Ricordando Leo de Berardinis
Per un teatro irregolare contaminato estremo
di Domenico Sabino
Leo de Berardinis è stato una delle figure di punta del panorama teatrale italiano degli ultimi decenni. Con una provocatoria sensibilità libertaria.
Vita e morte le pronuncio
con una nota in calce,
con un asterisco.
Marina Cvetaeva
“I teatri vanno chiusi (pubblici e privati).
Il teatro in Italia è un autogrill dove trovi di tutto
dalla cravatta al caffè, ma è tutto scadente.
E allora chiudiamo i teatri alle merci [...] e via i mercanti
dal tempio. C'è bisogno di un teatro che formi un pubblico
nuovo [...], con artisti che si rivolgano alla collettività
[...] che si riunisce in sala, per capire insieme qualche cosa
[...] e non per fare carriera o avere un facile consenso”.
Oggi più che mai attuali risuonano le parole di Leo de
Berardinis - Gioi (SA) 3 gennaio 1940/Roma 18 settembre 2008
-, scritte e urlate vent'anni fa per denunciare lo scadimento,
lo scandalo, la decadenza culturale e gestionale dei teatri.
Leo è stato drammaturgo, attore, regista, pedagogo tra
i più significativi nel panorama del teatro di ricerca
italiano del secondo Novecento. Una polisemica poetica teatrale
– potrei definirla – che realizza un'unicità
scaturita come necessità e passaggio. Una dialettica
tanto regolare quanto eversiva e dissidente, che plasma gli
opposti e i contrari; dialettica spinta dall'urgenza di rottura
con la scena teatrale convenzionale e borghese. Nel suo teatro
coesistono perfettamente commedia dell'arte e sceneggiata napoletana,
con una cognizione e una visione sperimentali e di ricerca che
includono modelli espressivi e culturali dissimili. È
una polisemica poetica teatrale vissuta come sperimentazione
assoluta, ovvero profonda, lacerante, estrema; un teatro
inteso come parte integrante della vita, della ricerca scenica,
delle relazioni, della malattia, della memoria, dell'esistenza:
necessità. Parola-chiave usata da Leo: “Necessità!
[...] La relazione è necessità primaria dell'uomo.
[...] Il teatro, come arte della relazione, è anche contro
le barriere politiche ed economiche di un'ignoranza, come dire,
imposta. [...] Se molta gente è ignorante mica è
per colpa sua... è perché c'è un meccanismo
che impone l'ignoranza”.
Nel '62 debutta col “Teatro Studio” di Carlo Quartucci
in Finale di partita e Aspettando Godot di Beckett.
Tradizione e innovazione caratterizzano sin dagli esordi la
sua personalità irrequieta e ribelle. Nel '65, sempre
con Quartucci, allestisce Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scap Plip
Trip Scrap & la grande Mam di Giuliano Scabia, presentato
al Festival della Biennale di Venezia; l'anno successivo, invece,
con La Fantesca di G. B. Della Porta, si conclude la
loro collaborazione.
Leo, infatti, ha già in mente d'intraprendere una propria
strada, forte anche dell'incontro con Perla Peragallo (Roma
1943/2007), con cui instaura un lungo sodalizio d'arte e di
vita. Il suo è un teatro di rivolta. La sua è
una scrittura frammentata, apparente, de-strutturata, illogica,
sconnessa, discontinua, spiegata da lui stesso così:
“[...] Per me il teatro è sempre una tensione poetica,
[...] che non appartiene soltanto alla logica discorsiva. [...]
Per questo il mio [...] teatro può cominciare da una
scena qualsiasi. [...] Attraverso proprio questa frantumazione
cerco di far nascere un organismo che comprenda il più
possibile l'essere umano. Perché per me uno spettacolo
è come un essere vivente”.
Egli non rinuncia alla ricerca della coscienza e della verità
attraverso la rivolta. La verità nasce dalla molteplicità
e dal conflitto delle opinioni. Ciò porta all'essenza
del teatro, al rapporto tra scena e spettatore: “Si ha
bisogno di un luogo della serenità, dell'igiene mentale,
dove il rispetto reciproco delle individualità diventi
un organismo che dialoga con se stesso: un luogo di riflessione,
di specchiamento”. La recitazione è per lui un'improvvisazione
jazz che non si può ripetere senza variazioni e che
i media possono riprodurre soltanto infedelmente. Vive il teatro
come pensiero sensibile, indissolubile dal corpo, esprimibile
solo attraverso la fisicità della voce e del corpo.
Da Marigliano al Teatro di Leo
Nel '67, con Perla Peragallo si afferma nel fervido clima delle cantine romane; inizia, dunque, allo stesso modo di Carmelo Bene, con cui nel '68 mette in scena Don Chisciotte. Sarà tuttavia una breve collaborazione, visto che presto i due artisti arriveranno a un'insanabile rottura.
Leo e Perla, abbandonata Roma, scelgono Marigliano (hinterland napoletano) e fondano il “Teatro di Marigliano” per sperimentare e far inter/agire, creando un corto circuito, la cultura alta con quella bassa. È una sorta di autoemarginazione, senza snobismo e senza vittimismo, alla ricerca di altri spazi, altri interlocutori e, forse, un altro teatro; alla ricerca di una Lingua accessibile anche al pubblico sottoproletario. Protagonisti assoluti sono emarginati e non-attori, definiti da Leo “attori geopolitici”. A Marigliano ci sarà un'ondata di cultura e rivoluzione contraddistinte da improvvisazioni teatrali provocatorie. La cultura popolare dialoga, si con-fonde, si commistiona e si scontra con l'opera di Shakespeare.'O Zappatore ('72), King lacreme Lear napulitane ('73), Sudd ('74), Rusp Spears ('76), Avita murì ('78) sono alcuni spettacoli teatrali realizzati che hanno coinvolto un pubblico spesso difficile e ostile.
Per Leo è importante coinvolgere la cultura sottoproletaria in un processo dialettico violento e doloroso, senza nessun margine per le facili pacificazioni. Elementi dissimili e influenze antiche e moderne fungono da substrato alla ricerca attiva e dinamica che accosta tragedia e sceneggiata. Colto e popolare si fondono in operazioni drammaturgiche drastiche e rivoluzionarie dove domina la contaminazione e il pastiche. Immagini e verbi dissonanti che coesistono in perfetta armonia. In questo periodo Leo realizza (e ne è anche protagonista) due film: A Charlie Parker ('70) e Compromesso storico a Marigliano ('71). Chianto 'e risate e risate 'e chianto ('74) è l'emblematica fine del Teatro di Marigliano: la messinscena rappresenta la riduzione al grado zero della drammaturgia. Basti ricordare l'asserzione pragmatica di Leo: “Il teatro è essere, non in senso romantico, ma politico. In questo modo, diventa una forza rivoluzionaria, perché si sgancia dalla cultura di potere”.
Dopo l'esperienza di Marigliano, Leo ritorna a Roma, realizzando messinscene altrettanto interessanti e indimenticabili. Si ricordano: Udunda Indina ('80) – scritto in un sanscrito inventato da Leo e sicché lo spettatore dispone di un piccolo dizionario –, XXXIII Canto del Paradiso da Dante ('80), Annabel Lee da Poe ('81) con cui si conclude il sodalizio con Perla. Nella capitale dà vita a lavori teatrali che segneranno il passaggio dal “teatro del non-finito” al “teatro dell'improvvisazione”. Crea le proprie opere partendo dal testo per poi lacerarlo in scena e seguire l'ispirazione dell'istante; una totale libertà che deve appartenere all'artista, altrimenti trasforma la propria creazione in merce feticizzandola.
Agli inizi degli anni Ottanta si trasferisce a Bologna e inizia
la collaborazione artistica con la “Cooperativa Nuova
Scena”. Il suo periodo di 'regista stipendiato' può
essere letto come un consapevole sottoporsi alla fatica della
disciplina, un rimettere piede a terra, un depurarsi dagli istinti
di autodistruzione. Il tutto non senza una sfumatura di autodenuncia
come quando, per il primo spettacolo The connection di
Jack Gelber ('83), si presenta in scena avvolto in bende di
gesso. In tal contesto continua gli studi su Shakespeare realizzando
altre messinscene, tra cui: Amleto ('84), King Lear
('85), La tempesta ('86).
Nell'87, lasciata la “Cooperativa Nuova Scena”, fonda il “Teatro di Leo” divenendone direttore artistico e organizzativo. Il teatro, all'interno della chiesa sconsacrata di San Leonardo, è una realtà produttiva autonoma, contraddistinta non solo da spettacoli teatrali, ma anche da laboratori, giornate di studio, convegni e rassegne teatrali. Tra le opere realizzate in quell'anno vanno ricordate: Delirio, L'uomo capovolto, Novecento e Mille. Quest'ultima è un'opera complessa che racchiude studi sperimentali sul teatro e su autori come Kafka, Eliot, Beckett, Thomas Mann, Borges, Pasolini, Majakovskij, Artaud, Pirandello, Ginsberg, Gershwin, Schönberg, Charlot.
L'anno successivo è la volta de Il fiore del deserto da Leopardi. Ha da passà 'a nuttata, dell'89, scritta nel segno di un'utopica resistenza alla smemorizzazione dei tempi e tratta dall'opera di Eduardo De Filippo, debutta al XXXII Festival dei Due Mondi di Spoleto vincendo nello stesso anno il Premio UBU come miglior spettacolo teatrale e il Premio IDI per l'interpretazione di Leo. Totò principe di Danimarca ('90) è un omaggio alla 'poesia comica' del grande attore napoletano; qui Leo unisce con effetto armonico i vertici della tragicità e della comicità, ovvero Amleto e Totò. Lo spazio della memoria ('91), realizzato con Steve Lacy, riafferma il rapporto privilegiato col jazz e pone palesemente al centro della ricerca la memoria come rapporto con la tradizione, come spazio interiore del teatro, come luogo dell'incontro con l'altro, come spazio di dialogo. E poi si ricordano I giganti della montagna ('93) e King Lear n.1 ('96). Sono tutti lavori teatrali maturati con attori formatisi intorno a Leo; tra i tanti vanno menzionati Elena Bucci, Marco Sgrosso, Marco Manchisi, Vincenza Modica, Francesca Mazza, Antonio Neiwiller (1948/1993).
Il linguaggio teatrale, privo di filtri o falsificazioni
Così Leo guarda all'attore: “Il Teatro è l'attore perché è appunto quest'ultimo che racchiude in sé tutte le possibilità creative. È il 'poeta fisiologico', che porta a compimento tutte le proprie potenzialità per essere pronto al Silenzio. Ma per essere pronto l'individuo ha bisogno di luoghi fisici, di una 'Schola nel senso antico del termine', di strutture, in cui si applichi questa rifondazione pedagogica dell'arte scenica, intesa ovviamente come arte attorica prima di tutto”. Nel '92 riceve il Premio UBU Speciale «per la coerenza e la necessità del suo teatro». Esemplare, in primis, per non aver mai ceduto al compromesso commerciale. Dal '94 al '97, è direttore artistico del Festival di Santarcangelo di Romagna (RN). Dal '99 si dedica a un nuovo progetto: la costituzione nazionale e stabile di un Teatro Nazionale di Ricerca.
L'idea cardine è lo stretto rapporto tra la cultura popolare e l'identità complessiva che il teatro è chiamato a rappresentare, basandosi sulla forza del linguaggio teatrale, privo di filtri o falsificazioni: “[...] Teatro popolare significa elevare e non abbassare la forza e l'emozione poetica. Popolare è il Teatro greco. Popolari sono Shakespeare e Mozart. Il pubblico deve ritrovarvi la bellezza, averne nostalgia quando ne esce, e così rivendicarla nella vita, nella società. [...] Un grande laboratorio permanente per la formazione di attori, tecnici, organizzatori e amministratori, e finalizzato alla creazione di opere originali, dove il concetto di attore-autore si concretizza direttamente sulla scena. Gli elementi fondanti di questo teatro sono: l'arte dell'attore, le prove come processo creativo e di formazione. L'indipendenza come sviluppo di una propria idea di teatro, il confronto con linguaggi e contesti differenti (ad esempio la lirica, la televisione, il cinema, il jazz, la danza) la riunificazione delle arti sceniche il collettivo come strumento non effimero per creare (possiamo pensare alla formazione di una compagnia teatrale pubblica) il laboratorio come modello di formazione e incontro permanente, il confronto con il pubblico, inteso non come soggetto-oggetto indifferenziato, ma come spettatori consapevoli e critici, la concezione degli spazi teatrali come luoghi dell'incontro e della relazione, con annessi locali di consultazione visiva e di lettura. [...]Un teatro vivo che solleciti, negli attori e nel pubblico, almeno un vago desiderio di trasformazione positiva, anche se minima”.
Il 4 maggio 2001 l'Università di Bologna gli conferisce la laurea ad honorem, con la motivazione «Leo de Berardinis 'uomo-teatro' radicatosi a Bologna da quasi vent'anni essendo ormai internazionalmente riconosciuto: questo attore capace di sapienti variazioni drammaturgiche, regista e scenografo dei suoi spettacoli nonché straordinario pedagogo [...]. Da artista dei contrasti ha così creato un distintivo immaginario poetico e di rottura, fino a rivelare gli squilibri interiori dell'Italia che si pretendeva di riformare a parole».
Il suo ultimo lavoro è past Eve and Adam's ('99). Quasi una premonizione. Una vertigine poetica - versi e musica disarmonici senza senso cronologico - in cui riecheggiano, rincorrendosi e sovrapponendosi, opere tra le più alte della letteratura. Un assolo teatrale che prende il titolo da un passaggio ellittico dal Finnegans Wake di James Joyce. Una ciclicità, un'onda-pensiero che bisogna immaginare come cerchio metaforico che si chiude come una spirale. Un'opera che vuole rivivere, tenere a mente, reinventare, al di là delle tragedie umane, l'altra faccia del dolore: la bellezza. Il resto è silenzio.
Per realizzare il suo Teatro Nazionale di Ricerca
Il 16 giugno 2001, sottopostosi a un banale intervento chirurgico, Leo entra in coma per un errore dell'anestesista. Per supportarlo economicamente circolano appelli e raccolte di fondi da parte dei teatranti italiani e dal luglio 2008 gli viene concesso il vitalizio della legge Bacchelli. L'assenza, quell'esserci senza esserci, al limite del Tutto, l'ho sempre decifrata metaforicamente, come grido muto contro la débâcle culturale che ahimè viviamo. Basti vedere cos'è diventato oggi il teatro italiano, sempre più affare di rappresentanza di bassa politica manageriale, sempre più estraneo alle motivazioni culturali del Teatro. Proseguendo sulla traccia di Leo, è tempo di proporre una progettualità teatrale con un Manifesto/Comunità De-Artistico contrapposto alla PSEUDOCULTURATEATRALE e in conflitto col teatro/spettacolo Lobbyzzato et Lottizzato! Perché il palcoscenico non consente di mentire né di essere diversi da quel che si è. Questa era (è) l'utopia del Teatro di Marigliano, del Teatro dei Mutamenti. Sta a noi continuare, essere i “guastatori”. Una nuova PROSPETTIVA SUDD. Gramsci dice che bisogna saper conciliare l'ottimismo della volontà col pessimismo della ragione dal momento che viviamo in un'epoca governata da quelle che Spinoza chiama le “passioni tristi”: incapacità e disgregazione. Leo va rimeditato, riletto, divulgato. È un atto politico-culturale affinché si realizzi il suo Teatro Nazionale di Ricerca e si asserisca ad libitum che “Il Teatro deve tornare a essere una cosa preziosa. [...] Per la prefigurazione di nuovi mondi possibili”.
Domenico Sabino
Altri due articoli su Leo de Berardinis sono stati pubblicati
in questi anni sulla rivista: L'urlo di Leo di Cristina
Valenti (“A” 187, dicembre 1991 – gennaio
1992) e L'uomo e l'artista di Mimmo Mastrangelo (“A”
213, novembre 1994).
Per saperne di più
Antonin
Artaud, Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi,
1968
Leo de Berardinis, Per un Teatro Nazionale di Ricerca,
in “Culture Teatrali”, n.1, autunno 1999
Leo de Berardinis, Scritti d'intervento, in “Culture
Teatrali”, n.2/3, primavera-autunno 2000
Leo de Berardinis, Dialogo sull'attore, Arcidosso
(GR), Effigi, 2012
Jack Gelber, La Connection, Milano, Ubulibri, 1983
Gianni Manzella, La bellezza amara. Il teatro di Leo
de Berardinis, Parma, Pratiche Editrice, 1993
Claudio Meldolesi (a cura di), La terza vita di Leo,
Corazzano (PI), Titivillus, 2010
Franco Quadri, L'avanguardia teatrale in Italia (materiali
1960-1976), 2 voll., Torino, Einaudi, 1977. |
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