rivista anarchica
anno 45 n. 401
ottobre 2015


politica

La rivoluzione del potere

di Andrea Papi


La politica, espressione diretta della gestione del territorio vissuto e pensato come il luogo primario dove si deve svolgere la vita sociale, è deprivata di senso.


In seguito alle svalutazioni dello yuan, la moneta cinese, una dopo l'altra a tappe forzate nella seconda metà d'agosto, le borse di tutto il mondo sono precipitate, dando avvio a un sistematico incenerimento di migliaia di miliardi. Circa 2.200 bruciati fin dalla prima settimana, 600 soltanto in Europa.
Contemporaneamente, dopo mesi di trattative i mastini della finanza giungevano a un accordo col governo greco concedendo 80 miliardi, ovviamente con gli interessi annessi, per pagare la prossima tranche del suo enorme debito. In cambio Tsipras, capo del governo, si sarebbe impegnato ad attuare 35 “riforme” (parola eufemismo oggi usata dai governi per indicare interventi capestro, che rappresentano sempre lacrime e sangue per le popolazioni costrette a subirle). Una comparazione che mostra la contrastante abnorme entità delle cifre in ballo, le stesse (ahimé!) che determinano i destini delle nostre sopravvivenze, facendoci constatare come possono convivere situazioni incredibili in contrasto tra loro dagli effetti devastanti per i più deboli.
Uno degli ultimi esempi che danno un'idea del divenire perverso in cui ci troviamo avviluppati, che mostra la cappa plumbea sovrastante gli assetti sociali che da qualche decennio ci avvolge sottraendoci energia vitale giorno dopo giorno. Per incominciare a capirci qualcosa bisognerebbe identificare i gangli fondamentali che determinano l'insieme dei problemi, dal momento che i paradigmi di riferimento su cui ci siamo forgiati non ci permettono più di capire e interpretare il divenire delle cose. Le dinamiche in atto sfuggono all'impostazione classista rappresentata dalle logiche della rivolta e della rivoluzione proletarie affermatesi negli ultimi due secoli, mentre le stratificazioni sociali sono diventate un po' più complesse della banalizzazione dell'antitesi binaria padroni-operai, troppo spesso ancora ritenuta fondamento di riferimento imprescindibile.

Prospera la virtualità

Mi preme sottolineare che è in atto una mutazione radicale del modo di essere del potere, delle forme, delle modalità e delle strutture di quello che definiamo “dominio”. Sono già mutate talmente in profondità che non si riesce a identificarle se si continuano ad usare criteri e categorie interpretative della classica ermeneutica di sinistra dei secoli scorsi. Si può dire che è in atto un vero e proprio “slittamento di paradigma”, per dirla alla Thomas Kuhn, cioè una rivoluzione in piena regola secondo cui gli orientamenti che danno identificazione e senso ai movimenti delle cose si trasformano tanto radicalmente da cancellare quelli precedenti, annullandoli e sostituendoli definitivamente. Una vera e propria rivoluzione del potere, non ovviamente quella dei nostri sogni e delle nostre aspirazioni utopiche, come già sottolineavo sempre su questa rivista nel numero scorso (“A” 400 – Il futuro è già qui).
Le caratteristiche fondamentali di questo nuovo radicamento sono che gli stati non rappresentano più l'acme del potere decisionale, mentre l'accumulo di ricchezze, quindi il potere di controllo economico, si è trasferito dal momento produttivo alla rete globale della speculazione finanziaria. Il valore della ricchezza non è più determinato e dettato dal mercato delle merci, mentre, come ormai si usa dire, “i soldi si fanno attraverso i soldi”, in un vortice speculativo tale per cui il denaro è ormai sempre più virtuale e sempre meno concreto. I capitali finanziari, una volta in moneta sonante, oggi si esprimono attraverso cifre che appaiono sugli schermi dei computer, senza necessariamente avere corrispondenza tangibile con un qualsiasi mercato di scambio, né produttivo né della compravendita. Nella rete speculativa globale di fatto impera la virtualità.

Incomprensioni e inganni

Il dominio vigente, che determina condizioni obbliganti al di là di ogni regola o contrattazione, non è più espressione delle sovranità statali perché è diventato extra e sovra statale, riducendo progressivamente gli stati ad amministratori territoriali, soggetti a condizionamenti planetari da cui non riescono a prescindere. Un potere quindi sovra/territoriale. Così i territori sono sempre meno i riferimenti fondamentali per comprendere o definire le interrelazioni sociali e i contesti sociologici. In tal modo non è più possibile considerarlo ancora come fosse tutto d'un pezzo, tipico carattere degli assetti strutturali, perché non è più racchiudibile in strutture rigide, indeformabili. Al contrario il dominio oggi è molto duttile e inafferrabile, fornito di un'adattabilità opportunistica inattaccabile da resistenze di contrasto. Ogni tipo di contrapposizione che in qualche modo miri ad abbattere o prendere il potere ormai è praticamente impraticabile.
Senza risiedere da nessuna parte perché è ovunque, per quanto sia sempre più spietato, il potere dominante è ormai del tutto sfuggente, difficilmente identificabile, imprendibile. In definitiva non dobbiamo tanto fare i conti, come una volta, soprattutto con tiranni e sfruttatori, chiaramente inquadrabili, bensì con un sistema di dominio flessibile che sovrasta l'intero pianeta, guarda caso rigido e non intaccabile solo nella tendenza all'arricchimento costante di chi già possiede molto più di tutto, al prezzo di ridurre alla fame e all'indigenza masse di persone a cui succhia energia e vita. Non più riducibile a entità territoriali, non avendo cioè sedi specifiche, comporta alcune conseguenze. Al momento le più importanti sembrano essere la deterritorializzazione delle produzioni e le migrazioni massicce e continue di grosse fette di popolazioni da una parte all'altra del pianeta.
Per quanto riguarda l'economia produttiva è ormai evidente che fabbriche e aziende non hanno più patria, mentre s'insediano di volta in volta dove loro conviene in qualsiasi parte del globo. Del resto è una caratteristica del capitalismo quella di inseguire la miglior convenienza del profitto, senza subordinarlo a nessun altro ideale o propensione. Un'evoluzione quindi nell'ordine naturale delle cose. Ciò che sorprende è il continuo piagnisteo di chi pretenderebbe un'industria capitalista nazionale senza creare le condizioni attrattive (in specifico entità delle tasse e infrastrutture) che inducano a scegliere il proprio territorio invece di altri. Come si può pretendere che mentre la finanza, che predomina in modo pesante su tutto ciò che è economico, si muove come una rete sovranazionale e soprastatale, l'economia produttiva invece venga ancora pensata e giudicata secondo criteri territoriali e nazionali?
In questo atteggiamento mentale e propagandistico c'è qualcosa che stride molto, tanto è vero che genera in continuazione incomprensioni e inganni.
Pure il fenomeno migratorio globale risente di spinte e tensioni in qualche modo equivalenti. Per prima cosa il concetto di migrazione rischia di essere insufficiente rispetto ai fenomeni che si stanno manifestando. Ciò a cui stiamo assistendo, facilmente con sgomento e timori, assomiglia più che altro ad esodi di proporzioni epocali. Gli ultimi dati probabili, snocciolati da agenzie ONU, parlano di un fenomeno i cui numeri non possono che mutare continuamente e recitano di quantità che superano ampiamente il mezzo miliardo di persone migranti in tutto il mondo, spinti da fame, miseria e guerre, cioè condizioni di non vita imposte dalle situazioni dispotiche imperanti. I sistemi di dominio che ci sovrastano snobbano e superano i luoghi natii, di conseguenza spingono le popolazioni a disarticolare il proprio rapporto con la territorialità, determinando tendenze per cui i popoli si stanno destinando a non aver più patrie, a scomparire in quanto etnie o culture distinte e separate.

“Nostra patria è il mondo intero”

Non ultimo la politica, espressione diretta della gestione del territorio vissuto e pensato come il luogo primario dove si deve svolgere la vita sociale, è deprivata di senso. Nel momento in cui il territorio smette di essere il riferimento spaziale e culturale, sostituito da tensioni migratorie delocalizzanti e ridefinizione continua delle relazioni sociali al di là delle identità nazionali ed etniche, la politica non rappresenta più il momento basilare della decisionalità collettiva, quando fra l'altro qualunque decisione deve comunque sottostare ai condizionamenti globali dell'incidenza economica, soprattutto finanziaria.
Mai stata tanto attuale la simbologia anarchica di “Nostra patria è il mondo intero”, di una rivoluzione sociale oltre la politica e i palazzi del potere statale, per riappropriarsi di una vera decisionalità collettiva e per poter auto/determinare il proprio destino.

Andrea Papi
www.libertandreapapi.it