rivista anarchica
anno 46 n. 412
dicembre 2016/gennaio 2017


droni e...

Giochi di guerra

di Maria Matteo


Sangue, profughi e videogame.
Tra reale e virtuale: quando si combatte dalla consolle.


Battlefield 1, uno dei più noti videogame della DICE, per la prima volta ha un'ambientazione italiana. Il monte Grappa, la prima guerra mondiale.
È il classico gioco virtuale con tanti morti ammazzati e l'eroe che spara e uccide più e meglio di tutti. Il nuovo gioco pare sia stato ben accolto dagli appassionati, ma ha suscitato le proteste indignate di Sebastiano Favero, il presidente dell'ANA, l'Associazione Nazionale Alpini, del presidente della regione Veneto, il leghista Luca Zaia, noto per aver aderito al plebiscito virtuale per l'indipendenza del Veneto.
Il gioco virtuale ambientato sul Grappa spezza la “sacralità” del luogo, trasformandolo in scenario per una partita dopo cena.
Per politici e militari il sangue versato sui monti veneti è il suggello della buona causa per cui si combatteva su quel fronte, uno dei tasselli fondamentali di una narrazione mai sopita, che oggi trova nuovo slancio, nuova forza per giustificare muri, filo spinato, barricate contro l'invasore.

Retorica di ieri, guerre di oggi

Trasformare la guerra in un gioco come tanti, dove, a seconda dei gusti si cambia scenario e fronte, indigna chi sul patriottismo giustifica la guerra ai migranti, ai profughi, il mantenimento di leggi che impediscono di entrare legalmente in Italia ai lavoratori stranieri. In questi anni lungo i confini d'Italia si sta combattendo una guerra feroce contro la gente in viaggio, contro chi fugge dai conflitti dove le truppe italiane sono in prima fila.
In Iraq battaglioni d'élite dell'esercito tricolore partecipano all'assedio di Mosul, per cacciare i jihadisti dello Stato Islamico. Sono in Iraq da mesi per difendere gli interessi della Trevi, la ditta italiana che si è aggiudicata i lavori alla diga di Mosul, uno snodo strategico per chi intende fare buoni affari nel paese.
Ogni anno il 4 novembre celebrano la festa delle forze armate, nel giorno della “vittoria” nella prima guerra mondiale, un immane massacro per spostare un confine. La divisa e la ragion di stato trasformano chi uccide, occupa, bombarda, in eroe.
Nelle celebrazioni della Grande Guerra come nel videogioco si tace delle migliaia di soldati, che, a rischio della vita, disertarono, perché sapevano che le frontiere tra gli Stati demarcano il territorio di chi governa, ma non hanno nessun significato per chi abita uno o l'altro versante di una montagna, l'una o l'altra riva di un fiume, dove nuotano gli stessi pesci, dove crescono le stesse piante, dove vivono uomini e donne che si riconoscono uguali di fronte ai padroni che si fanno ricchi sul loro lavoro.
Il garrire di bandiere e le parate militari nascondono i massacri, i pescecani che si arricchivano, le “decimazioni”, gli stupri di massa. Nessuno parla delle rivolte, delle “tregue spontanee”, dell'odio per gli ufficiali. Ne resta traccia nelle canzoni, che tenacemente sono passate di bocca in bocca e riecheggiano nelle labbra di chi oggi lotta contro eserciti, guerre, stati e frontiere. Le guerre di ieri si trasformano in giochi, dove l'adrenalina corre sul dito che schiaccia, sui morti che non puzzano, sul fango che non impasta i piedi e le coscienze.

Fuori dal videogame

Nella Grande Guerra la gran parte dei morti indossava una divisa. Carne da cannone sempre rinnovabile, di scarso valore.
Fu l'ultima volta.
Dalla seconda guerra mondiale nei conflitti armati muoiono sempre più civili e sempre meno militari. Oggi i soldati sono professionisti super addestrati, strumenti costosi e preziosi da preservare, mentre le persone senza divisa diventano obiettivi bellici di primaria importanza in guerre che giocano la carta del terrore, per piegare la resistenza delle popolazioni che serve sottomettere, per realizzare i propri obiettivi di dominio. La propaganda della guerra all'Isis marchia come terroristi i militari della jihad, ma usa gli stessi mezzi. Solo la narrazione è diversa. Torture, rapimenti extragiudiziali, detenzioni senza processo, sono normali ovunque. L'Isis ama di più lo spettacolo e lo usa per dimostrare la propria forza e attrarre a se nuovi adepti. Al di là del palcoscenico la macelleria di Abu Ghraib, di Guantánamo, della School of Americas è la medesima esibita a Raqqa, Ninive, Senjal.
Al riparo delle loro basi, a dieci minuti di auto dalle loro case, i piloti dei droni, osservano in uno schermo le possibili vittime, le puntano e le colpiscono come in un videogioco. La guerra virtuale è reale, ma accresce la distante onnipotenza di chi dispensa morte da un aeroporto lontano migliaia di chilometri dal sangue, dalle feci, dagli arti straziati, dall'inenarrabile dolore di chi vede morire i propri figli, amici, genitori. Una guerra senza passione, un “lavoro” come un altro, che si pretende chirurgico, ma non lo è, e, probabilmente, nemmeno vuole esserlo. Tra il sibilo che annuncia il missile lanciato dal drone e la morte passa un battito di ciglia.
Chi gioca alla guerra da una consolle può gustare tutta l'adrenalina del gioco, senza correre i rischi mortali del campo di battaglia. Chi fa la guerra vera da una consolle uccide senza stress: le vittime sono meno materiali di una pedina sulla scacchiera. La guerra diventa gioco, i giochi diventano guerra. Tutto si irrealizza: ieri ed oggi, passato e presente.
I corpi concreti di chi sbarca sulle nostre coste diventano inquietanti, nella loro materialità, nella loro concretezza, nell'essere memoria viva delle guerre, dove sparano armi costruite a due passi dalle nostre case, dove truppe tricolori difendono gli interessi delle ditte italiane, dei fabbricanti d'armi che gestiscono un business che non va in crisi.
L'Europa ha pagato miliardi al governo turco perché trattenesse i profughi che lo scorso anno premevano alle sue frontiere. Li ha allontanati dalla vista e se ne è lavata le mani: nelle cerimonie ufficiali il ministro di turno spende retorica su chi muore in mare o in fondo a un tir. La verità cruda ma banale è che in Siria, in Iraq, in Afganistan, in Libia si combatte con armi che spesso sono costruite a due passi dalle nostre case. L'industria di guerra è un buon business. L'industria bellica italiana fa affari con chiunque. I soldi non puzzano di sangue e il made in Italy va alla grande.
I profughi perdono identità ed umanità quando sono tenuti lontani, rinchiusi in stereotipi razzisti, narrati collettivamente, senza interesse né attenzione alle storie individuali, alle scelte di ciascuno, ai desideri di chi per necessità o per scelta si mette in viaggio. La distanza, la deportazione sono necessarie a chi ha fondato le proprie fortune sulla propaganda dell'odio. Ma non solo. Il fatto è che i profughi rendono reale la guerra, la fanno schizzare fuori dal videogame, ce la buttano in faccia.
Le barricate erette a Gorino contro 12 donne e 8 bambini, per impedire che venissero ospitati nell'ostello del paese, hanno suscitato indignazione, ma hanno avuto un merito. Giornali e TV si sono affrettati a cercare le profughe, che hanno raccontato le loro storie, una diversa dall'altra. Così all'improvviso queste donne sono diventate qualcuno, dei volti, delle persone.

Droni, armi low cost

La guerra dei droni modifica la guerra in modo radicale, come nel 1914 i gas e i blindati, negli anni Trenta i bombardamenti aerei, negli anni Quaranta la bomba atomica. I droni aumentano l'asimmetria tra chi colpisce e chi viene colpito senza possibilità di difesa o di significativo contrattacco. Questi giocattoli letali costano molto meno di un bombardiere. Un Predator armato costa 4 milioni di dollari contro i 137 di un F35.
I droni sono l'arma low cost per eccellenza: si risparmia sui mezzi, si risparmia sul personale, si risparmiano i costi dell'assistenza ai reduci traumatizzati dalle violenze viste, fatte, subite.
L'Italia è in guerra da decenni ma la chiama pace.
Lo Stato italiano investe ogni ora due milioni e mezzo di euro in spese militari, di cui mezzo milione solo per comprare nuove bombe e missili, cacciabombardieri, navi da guerra e carri armati. Gli altri servono per le missioni militari all'estero, per il mantenimento dei militari e delle strutture. La base siciliana di Sigonella è diventata il maggiore centro logistico per la guerra dei droni.
La vocazione umanitaria delle forze armate italiane ha fame di nuovi costosissimi giocattoli.
La guerra virtuale alimenta l'illusione che massacri e distruzioni siano distanti dalle nostre case. Ogni tanto un kamikaze imbottito di tritolo mette in crisi questa narrazione, ma tenace resta la convinzione di poter tenere lontana la guerra. Così lontana da sembrare un videogame, dove ciascuno sceglie epoca e scenario.
Il Monte Grappa, l'Afghanistan, le guerre napoleoniche. Tutto rigorosamente in costume d'epoca. Tutto rigorosamente asettico. Come le consolle dei “piloti” dei droni. Finito il turno, una birretta al bar e poi a casa.

Maria Matteo