migrazioni
Migranti o rifugiati?
di Nicholas Tomeo
Il cambiamento climatico e le guerre non si fermano e il numero di chi è costretto ad abbandonare la propria terra continua a crescere. Mentre le sterili discussioni sulla loro definizione ufficiale continuano, le tutele e le responsabilità restano assenti.
Come sostenuto da molte ONG a difesa dei diritti umani, entro il 2050 si conteranno oltre 250 milioni di cosiddetti migranti ambientali. Ma a dire il vero, nonostante le ricerche e gli studi sull'argomento, risulta impossibile fare una stima esatta di quanti e quali saranno gli effetti dei cambiamenti ambientali e climatici sulla vita delle popolazioni sulla Terra. E a essere onesti, neanche risulta interessante fornire dei numeri precisi in termini di vite umane, così da evitare qualsiasi strumentalizzazione sull'importanza e l'urgenza di un cambiamento di rotta riguardo al rapporto ecosistemico tra l'umano e gli altri, vegetali e altri animali. Anzi, più che di importanza, bisognerebbe parlare della necessità di una sterzata, o meglio di un'inversione di marcia che porti a una radicale riconsiderazione sulla posizione dell'umano all'interno dei sistemi biologici, così da reinserirlo in una linea orizzontale di assoluta parità con tutti gli altri abitanti del pianeta che ci ospita.
Fatto sta che uno dei prodotti più drammatici dell'etica sviluppista è quello delle migrazioni umane forzate, i cui soggetti coinvolti, laddove i loro spostamenti siano dovuti ai cambiamenti sostanziali dei loro territori, sono conosciuti come migranti ambientali. Nonostante le diverse definizioni che sono state fino ad oggi fornite, come rifugiati ambientali, rifugiati climatici, eco-rifugiati, migranti forzati ambientali etc., nel corso dell'articolo parlerò di migranti ambientali e non di rifugiati per i motivi che di seguito spiegherò.
Gli effetti del cambiamento climatico
Chi sono i migranti ambientali? Il primo a parlare di migranti
ambientali1 è stato lo
statunitense Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute,
il quale nel 1976, pur non fornendo una definizione precisa,
studiando i disastrosi effetti dei cambianti ambientali in termini
di migrazioni forzate, ha identificato i migranti ambientali
in coloro che sono costretti ad abbandonare le abitazioni a
causa dei cambiamenti ambientali e climatici che mettono in
pericolo le loro vite2. Lester
Brown ha dato una prima idea di migranti ambientali fornendo
così una definizione “ufficiosa” (va precisato
sin d'ora che non esiste una definizione ufficiale di migrante
ambientale), ma da allora sono state fornite varie definizioni
di migranti ambientali, così ad oggi possiamo dire che
i migranti ambientali sono quelle persone che a causa di cambiamenti
ambientali e/o climatici che mettono in pericolo le loro vite,
e non trovando più sostentamento adatto per soddisfare
le loro esigenze vitali, sono costrette ad abbandonare le loro
terre, decidendo di stabilirsi, temporaneamente o permanentemente,
in altri luoghi sia all'interno dei confini statali o oltrepassando
gli stessi. Quella appena data è una definizione che
cerca di sintetizzare tutte quelle che nel corso degli anni
hanno avuto una diffusa considerazione da un punto di vista
accademico e/o scientifico e che hanno influenzato il dibattito
globalmente. Va chiarito che non si vuole a prescindere dare
approvazione alle varie definizioni che sono state prese in
considerazione, ma per una maggiore comprensione della tematica
risulta importante menzionare, oltre all'importante contributo
di Lester Brown, la definizione diffusa nel 1985 dallo studioso
egiziano El-Hinnawi della United Nation Environment Programme,
quella fornita da Norman Myers nel 1998, e quella diffusa nel
2007 dalla International Organization for Migration secondo
cui è consigliabile parlare di migranti e non
di rifugiati in quanto i motivi ambientali e/o climatici
delle migrazioni, non sono contemplati come fondanti la concessione
dello status di rifugiato secondo la casistica stabilita dalla
Convenzione di Ginevra del 1951.
I mutamenti ambientali? Non riconosciuti
Attualmente manca un riconoscimento giuridico a livello internazionale su cui poggiare una qualche forma di protezione in capo ai migranti ambientali. Infatti, stando a quanto stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, e dal Protocollo addizionale di New York del 1967, rifugiato è chiunque “nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato” (Art. 1(2)A della Convenzione di Ginevra, 1951). Pertanto un rifugiato, per essere considerato tale, deve tassativamente richiedere la protezione per uno dei cinque motivi inscritti nella Convenzione, deve trovarsi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza (se apolide dello Stato di abituale dimora) e inoltre deve dimostrare che il suo Stato non può garantirgli detta protezione. Dunque secondo la Convenzione, la quale rappresenta lo strumento giuridico internazionale di riferimento per la tutela dei rifugiati, i cambiamenti ambientali e/o climatici non appartengono alla sfera che integrano le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, anche laddove la migrazione è forzata e il soggetto non riesce più a soddisfare neppure le basilari esigenze vitali. Così, la possibilità di un'estensione della protezione in favore di tali soggetti è relegata alle politiche interne degli Stati, i quali difficilmente decideranno autonomamente di estendere una forma di accoglienza nei confronti di chi scappa da cambiamenti ambientali e/o climatici.
Come abbiamo già detto manca a livello internazionale
uno strumento giuridico che dia ai migranti ambientali una protezione,
ma a ben guardare, questa privazione equivale non solo a non
dare legittimità istituzionale alle istanze di quanti
fuggono dalla distruzione dei loro habitat, ma evidenzia come
gli Stati si rifiutino di riconoscere questi soggetti come una
drammatica realtà attuale, futura e in continua crescita.
Questo, innegabilmente, è il frutto di scelte ponderatamente
politiche, spinte da esigenze poste a tutela degli interessi
economico-finanziari delle istituzioni legislative e governative.
Infatti, nonostante la retorica sulla necessità di trovare
una terminologia idonea a identificare il migrante ambientale
secondo un'accezione istituzionalmente accettata a livello internazionale,
riconoscere l'esistenza delle migrazioni forzate a causa di
disastri ambientali, significherebbe, per gli Stati, gettare
la maschera e dichiarare le proprie responsabilità pubblicamente,
dovendo inevitabilmente mettere in discussione tutte le loro
politiche legislative, industriali ed economiche. Infatti, come
dimostrato anche da un recente studio pubblicato su Nature,
il riscaldamento climatico globale ha subito un precoce aumento
a partire dalla prima metà del 1800 tanto da essere cresciuto
al di sopra della naturale variabilità precedente all'era
industriale3. La scienza è
ormai concorde su un punto: la principale causa del cambiamento
climatico, e quindi dell'ambiente, è dovuto all'utilizzo
di combustibili fossili e, dunque, per cause antropogeniche4.
Di questo i governi e gli Stati ne sono più che consapevoli,
come tra l'altro dimostra il 5° rapporto dell'Intergovernmental
Panel on Climate Change secondo il quale il 95% del riscaldamento
climatico globale è causato dalle attività umane5.
Diritto alla migrazione e alla dimora
Come
già accennato, sembra che l'assenza di protezione in
favore dei migranti ambientali, sia dovuto più alla mancanza
di una terminologia identificativa, da tutti accettata, relativamente
alle cause e ai soggetti vittime dei cambiamenti climatici e
ambientali. Almeno questo è quello che gli attori istituzionali
vogliono far passare. Ma è chiaro che questa rappresenta
solo un'ottima tattica politica per fuorviare la risoluzione
del problema evitando così di riconoscersi come responsabili
dei disastri ambientali. Infatti, nonostante la normativa internazionale
preveda tassativamente le cause per cui è possibile riconoscere
lo status di rifugiato, e queste escludono le cause ambientali
e/o climatiche - e quindi, da un punto vista meramente normativo,
sarebbe corretto non parlare di rifugiati ambientali ma di profughi
o migranti ambientali - è pur vero che la storia stessa
della Convenzione ha già fatto esperienza di una sostanziale
modifica che ha allargato il raggio d'azione dando così
la possibilità, per molti soggetti altrimenti esclusi,
di beneficiare della protezione prevista6.
A questo punto, ferma restando la necessità di rivendicare
il diritto alla migrazione e alla dimora per chiunque, la direttrice
da seguire è quella che va a dare un'accezione totalizzante
di ambiente. Infatti, tralasciando l'imprescindibile bisogno
di un'estensione della protezione nei confronti di tutti i migranti
forzati, una nuova idea di ambiente è ciò che
porterebbe non solo al raggiungimento di una protezione nei
confronti di tutti, ma è anche il vero fulcro della discussione
riguardo ai migranti ambientali. Una concezione di ambiente
che non coinvolga esclusivamente ciò che è presente
in natura, ma che comprenda il luogo in cui si vive, si abita,
si perseguono interessi personali e sociali. In questo senso,
la distruzione dell'habitat e il deperimento delle risorse per
il sostentamento vitale, non includerebbe solo il cambiamento
climatico che porta conseguentemente alla modifica ambientale,
ma anche le guerre. Infatti, non a caso, manca come causa per
la concessione dello status di rifugiato la fuga dalla guerra.
La Convenzione non la prevede. Così, se è vero
che si diventa migrante ambientale in quanto l'ambiente è
stato distrutto da una catastrofe naturale, è altrettanto
vero che non si diventa migrante ambientale per la catastrofe
in sé, ma per la perdita di ciò che è l'ambiente
necessario alla soddisfazione delle istanze vitali. In questa
direzione ambiente diventa anche l'abitazione, il quartiere,
la scuola, l'ospedale, la città e tutto ciò che
è necessario alla vita e anche la guerra diventa causa
delle migrazioni per cause ambientali.
Si capisce dunque, come la discussione che dovrebbe condurre
al riconoscimento della protezione nei confronti dei migranti
ambientali, dovrebbe considerare l'idea di ambiente, e non la
causa specifica della distruzione di questo. Pertanto è
del tutto limitante accostare esclusivamente l'idea di migrante
ambientale con quella di cambiamento climatico: questo infatti,
è solo uno dei fattori della distruzione degli ambienti,
ma non il solo.
Nicholas Tomeo
Note
- Lester Brown parlava di rifugiati climatici.
- L. Brown, P. L. McGrath, B. Stokes, Twenty-Two Dimension of the Population Problem, Worldwatch Paper 5, marzo 1976.
- Cfr. Nerlie J. Abram et. al., “Early Onset of Industrial-era Warming Across the Oceans and Continets”, Nature, vol. n. 536, 25 agosto 2016.
- Cfr. J. Imbers, A. Lopez, C. Huntingford, M. Allen, “Sensitivity of Climate Change Detection and Attribution to the Characterization of Internal Climate Variability”, Journal of Climate, vol. n. 27, maggio 2014.
- IPCC Working Group I Report, “Climate Change 2013: The Physical Science Basis”, 2013.
- Con l'approvazione del Protocollo addizionale di New York del 1967 gli Stati hanno deciso di eliminare tutte le restrizioni temporali e geografiche che con la prima stesura della Convenzione avevano invece previsto. Per una maggiore comprensione si rimanda alla ricca documentazione reperibile online.
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