovrappongano a quelli del romanzo di Tomasi di Lampedusa: nel libro della Sapienza non c'è nessuna idealizzazione possibile del mondo della nobiltà siciliana (come pure invece accade a Tomasi di Lampedusa). Né nostalgia (com'è il caso della Agnello Hornby). La “carusa tosta” (Modesta) che ascende la scala sociale lo fa con la consapevolezza che si tratta di un percorso allo stesso tempo di emancipazione e di perdizione.

Nella Sapienza che racconta anche le proprie esperienze con le terapie psicanalitiche vedo degli elementi spontanei e sinceri per un abbozzo di critica al ripiegamento borghese e costrittivo di certa psicanalisi in voga: condivide questa idea oppure ritiene che debba essere cercato altrove il senso del disagio, nei libri della scrittrice?
Questa è la tematica di “Il filo di mezzogiorno”, un libro intelligente e sensibilissimo, dove si racconta la sua esperienza di psicanalisi con un medico messinese (ma residente a Roma). Alla fine è il medico ad entrare in crisi, e Goliarda si sottrae alla pratica psicoanalitica, con un migliore e più sano rapporto con se stessa. Lei si è rimessa, guarita, ma il medico si è ammalato... Il gioco delle parti e la lotta tra medico e paziente nella pratica psicanalitica è descritta con accuratezza, tanto che del libro si è fatto uso da parte degli psicanalisti per delucidare il proprio lavoro. Ma non direi che il libro è un elogio della psicanalisi. Il libro è la continuazione di “Lettera aperta”, la sua “Aufhebung”, il suo “superamento”; i grumi morali ed esistenziali presenti in quel primo scritto risaltano in maniera vivissima, e poi sembrano sciogliersi. Dipanarsi. Il disagio di Goliarda che la conduce a tentare il suicidio ed alla depressione (ed all'elettroshock) ha radici lontane. Nel rapporto con la madre, Maria Giudice, figura limpidissima ed integerrima di socialista, che però come madre dovette incombere come un macigno sul cuore di Goliarda, che la amò letteralmente fino alla follia. Ci sono altre cose, come l'ambiente della “Civita”, il quartiere catanese di poveri e disgraziati nel quale si trovavano la casa e lo studio di Giuseppe Sapienza, l'avvocato socialista e libertario padre di Goliarda, e nel quale si svolge tutta la sua infanzia. Un quartiere difficile, vulcanico, con vite intense e distrutte, con rapporti complessi e struggenti, e tutto ciò marca a fuoco i sentimenti della bambina siciliana. E c'è Nunzio, il fratello del padre, lo zio anarchico, col quale sviluppa un rapporto intenso di complicità e d'amicizia.

Goliarda fra la madre, Maria Giudice, e
il padre, l'avvocato Giuseppe Sapienza
“Ogni individuo ha il suo segreto”

Colpisce incredibilmente nella scrittura come i personaggi siano quasi sempre descritti con nitore espositivo: noi vediamo benissimo il personaggio che, volta per volta, introduce in scena la Sapienza. I luoghi, invece, risentono sempre della prospettiva di chi li osserva: dalle piazze alberate alle stazioni, dalle antichità alle galere.
La scrittura di Goliarda è cinematografica, ha sempre una prospettiva ed un “fuoco”. Non per niente lavorò per anni col compagno, Maselli, che è uno dei più interessanti registi della stagione italiana del postrealismo. Ma non si indugia mai veramente sul paesaggio, questo è sempre lo sfondo di un'azione, di un ciak. Ciò che importa a Goliarda è l'azione, o l'introspezione.

Se volessimo strutturare la prosa e la poesia della Sapienza come una filosofia del diritto, meglio: una teoria del diritto, quale sarebbe il suo primo e giurato nemico? Il Panottico o il Leviatano? La spelonca o l'agorà?
Certamente il Panottico, che però non esiste senza Leviatano. Il suo nemico è veramente lo Stato. E il suo amico l'intreccio di vicoli e di piazzette della Civita, il quartiere in cui – come dice in “Io, Jean Gabin” – nonostante il fascismo ciascuno faceva come voleva. L'agorà le è assai più congeniale della spelonca. Non c'è nulla di platonico nella sua concezione del mondo.
Del diritto Goliarda ci racconta il lato affilato, tagliente, la sanzione insomma. E dunque ci ricorda che c'è sempre un residuo di ingiustizia in esso, per quanto ci si possa impegnare a renderlo “minimo” o “democratico”. Quello di Goliarda è il romanzo della microfisica del potere. Questo per quanto benevolo, e informale, fa male. E si insinua in tutti i recessi della realtà dell'uomo. È la Santamauro, la guardiana di Rebibbia. È anche lo psicanalista di “Il filo di mezzogiorno”. Per non parlare del marinaio, il padre incestuoso di Modesta nell' “Arte della gioia”. Il diritto (cioè il potere) paradossalmente si cela dietro il volto di tutte queste figure.
Del diritto l'unica cosa che le potrebbe andare a genio semmai sono i diritti, in particolare quello che riassume nel modo seguente: “Ogni individuo ha il suo segreto, ogni individuo ha la sua morte in solitudine... morte per ferro, morte per dolcezza, morte per fuoco, morte per acqua, morte per sazietà unica e irripetibile. E come posso io vivere o morire se non rientro in possesso di questo mio diritto?” (“Il filo di mezzogiorno”, penultima pagina). Il diritto in questo senso consente che la porta non si chiuda sulla nostra esistenza: possiamo sempre uscire – ci promette. “La grande libertà di se stessi e dei propri pensieri non è una cosa straziante da non dire?” (Io, Jean Gabin, p. 97).

Lei ha talvolta parlato, commentando le opere della Sapienza, del silenzioso trapasso di un'umanità perduta, di una umanità che prima usciva e si vedeva per strada, a lavoro, quasi candida, e che ora appare inghiottita in un gorgo, non più percepita, né percepibile. Le dispiacerebbe correggermi se ho male inteso il Suo pensiero o, comunque, specificarcelo, in questa conversazione?
Il mondo di cui ci parla Goliarda in gran parte è morto e sepolto. Quello dei quartieri popolari nei quali si viveva un'esistenza alternativa, per strada, e si praticavano mestieri come quelli dell'impagliatore di sedie o del mastro gelsominaio che oggi fanno solo sorridere nell'era dei centri commerciali. Chi vorrebbe oggi fare il puparo, intagliare gli attori del teatro delle marionette, quando il modello vincente è quello dell'“imprenditore” o dell'agente di borsa? Quel “popolo”, con una sua lingua, una sua cultura, suoi lavori, una sua morale, il suo teatro, non c'è più. È rimasto solo il “coolie” (la figura che più teme Marx nel “Manifesto”), il proletario senza classe. Il precario che non riesce a chiamarsi operaio. Ché se ne vergogna o nemmeno lo vede. Ci sono solo digraziati che si sentono tali perché privati della carta di credito o dell'accesso al centro commerciale. Non c‘è più la socialità alternativa ancora vibrante nella Civita. Dove la sera si mangiava per strada, si ballava per strada, ci si accoltellava per strada. E si discuteva per strada. Perché c'era una pratica di riconoscimento mutuo. Oggi la strada è vuota di vita di relazione; è semmai in qualche angolo buio ingombrata da mucchietti di umanità spogliata della propria storia. E della propria candida devianza. Eppure sono certo che anche tra questa umanità che somiglia alla plastica slabbrata ed ai residui infangati di catrame che si rovesciano oggi sulle nostre spiaggie al ritirarsi della marea, anche da questo apparente vuoto d'anime, Goliarda si farebbe ascoltare, sorridendo e senza disperare. “Non c'è vita senza collettività, è cosa risaputa: qui ne hai la controprova, non c'è vita senza lo specchio degli altri”. Questa è la lezione di speranza che trae dalla dura esperienza di Rebibbia.

Domenico Bilotti