rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017


migrazioni

Migranti o rifugiati?

di Nicholas Tomeo


Il cambiamento climatico e le guerre non si fermano e il numero di chi è costretto ad abbandonare la propria terra continua a crescere. Mentre le sterili discussioni sulla loro definizione ufficiale continuano, le tutele e le responsabilità restano assenti.


Come sostenuto da molte ONG a difesa dei diritti umani, entro il 2050 si conteranno oltre 250 milioni di cosiddetti migranti ambientali. Ma a dire il vero, nonostante le ricerche e gli studi sull'argomento, risulta impossibile fare una stima esatta di quanti e quali saranno gli effetti dei cambiamenti ambientali e climatici sulla vita delle popolazioni sulla Terra. E a essere onesti, neanche risulta interessante fornire dei numeri precisi in termini di vite umane, così da evitare qualsiasi strumentalizzazione sull'importanza e l'urgenza di un cambiamento di rotta riguardo al rapporto ecosistemico tra l'umano e gli altri, vegetali e altri animali. Anzi, più che di importanza, bisognerebbe parlare della necessità di una sterzata, o meglio di un'inversione di marcia che porti a una radicale riconsiderazione sulla posizione dell'umano all'interno dei sistemi biologici, così da reinserirlo in una linea orizzontale di assoluta parità con tutti gli altri abitanti del pianeta che ci ospita.
Fatto sta che uno dei prodotti più drammatici dell'etica sviluppista è quello delle migrazioni umane forzate, i cui soggetti coinvolti, laddove i loro spostamenti siano dovuti ai cambiamenti sostanziali dei loro territori, sono conosciuti come migranti ambientali. Nonostante le diverse definizioni che sono state fino ad oggi fornite, come rifugiati ambientali, rifugiati climatici, eco-rifugiati, migranti forzati ambientali etc., nel corso dell'articolo parlerò di migranti ambientali e non di rifugiati per i motivi che di seguito spiegherò.

Gli effetti del cambiamento climatico

Chi sono i migranti ambientali? Il primo a parlare di migranti ambientali1 è stato lo statunitense Lester Brown, fondatore del Worldwatch Institute, il quale nel 1976, pur non fornendo una definizione precisa, studiando i disastrosi effetti dei cambianti ambientali in termini di migrazioni forzate, ha identificato i migranti ambientali in coloro che sono costretti ad abbandonare le abitazioni a causa dei cambiamenti ambientali e climatici che mettono in pericolo le loro vite2. Lester Brown ha dato una prima idea di migranti ambientali fornendo così una definizione “ufficiosa” (va precisato sin d'ora che non esiste una definizione ufficiale di migrante ambientale), ma da allora sono state fornite varie definizioni di migranti ambientali, così ad oggi possiamo dire che i migranti ambientali sono quelle persone che a causa di cambiamenti ambientali e/o climatici che mettono in pericolo le loro vite, e non trovando più sostentamento adatto per soddisfare le loro esigenze vitali, sono costrette ad abbandonare le loro terre, decidendo di stabilirsi, temporaneamente o permanentemente, in altri luoghi sia all'interno dei confini statali o oltrepassando gli stessi. Quella appena data è una definizione che cerca di sintetizzare tutte quelle che nel corso degli anni hanno avuto una diffusa considerazione da un punto di vista accademico e/o scientifico e che hanno influenzato il dibattito globalmente. Va chiarito che non si vuole a prescindere dare approvazione alle varie definizioni che sono state prese in considerazione, ma per una maggiore comprensione della tematica risulta importante menzionare, oltre all'importante contributo di Lester Brown, la definizione diffusa nel 1985 dallo studioso egiziano El-Hinnawi della United Nation Environment Programme, quella fornita da Norman Myers nel 1998, e quella diffusa nel 2007 dalla International Organization for Migration secondo cui è consigliabile parlare di migranti e non di rifugiati in quanto i motivi ambientali e/o climatici delle migrazioni, non sono contemplati come fondanti la concessione dello status di rifugiato secondo la casistica stabilita dalla Convenzione di Ginevra del 1951.

I mutamenti ambientali? Non riconosciuti

Attualmente manca un riconoscimento giuridico a livello internazionale su cui poggiare una qualche forma di protezione in capo ai migranti ambientali. Infatti, stando a quanto stabilito dalla Convenzione di Ginevra del 1951, e dal Protocollo addizionale di New York del 1967, rifugiato è chiunque “nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, la sua religione, la sua cittadinanza, la sua appartenenza a un determinato gruppo sociale o le sue opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato” (Art. 1(2)A della Convenzione di Ginevra, 1951). Pertanto un rifugiato, per essere considerato tale, deve tassativamente richiedere la protezione per uno dei cinque motivi inscritti nella Convenzione, deve trovarsi fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza (se apolide dello Stato di abituale dimora) e inoltre deve dimostrare che il suo Stato non può garantirgli detta protezione. Dunque secondo la Convenzione, la quale rappresenta lo strumento giuridico internazionale di riferimento per la tutela dei rifugiati, i cambiamenti ambientali e/o climatici non appartengono alla sfera che integrano le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato, anche laddove la migrazione è forzata e il soggetto non riesce più a soddisfare neppure le basilari esigenze vitali. Così, la possibilità di un'estensione della protezione in favore di tali soggetti è relegata alle politiche interne degli Stati, i quali difficilmente decideranno autonomamente di estendere una forma di accoglienza nei confronti di chi scappa da cambiamenti ambientali e/o climatici.
Come abbiamo già detto manca a livello internazionale uno strumento giuridico che dia ai migranti ambientali una protezione, ma a ben guardare, questa privazione equivale non solo a non dare legittimità istituzionale alle istanze di quanti fuggono dalla distruzione dei loro habitat, ma evidenzia come gli Stati si rifiutino di riconoscere questi soggetti come una drammatica realtà attuale, futura e in continua crescita. Questo, innegabilmente, è il frutto di scelte ponderatamente politiche, spinte da esigenze poste a tutela degli interessi economico-finanziari delle istituzioni legislative e governative. Infatti, nonostante la retorica sulla necessità di trovare una terminologia idonea a identificare il migrante ambientale secondo un'accezione istituzionalmente accettata a livello internazionale, riconoscere l'esistenza delle migrazioni forzate a causa di disastri ambientali, significherebbe, per gli Stati, gettare la maschera e dichiarare le proprie responsabilità pubblicamente, dovendo inevitabilmente mettere in discussione tutte le loro politiche legislative, industriali ed economiche. Infatti, come dimostrato anche da un recente studio pubblicato su Nature, il riscaldamento climatico globale ha subito un precoce aumento a partire dalla prima metà del 1800 tanto da essere cresciuto al di sopra della naturale variabilità precedente all'era industriale3. La scienza è ormai concorde su un punto: la principale causa del cambiamento climatico, e quindi dell'ambiente, è dovuto all'utilizzo di combustibili fossili e, dunque, per cause antropogeniche4. Di questo i governi e gli Stati ne sono più che consapevoli, come tra l'altro dimostra il 5° rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change secondo il quale il 95% del riscaldamento climatico globale è causato dalle attività umane5.

Diritto alla migrazione e alla dimora

Come già accennato, sembra che l'assenza di protezione in favore dei migranti ambientali, sia dovuto più alla mancanza di una terminologia identificativa, da tutti accettata, relativamente alle cause e ai soggetti vittime dei cambiamenti climatici e ambientali. Almeno questo è quello che gli attori istituzionali vogliono far passare. Ma è chiaro che questa rappresenta solo un'ottima tattica politica per fuorviare la risoluzione del problema evitando così di riconoscersi come responsabili dei disastri ambientali. Infatti, nonostante la normativa internazionale preveda tassativamente le cause per cui è possibile riconoscere lo status di rifugiato, e queste escludono le cause ambientali e/o climatiche - e quindi, da un punto vista meramente normativo, sarebbe corretto non parlare di rifugiati ambientali ma di profughi o migranti ambientali - è pur vero che la storia stessa della Convenzione ha già fatto esperienza di una sostanziale modifica che ha allargato il raggio d'azione dando così la possibilità, per molti soggetti altrimenti esclusi, di beneficiare della protezione prevista6.
A questo punto, ferma restando la necessità di rivendicare il diritto alla migrazione e alla dimora per chiunque, la direttrice da seguire è quella che va a dare un'accezione totalizzante di ambiente. Infatti, tralasciando l'imprescindibile bisogno di un'estensione della protezione nei confronti di tutti i migranti forzati, una nuova idea di ambiente è ciò che porterebbe non solo al raggiungimento di una protezione nei confronti di tutti, ma è anche il vero fulcro della discussione riguardo ai migranti ambientali. Una concezione di ambiente che non coinvolga esclusivamente ciò che è presente in natura, ma che comprenda il luogo in cui si vive, si abita, si perseguono interessi personali e sociali. In questo senso, la distruzione dell'habitat e il deperimento delle risorse per il sostentamento vitale, non includerebbe solo il cambiamento climatico che porta conseguentemente alla modifica ambientale, ma anche le guerre. Infatti, non a caso, manca come causa per la concessione dello status di rifugiato la fuga dalla guerra. La Convenzione non la prevede. Così, se è vero che si diventa migrante ambientale in quanto l'ambiente è stato distrutto da una catastrofe naturale, è altrettanto vero che non si diventa migrante ambientale per la catastrofe in sé, ma per la perdita di ciò che è l'ambiente necessario alla soddisfazione delle istanze vitali. In questa direzione ambiente diventa anche l'abitazione, il quartiere, la scuola, l'ospedale, la città e tutto ciò che è necessario alla vita e anche la guerra diventa causa delle migrazioni per cause ambientali.
Si capisce dunque, come la discussione che dovrebbe condurre al riconoscimento della protezione nei confronti dei migranti ambientali, dovrebbe considerare l'idea di ambiente, e non la causa specifica della distruzione di questo. Pertanto è del tutto limitante accostare esclusivamente l'idea di migrante ambientale con quella di cambiamento climatico: questo infatti, è solo uno dei fattori della distruzione degli ambienti, ma non il solo.

Nicholas Tomeo

Note
  1. Lester Brown parlava di rifugiati climatici.
  2. L. Brown, P. L. McGrath, B. Stokes, Twenty-Two Dimension of the Population Problem, Worldwatch Paper 5, marzo 1976.
  3. Cfr. Nerlie J. Abram et. al., “Early Onset of Industrial-era Warming Across the Oceans and Continets”, Nature, vol. n. 536, 25 agosto 2016.
  4. Cfr. J. Imbers, A. Lopez, C. Huntingford, M. Allen, “Sensitivity of Climate Change Detection and Attribution to the Characterization of Internal Climate Variability”, Journal of Climate, vol. n. 27, maggio 2014.
  5. IPCC Working Group I Report, “Climate Change 2013: The Physical Science Basis”, 2013.
  6. Con l'approvazione del Protocollo addizionale di New York del 1967 gli Stati hanno deciso di eliminare tutte le restrizioni temporali e geografiche che con la prima stesura della Convenzione avevano invece previsto. Per una maggiore comprensione si rimanda alla ricca documentazione reperibile online.