rivista anarchica
anno 47 n. 414
marzo 2017





Architettura/
Riflessioni stimolanti di un “capomastro” di Emergency

Va da sé che ogni architettura sia funzionale rispetto al suo mandato d'origine: lo sviluppo dell'idea e l'espressione strutturale ne costituiscono forse l'elemento più denso di significati. Per concetto di “funzione” in architettura si intende non solo un adattamento logico della forma all'uso- come la definizione stessa vorrebbe- ma qualcosa di più che attraversi la condizione “umana” di questo adattamento.
“L'architettura è, e resta, un meraviglioso processo di sintesi in cui sono coinvolte migliaia di componenti umane: essa rimane pur sempre “architettura”. La sua missione è ancora di armonizzare il mondo materiale con la vita”, disse Alvar Aalto, uno delle figure più intuitive del XX secolo, nel novembre del 1940. È proprio in seno a questa dimensione dell'architettura – come trama e spazio di legami sociali – che si pone Raul Pantaleo, architetto e realizzatore di diversi centri sanitari per Emergency.
Nella stesura del suo ultimo libro La sporca bellezza (Elèuthera, Milano 2016, pp. 127, € 13,00), Pantaleo narra delle proprie cronache di capomastro in terre sfigurate da guerra e da povertà nelle quali portare costruzioni di pace significa rivolgersi con fiducia a coloro che transiteranno in questi spazi. Così l'architettura supera il suo valore oggettuale per diventare simbolo del possibile dove “il luogo pubblico, in quanto tale, diviene luogo della condivisione dove il patto sociale si costruisce giorno per giorno” (p.78).
La creazione di ospedali, di cliniche, di centri di cura in luoghi dove la bellezza si inzozza, si infanga di morte e di eccidi, diviene atto protettivo per la condizione di malattia, rispettandone la necessità e l'urgenza, pur senza rinunciare ad una progettistica virtuosa e ad una fisionomia creativa, scongiurando così il pericolo della serialità dell'edificazione.
Le planimetrie di Raul Pantaleo, nella sfida di Gino Strada, diventano “il manifesto di un'idea di bello radicata nel pensare all'architettura come un'arte eminentemente sociale” (p.124) secondo un'ipotesi peraltro già avanzata da Giovanni Muzio, nel 1921, come reazione alla confusione e all'esasperazione di individualismo dell'architettura moderna. Per “sociale” allora qui si fa riferimento al superamento dell'inospitalità di alcuni ospedali, della sterilizzazione del loro aspetto, “macchina anonima per riparare corpi fallati, tanto efficiente, quanto disumana” (p. 20) dove gli spazi non rispondono più alla domanda delle comunità che li abiteranno, quanto alla logica del costo ridotto e della validità.
Ecco allora che l'ospedale a Kabul, la clinica pediatrica a Port Sudan, il reparto maternità a Busengo, il centro chirurgico a Goderich, il centro pediatrico a Bangui, la scuola cinema e l'Istituto di Ricerca Sociale dell'Università di Makerere a Kampala, il centro Salam a Khartoum, mostrano tutti, nelle loro diversità strutturali, il volto umano, il piacere di stare intra moenia. Anche le misure, le geometrie portano il loro equilibrio, nella poetica dei numeri poiché nell'efferatezza dei Paesi che li ospitano, rappresentano “un piccolo gesto di normalità, di sollievo ilusorio” (p. 31). Il banco di prova della poetica dei numeri è proprio questo, vivere la normalità nonostante tutto, preservando negli edifici anche quegli elementi distintivi della cultura architettonica di provenienza: prestare ascolto alle comunità resistenti dell'Africa dona senso nuovo ad un pensiero occidentale urbanistico più impositivo rispetto a valori e stili.
Costruire in molti parti dell'Africa, inoltre, impone il confronto con la crudezza di considerare che tutto possa precipitare, e appaiono quanto mai necessarie la prudenza e il compromesso tra aprire e proteggere: “le finestre devono essere piccole per poterle facilmente mascherare e per evitare, in caso di esplosione, di generare troppe schegge, mentre i muri devono essere massicci per proteggere dagli urti e gli edifici per essere chiusi all'occorrenza” (p. 98).
È così difficile allora ripensare l'architettura all'interno di un processo di “umanizzazione edile” che possa trasformare squallidi stanzoni in spazi per accogliere persone che soffrono oppure questo ripensare è troppo radicale nella sua percezione dello spazio?
Il problema è senza dubbio legato al profitto, “poiché la bellezza ha un costo che non genera alcun utile e per questo è trascurata” (p. 51), ma è altresì legato all'assetto culturale per il quale si fa fatica a comprendere che se nei luoghi di cura non c'è affetto nella realizzazione, non ci sarà nessun effetto che produca benessere né per i degenti né per i curanti. In questo disvelamento psico-geografico, il lavoro dell'architetto può diventare davvero prezioso, poiché, come scrisse nel 2004 James Hillman, straordinario analista junghiano, “l'architetto ha il potere di essere il vero psicologo archetipico delle comunità”, dato che un progetto d'architettura comincia proprio come una fantasia desiderata, come possibilità di bellezza immaginata.
È su tale inciso che Raul Pantaleo offre una visione attuabile e fattibile di architettura promotrice rivoluzionaria- secondo lo stesso- di “bellitudine” più che di “bellezza”, poiché se la seconda riporta ad un esercizio di stile, anche un po' vuoto, è proprio la prima che si fa drammaticamente reale, quindi fruibile. Solo in tale direzione, forse, l'etica estetica dell'abitare si può incarnare nell'appartenenza ad una serie di luoghi che circoscrivono l'essere e l'agire.

Daniela Mallardi


L'anarchia all'opera/
Quando la rivoluzione va a teatro

“Il mondo, per Ruggero Balestrieri, si divideva in due parti nette e ben distinte. Da una parte il tenore Ruggero Balestrieri, da quell'altra i restanti abitanti del pianeta”.
Facile a dirsi, e a capirsi, se il soggetto in questione è, per l'appunto, cantante lirico, ovvero persona abituata a stare sulla scena da protagonista tanto in teatro quanto nella vita. (La qual cosa – si capirà poi quanto curiosamente – ne avvicina parecchio la figura a quella di un qualsiasi re.)
Facile, si diceva. Ma già meno immediato se il suddetto si professa, negli atti e nei pensieri, fiero seguace dell'Idea che, in piena Belle Epoque, incendia gli animi e i popoli: l'anarchia.
Protagonista, sia da vivo che da morto (anzi, forse più da morto che da vivo, essendo la vittima dell'omicidio) del penultimo libro di Marco Malvaldi: Buchi nella sabbia (Palermo, 2015, pp. 256, € 14,00), il tenore Ruggero Balestrieri è l'ago della bilancia ideale di tutta la vicenda, perché in lui si incontrano e si scontrano i due mondi opposti che, all'inizio del secolo XX, si contrappongono come duellanti alla pistola: la rivoluzione e l'ordine costituito, lo Stato e il ribelle, il monarca e l'anarca.
Ma non solo: il magnifico tenore è, per l'appunto, anche l'ottimo rappresentante di quella che, al sorgere del secolo, è l'arte regina: l'opera lirica.
Anarchico e pieno di sé, rivoluzionario e prepotente, re della scena e libertario del costume: è piuttosto inevitabile che in parecchi facciano a gara per avere l'onore di farlo fuori.
Ma come i piani della Storia si intersecano spesso nel punto di un singolo uomo, così le direzioni dalle quali è partita la pallottola fatale possono essere altrettante.
Tutto accade durante la rappresentazione della Tosca di Puccini al teatro di Pisa, in occasione delle vacanze estive (a San Rossore, oggi luogo di villeggiatura del Presidente della Repubblica) di Vittorio Emanuele III e famiglia. L'augusto figlio del trapassato (in tutti i sensi) Umberto assisterà alla recita in musica – un re coronato sul palco di fronte a un re anarchico sulla scena – e il pericolo di un attentato è, anch'esso, reale. Perché il destino vuole che, per un'opera considerata già di per sé sovversiva (il protagonista Cavaradossi -ovviamente impersonato per l'occasione dal Balestrieri- recita: «L'alba vindice appar/ che fa gli empi tremar! Libertà sorge/ crollan tirannidi!»), vi siano anarchici anche fra le maestranze (tecnici abilissimi, ça va sans dire) e, naturalmente, fra il pubblico (cavatori carrarini, per giunta). Così come anarchico è anche il giornalista incaricato di raccontare l'evento alla stampa nazionale, ovvero il realmente esistito Ernesto Ragazzoni, funambolico giocoliere delle parole in rima (nel quale lo stesso Malvaldi pare immedesimarsi).
Insomma, una bella gatta da pelare per la Guardia Regia, corpo scelto dei Carabinieri incaricato di vegliare sull'incolumità del sovrano, prima del delitto, e delle indagini poi.
Guardia regia che però rischia fino all'ultimo di fare la fine del topo... perché se l'anarchico porta, inevitabilmente, scompiglio, il carabiniere dell'ordine è spesso la forza, ma non sempre l'intelligenza. Anche se, alla fine, c'è sempre qualcuno più “scelto” degli altri che salva la categoria.
Comunque, trattandosi di “giallo”, e di dimensione “lettura in giornata”, non è necessario dire oltre.
Basti sapere che anche l'anarchico, così come il re, è un uomo, e come tale non sempre è nobile, né di statura né nell'animo. Ma anche l'anarchia, spesso e volentieri, è femmina (signora o signorina...), e si sa: la donna, è mobile!

Andrea Babini


La notte degli zingari/
La notte dell'umanità, la notte dei nomi

Libere? E cosa si fa quando si è liberi?
Cosa significa essere liberi?
Il pensiero le balenò nella testa facendole sentire freddo
Miriam

Spesso accade quando si termina un libro di avere una mancanza, si trattiene dentro di sé quel “sentire ancora il bisogno di avere accanto quei compagni o compagne che hanno nutrito per giorni la propria immaginazione, il proprio mormorio interiore”.
Quando si giunge alla fine di Io non mi chiamo Miriam di Majkull Axelsson (Iperborea, Milano, 2016, pp. 562, € 19,50) resta una mancanza più intensa, dolorosa quasi commovente: quella di non aver ricordato mai abbastanza, quella di non aver capito mai abbastanza, quella di non aver saputo mai abbastanza. Miriam è Malika, o almeno quello che di Malika è rimasto dopo Ravensbrück, e Malika è Miriam o almeno quello che ne è rimasto dopo Auschwitz. Due donne che cercano per tutta la vita di dimenticare, rimuovere, seppellire negare il diritto alla propria storia; senza tuttavia, fortunatamente, riuscirci sino in fondo, ma lasciando al futuro il senso della responsabilità e non solo della memoria.
Malika è una giovanissima Rom per nascita, Miriam è una donna ebrea per necessità, il corpo è il medesimo, la vita anche, la lingua no. Il loro corpo soffrirà la violenza dei campi di concentramento, la vista della soluzione finale, le torture inflitte a Didi il fratello e Anuscha la cugina da un assassino che ribalterà la logica della cura: Mengele, che sorrideva e offriva caramelle ai bambini e alle bambine per poi farli sparire nelle più atroci sofferenze. Io non mi chiamo Miriam è un libro importante, è una storia, un racconto, che ci riporta alla memoria ciò che sono stati i campi di sterminio e la soluzione finale che ci impone il ricordo e la consapevolezza di come, ancora oggi, possano essere presenti notti dell'umanità. Malika ha una lingua materna, il romanes, che sarà obbligata a tenere segreta tutta la vita, Miriam imparerà lo svedese per avere un futuro. Il suo confine, l'esilio da se stessa, lo trova a partire dal giorno in cui quasi casualmente indosserà la stella gialla e abbandonerà il triangolo marrone (alcuni dei simboli che nel lager identificavano le origini culturali, religiose, sessuali e di condizione sociale) e modificherà irrimediabilmente la cicatrice sul braccio (tatuata indelebilmente ad ogni persona entrata in campo di concentramento), cancellando quella Z che il nazismo le ha tatuato sulla pelle per far scomparire tutte le tracce del suo essere zingara.
Quel giorno nasce Miriam Goldberg e questa nuova identità inizierà a scricchiolare e a imporsi come verità solo dopo molti anni, il giorno del suo ottantacinquesimo compleanno in una confidenza a sua nipote Camilla. Malika la Rom sopravvive, ma può farlo solo come Miriam Goldberg. Sopravvive alla notte del 2-3 agosto 1944 in cui circa 3000 persone fra Rom e Sinti furono prima gassati e poi bruciati nel settore dei Zigeunerlager di Ravensbrück, in quella notte degli zingari, come ricorda in un'intervista Pietro Terracina, sopravvissuto ai campi di sterminio: «si passò da una confusione totale fatta di grida, latrati, pianti e ordini al silenzio definitivo, alla scomparsa di tutti e tutte: bambini, bambine, donne, uomini, non vi era più nessuno, solo il vento faceva sbattere le porte delle baracche deserte, di lì il silenzio, e la prova che furono uccisi era data dalla forza con cui erano stati accesi i forni crematori».
In merito si veda il documentario (libretto+div) edito da A-Rivista Anarchica: “A forza di essere vento”, che rende testimonianza di questi fatti sconosciuti, in esso è contenuta un'intervista a Marcello Pezzetti che ricorda un evento fondamentale di resistenza da parte del popolo Rom e Sinti nel Zigeunerlager qualche mese prima della reazione efferata e organizzata che li condusse allo sterminio totale.
Malika non è fra quei 2897 ma per sopravvivere perde il suo nome, la sua identità, diviene Miriam, diviene ebrea, e non potrà più tornare indietro; il mondo odia gli zingari, ancora nel 1948 nella sua “democratica Svezia” a Jönköping, nella notte degli zingari, si diede la caccia ai “tattare”, una notte di xenofobia, discriminazione, razzismo.
Questo racconta Miriam-Malika. La lunga notte. Ci fa chiedere se oggi, di fronte a razzismo, xenofobia, discriminazione, espulsione, gommoni affondati, centri di “accoglienza temporanea”, siamo disposti e disposte a liquidare ancora gli eventi con un'alzata di spalle, se siamo consapevoli dell'atrocità “di quel che resta dopo Auschwitz” se ne abbiamo conosciuto l'orrore, se abbiamo da qui il coraggio nell'opporci alla connivenza, a non essere parte dell'ingranaggio di questa banalità del male come l'ha definita Arendt.
L'autrice Majgull Axelsson, scrittrice drammaturga e giornalista, magistralmente, con una scrittura diretta, asciutta e chiara ci porta di fronte a questa fatica della memoria come se volesse in fondo invitarci a fare ancora un volta i conti, oggi, nella nostra quotidianità con queste problematiche che circondano ancora le nostre esistenze, dalle quali non possiamo prendere distanze, verso le quali il sapere, il conoscere e capire divengono scelte etiche, un impegno a lottare ancora contro oppressione, violenza, sterminio e una capacità di calarsi ancora nel destino e nel futuro di chi accanto a noi esiste.
Ricordando, come suggerisce Hetty Hillesum nel suo Diario, il 19 febbraio 1942, che «il marciume che c'è negli altri c'è anche in noi [...] » e per troppo tempo si è pensato che i campi di sterminio e la soluzione finale siano una notte superata dell'umanità e che si sia trovata di esse l'aurora; una presunzione che non ci possiamo concedere né permettere.
Si può decidere che il rapporto con questa memoria possa essere retorico oppure farlo divenire una pratica politica (quotidiana) che riporta sempre dentro alle nostre esistenze l'idea della lotta al dolore, alla violenza e alla sottomissione che uccidono la vitalità in ogni tempo e luogo.

Silvia Bevilacqua


Antispecismo/
Scegliere la libertà, divenire mostri

Mostri si nasce o si diventa? Qual è il motore immobile posto al centro di ogni cosa che determina l'inestimabile valore o, al contrario, la marginalità, di ogni aspetto del vivente conosciuto? Anche questa volta la risposta di Massimo Filippi è una sola, ribadita con forza: tale motore, semplicemente, non esiste.
L'invenzione della specie. Sovvertire la norma, divenire mostri (Ombre corte, Verona, 2016, pp. 120, € 13,00) è un libro inconsueto, forse addirittura un libro mostruoso, fatto di parti assai diverse tra loro, cucite insieme a comporre un esperimento visionario e di là da venire. Una sfida, lanciata a chi deciderà di immergersi in queste pagine dense, a lasciarsi alle spalle ogni tassonomia e tentativo di categorizzazione: a partire dal testo stesso, dalla pretesa di una coerenza interna che a prima vista potrebbe apparire fuggevole.
In realtà, chi ha familiarità con gli scritti di Filippi, filosofo antispecista per incontenibile passione, non faticherà a riconoscere il percorso di una parabola intellettuale e politica in costante divenire, che a partire da un solido inquadramento teorico spicca il volo verso i territori dell'indistinzione e della molteplicità inesauribile. La questione animale è da sempre al centro delle riflessioni dell'autore, ma in questa sua ultima fatica risulta evidente come non sia possibile rimettere in discussione la categoria dell'“animale” senza riconsiderare anche quella di “umano”; umano che, proprio a partire dalla differenza dall'animale, ha posto le basi per costruire tutto quel complesso e stratificato sistema di dominio e oppressione che informa la società capitalistica e tutte le sue istituzioni di controllo dei corpi.
Un libro coraggioso, senza ombra di dubbio, e sorprendente, che prendendo le mosse da un fine lavoro di decostruzione del concetto stesso di categoria – conditio sine qua non della messa a valore di ogni aspetto del vivente – e utilizzando sinergicamente gli strumenti messi a disposizione non solo dai suoi puntuali riferimenti filosofici (da Foucault a Deleuze, passando per Agamben, Adorno e Derrida, tanto per citare alcuni dei più noti), ma anche dalla teoria femminista e queer (attingendo a piene mani dal lavoro di Butler), alla domanda «Che cosa è l'“Uomo”?» che ci aveva già costretto ad affrontare nei precedenti saggi, Crimini in tempo di pace (elèuthera), Corpi che non contano (Mimesis) e Sento dunque sogno (Ortica), risponde con un deciso: «Nulla».
L'“Uomo”, così come lo conosciamo è infatti un'invenzione recente, che ha tuttavia provato con tutte le sue forze a cancellare le tracce di altri modi di vivere-con il resto del vivente. Il saggio, allora, dà conto, attraverso numerosi esempi, di come, in altri tempi ed in altri luoghi – al di fuori cioè del cosiddetto “Occidente moderno civilizzato” – siano esistite società umane capaci di uno sguardo più fluido e meno antropocentrico, uno sguardo capace di posarsi sul non umano con stupore, rispetto e attenzione. L'invenzione della specie spiazza chi sia ancora alla ricerca del proprio posto all'interno di un sistema che divide allo scopo di dominare e, al contrario, è capace di aprire orizzonti di libertà e possibilità per chi abbia riconosciuto – o sia disposto a riconoscere – l'inconsistenza e l'arbitrarietà di questo movimento di esclusione e di contemporanea appropriazione dell'esistente.
In coerenza con questa posizione, le tappe seguenti si (ci) spingeranno ben oltre, smascherando i meccanismi di speciazione, tanto arbitrari quanto efficaci nel disegnare confini funzionali allo sfruttamento di chiunque ricada in quelle categorie considerate “marginali” – confini che, a ben vedere, spesso si rivelano più porosi di quanto si sia indotti a pensare, rendendo il vivente tutto (umano compreso) estremamente vulnerabile alla presa del potere.
Così anche la specie, come è già avvenuto in passato per i concetti di “razza” e di “genere”, si rivela per quello che è: un termine solo apparentemente neutro che, ad un esame più attento, mostra inequivocabilmente la sua più intima essenza di costrutto politico volto alla produzione di categorie di valore strumentali allo sfruttamento di chi si trova nella posizione dell'oppresso. Con la dissoluzione del concetto di specie non può che seguire il disvelamento di quel calcolo crudele e inesorabile che porta il vivente, umano, meno-che-umano o non umano che sia, sulla strada del mattatoio.
É in questo modo che si scopre la forza della norma sacrificale, norma che designa quali corpi e quali esistenze possano essere sacrificate impunemente – violenza che, da tempo immemore, si appropria delle vite di umani e non umani per nutrire la propria brama di potere, prelevando dalla carne e dal sangue di chi si trova nella categoria “sbagliata” il plusvalore necessario per far prosperare pochi a scapito di tutti gli altri. In questo senso riusciamo a comprendere meglio l'esortazione del sottotitolo a sovvertire la norma e a scegliere, consapevolmente, di offuscare i confini che, imprigionando la vita sensuale, ci condannano, volenti o nolenti, al ruolo di oppressori – e al rischio continuo di diventare, a nostra volta, vittime dell'oppressione. E altrettanto chiara si fa anche l'espressione divenire mostri: siamo chimere dai tratti sempre meno netti e sempre più aperte alle infinite possibilità di gioire e di desiderare (con) l'altro da noi.
É questo il momento di rottura di un saggio che, da qui in poi, ci condurrà in un viaggio fantasmagorico – e fantasmatico – attraverso quello che si potrebbe definire un vero e proprio bestiario di “casi”, tanto mostruosi quanto affascinanti, ibridazioni di reale e immaginario: un museo zoologico ricolmo di esseri mutanti nei quali si liquefano i confini esistenti tra umano e non umano, normale (normato) e mostruoso, e che, come ogni esposizione che si rispetti, stimola quella curiosità voyeuristica di scoprire la prossima stranezza, la prossima mostruosità; illudendoci, ma solo per poco, che in un simile labirinto di specchi non saremo proprio “noi” a trovarci, infine, messi in mostra tra questi stessi casi, poiché quella che credevamo essere la nostra “normalità” altro non era che un'illusione, tanto potente quanto fragile.
I ventisei casi del terzo capitolo, fantasiosi quanto meticolosi assemblaggi di corpi, esperienze ed esistenze in cui Filippi cancella, consapevolmente, i confini esistenti tra filosofia, racconto, referto clinico e autoptico, rapporto di polizia e sogno – e nei quali crollano al medesimo tempo le categorie che separano in maniera così netta l'umano dal non umano, il normale dal patologico, il freddo resoconto del terapeuta dal punto di vista di chi viene analizzato – rappresentano un esperimento riuscitissimo capace di mostrare l'arbitrarietà delle categorie e la continua necessità di sorvegliare quei confini che separano chi può e deve vivere, da chi invece può, e spesso deve, morire.
L'ultima parte del libro ripercorre, da un punto di vista altro e attraverso un lirismo intenso ed onirico, quei calcoli tanto efficaci a dividere (e smembrare per possedere, appropriarsi e distruggere), ma nonostante tutto ancora capaci di addizionare e moltiplicare impressioni, percezioni sensibili, movimenti impercettibili e imperscrutabili di tutto ciò esiste e r-esiste, contro ogni umano sforzo, alla riduzione in elementi intelligibili e manipolabili – e, infine, di sottrarre al fine di lasciar spazio a nuove vite, a nuovi mondi, a nuove esistenze.
Quasi una metempsicosi, in cui il disfacimento di quanto conosciamo, e soprattutto riconosciamo, come umano, si apre al radicalmente altro (alghe mute che sinuose ondeggiano all'unisono adattandosi ai moti marini, uccelli migratori sorpresi nel penoso ma allo stesso tempo irresistibile momento della partenza) per tornare infine – spogliati e inermi – nuda vita, corpo ridotto alle sole funzioni vitali e forse proprio per questo, finalmente e autenticamente animale, e pertanto (anche) umano.
In questo perdere ciò che si è, così spaventevole e terrificante, si scopre il modo per liberare ciò che si potrebbe essere: un desiderio mai sopito, un desiderio refrattario a costrizioni e imposizioni. Un desiderio di assoluta, irrefrenabile libertà.

feminoska


Noam Chomsky/
Ma natura umana e anarchia sono legate

Ma “noi”, noi umani intendo, che genere di creature siamo? Nelle sue Tre lezioni sull'uomo (Ponte alle grazie, Firenze, 2017, pp. 128, € 13.50) Noam Chomsky tenta una risposta a questa domanda mettendo ordine nel suo pensiero e, verrebbe da dire, preparandosi a lasciarlo alla scienza e all'anarchia che verranno dopo di lui.
Scienza e anarchia, infatti, ancora una volta connesse: la struttura del linguaggio e quella della conoscenza sono intrinsecamente connesse all'organizzazione politica autonoma e dal basso. Chomsky riparte dalle basi, quelle che chiama “ovvietà” ma che hanno anche il grande lusso di essere vere ma sconosciute ai più: dalla non contraddizione di un'anarchia che nel contingente preferisce le democrazie alla dittature, da un linguaggio come universale della nostra specie, e da un'idea di impresa conoscitiva come limitata e per questo interessante.
La lezione di Chomsky, qualsiasi valutazione si possa fare del suo pensiero politico, è in fondo che la conoscenza, solo la conoscenza, generi libertà: al di là delle presunte differenze esiste una matrice comune, importante e distintiva, che rende tutti gli umani legati a doppio filo a una corda tesa tra limite e risorsa. Nello scenario attuale, quello di crisi irreparabile del modello di democrazie occidentali, Chomsky vede quasi una risorsa per la teoria anarchica (anche se un rischio, enorme, per la nostra pace): ripartire dall'organizzazione di microcomunità e dall'idea che essere impossibilitati a conoscere tutto non generi scetticismo (“misterismo”) ma impresa culturale futura.
Ciò che in Chomsky diventa evidente, limpido come in nessun altro autore, è il legame intrinseco tra filosofia, linguistica, e teoria politica: una triangolazione che genera progresso e in cui ogni vertice, come si giri-giri il triangolo, è indicazione necessaria per programmare il poi. Studiare il linguaggio, nel senso della sua ricorsività, permette di comprendere il proprio specifico della nostra di vita che non è mai comunque “speciale” ma, appunto, “specifico” e porta dritti al ponte immenso che riguarda la struttura della conoscenza: possiamo sapere alcune cose, non altre, ma questo non deve generare postmoderno o pensiero debole ma comprensione che la forma, ogni forma, è data proprio da quel limite (come un corredo genetico).
Affascinante, anche se ormai messa in discussione da più parti, questa idea maestosa che natura umana e anarchia siano legate: l'autonomismo morale e la comunità come principi e parametri di una specie che sembra ormai impossibile pensare in assenza di Stato. Tutte le volte che avviene, questo emerge dalle tre lezioni, l'impresa della filosofia è fallita. Ma è alle alternative che Chomsky, anziano ma più nuovo della scienza e della politica “giovane” e contemporanea, continua a guardare: come il linguaggio è un insieme discretamente infinito di elementi, così la nostra vita e le possibilità della nostra conoscenza combinate in nuovi modi genereranno altrove inaspettati.
Se fossero le ultime lezioni di Chomsky potremmo riassumere così il senso della sua vita: “ognuno faccia la sua parte, servirà ad ogni atro ognuno di questo mondo”.

Leonardo Caffo


Psicoterapia e Scienze Umane/
Mezzo secolo di critica in Italia

Il 1967 è l'anno di fondazione della rivista Psicoterapia e Scienze Umane che rappresenta in Italia un'esperienza unica sia per longevità sia per l'importanza culturale e politica da essa rappresentata. La sua storia è legata al Gruppo Milanese per lo Sviluppo della Psicoterapia, si trattava di un nucleo di giovani studiosi che a latere dell'università iniziarono a sperimentare “seriamente” quanto di più aggiornato ruotava attorno al mondo della psicoterapia: nuove forme di psicoterapia individuale, familiare, gruppale, istituzionale. In particolare si sperimentava la terapia delle “psicosi” che sfidava l'impianto teorico-tecnico della psicoanalisi, aprendola a nuovi ed inesplorati territori. Si metteva l'accento sulle capacità trasformative della psicoanalisi piuttosto che su quelle adattive e conservatrici. Alla psicoanalisi era legata l'intera esperienza di Pier Francesco Galli, animatore del Gruppo. Medico e psicologo, originario di Nocera Inferiore, studente a Milano e poi in Svizzera, Galli fa parte di quella schiera di intellettuali italiani che a partire dagli anni Cinquanta hanno cercato di cambiare e democratizzare la cultura e le istituzioni italiane con una intensissima attività organizzativa1.
Grazie all'attività del Gruppo in Italia è penetrata, senza censura, la cultura psicoterapeutica più innovativa. Si trattava quindi di una sorta di controcultura rispetto alle posizioni paludate sia della psichiatria che della psicologia istituzionali. Il Gruppo viene poi frequentato da una nucleo di giovanissimi “psi” che faranno la storia della psichiatria anti-istituzionale e della psicoterapia italiana (tra gli altri, Mara Selvini Palazzoli, Fabrizio Napolitani, Franco Basaglia, Giovanni Jervis).
Negli anni Settanta il Gruppo si trasformò nell'associazione Psicoterapia e scienze umane, dopo aver dato vita ad una rivista con lo stesso nome (1967). Negli anni la rivista, oggi condiretta da Marianna Bolko e Paolo Migone, ha aperto dibattiti critici su vari aspetti degli sviluppi teorici o sociali della psicoterapia ed è sempre stata indipendente da ogni associazione o istituzione e non ha mai ricevuto alcun finanziamento esterno. La rivista, inoltre, non contiene mai pubblicità, non ha interessi “di scuola” (per scelta, non ha fondato istituti o scuole private di psicoterapia), ma si propone solamente di essere uno strumento al servizio dello sviluppo della psicoterapia in Italia, allo scopo di stimolare, dall'esterno, altre iniziative, scuole o associazioni.
Una caratterizzazione della rivista è, quindi, lo stimolo critico proprio per le associazioni professionali e i servizi di salute mentale, soprattutto riguardo ai temi della formazione, della teoria della tecnica e del rapporto tra psicoterapia e scienze umane, nel confronto tra colleghi di formazione diversa.
A cinquant'anni dalla fondazione e a cura di Bolko e Migone, la rivista presenta un numero speciale in forma di inchiesta sullo stato dell'arte della psicoanalisi nel mondo (n. 3, 2016). Sono state sottoposte 12 domande “fondamentali” a 62 psicoanalisti, per lo più internazionali e fra i più famosi ed impegnati scientificamente o culturalmente2.
Ne emerge un quadro molto particolare che per certi aspetti è “sconosciuto” agli stessi psicoanalisti; questo numero monografico è dunque una sorta di raccolta di materiali “per la psicoanalisi della psicoanalisi contemporanea”. In linea con la tradizione culturale del gruppo, questo numero celebrativo di Psicoterapia e Scienze Umane tratteggia così una disciplina in “crisi”.
È probabile tuttavia che le scienze psi siano in crisi dalla nascita e che questa crisi corra parallela alla crisi del soggetto che dall'emergere dell'individuo e della massa, dalla fine dell'Ottocento condiziona la realtà psichica e materiale dell'individuo. Dalla morte di Sigmund Freud, la psicoanalisi ortodossa è stata certamente il tronco da cui si sono evolute varie scuole che criticamente hanno rielaborato il pensiero del fondatore sia dall'interno delle istituzioni psicoanalitiche classiche sia per mezzo di nuove vie, nuove psicoterapie, nuovi approcci, nuovi “territori” anche molto distanti dalla creatura freudiana. Per giunta, ci sono state schematicamente psicoanalisi conservatrici ed altre radicali; Reich, Marcuse e Guattari (fra gli altri) ancora oggi sono incommensurabili alla psicoanalisi tradizionale.
Come hanno risposto gli psicoanalisti e gli psicoterapeuti di fronte alla “crisi”, sollecitata dalle domande dei redattori di Psicoterapia e Scienze Umane?
Ciò che colpisce nelle risposte è la deriva dalle idee del fondatore e la mancanza di coordinamento fra i rispondenti. Fra questi spiccano coloro che, utilizzando la copertura della ricerca scientifica, accentuano alcune cose della psicoanalisi, svalutandone delle altre.
La questione è seria perché le interviste confermano i timori di certi studiosi, specialmente storici (ad esempio Dagmar Herzog in Cold War Freud: Psychoanalysis in an Age of Catastrophes, 2016), che attualmente notano una sorta di snaturamento della psicoanalisi ad opera degli stessi psicoanalisti che, ad es., operano come se la loro disciplina non avesse subito condizionamenti storico-ideologici (ad es. durante la guerra fredda) oppure generalizzano agli adulti teorie e pratiche nate per contrastare certi stereotipi positivisti e la vaga teoria psicologica del bambino, sostenute dal padre della psicoanalisi, scotomizzando così una serie di sfide lanciate da Freud all'inizio del Novecento.
Dall'insieme delle interviste fatte ad analisti, che tra l'altro hanno decine di migliaia di ore di psicoanalisi alle spalle e sono responsabili dei maggiori centri di formazione mondiale alla stessa disciplina, emerge un quadro impoverito della psicoanalisi che via via si è trasformata in una tecnica accademica di cui la ricerca contemporanea mette in luce l'efficacia, ma che paradossalmente ha perso di “profondità”.
In tal senso la maggioranza degli interlocutori lamentano una marginalizzazione della psicoanalisi contemporanea. Merito degli intervistatori è stato far emergere alcuni motivi di tale marginalizzazione nel senso di spaesamento degli intervistati di fronte ai temi classici come il sogno o l'Edipo che, soprattutto nell'alveo della tradizione psicoanalitica classica, sono rimasti al palo e sostituiti da modelli teorici alternativi, molto circoscritti, nati dalla ricerca psicofisiologica ed empirica che ha, via via, colonizzato la creatura freudiana, trasformandola da ricerca sui limiti della natura umana, anche in rapporto alle altre scienze umane politico-sociali, a territorio marginale, astrattamente psicologico e medico-psichiatrico, che vorrebbe sopravvivere venendo a patti con una ricerca profondamente condizionata da prioritarie istanze biopolitiche e biocapitaliste.

Renato Foschi

  1. Nel suo Liberi Tutti. Manicomi e psichiatri in Italia: una storia del Novecento (2009) Valeria Babini ha chiamato, con felice intuizione, l'attività editoriale di Pier Francesco Galli, l'“Università dei Libri”. Si tratta di una intensissima attività culturale con traduzioni di centinaia di opere riguardanti la psicoanalisi e la psicoterapia in collane di psicologia, psichiatria e psicoterapia edite da Feltrinelli, a partire dalla metà degli anni Cinquanta, e successivamente da Boringhieri.
  2. 1-Quale aspetto della psicoanalisi la colpisce di più o su cui vorrebbe esprimere un commento? 2-Vi è un autore che ritiene particolarmente importante oggi in psicoanalisi e, nel caso, per quali motivi? 3- A suo parere cosa caratterizza la cosiddetta “psicoanalisi contemporanea”, e quando si può dire abbia avuto inizio? 4- Cosa pensa della proliferazione di “scuole” psicoanalitiche?; 5- Identità della psicoanalisi e psicoterapia: come può essere impostato questo problema? 6- Il training psicoanalitico è certamente una questione importante e spinosa. Nella storia dell'istituzione psicoanalitica, sono cambiati alcuni aspetti del training? Se ritiene che il sistema del training non abbia subìto sostanziali modifiche, pensa che potranno esservi cambiamenti? Quali cambiamenti ritiene indispensabili? 7- Il concetto di Edipo ha ancora un significato e, nel caso, quale? 8- Cosa resta della teoria freudiana del sogno e, più in generale, che ruolo hanno i sogni nel processo terapeutico? 9- Come vede il rapporto tra teoria psicoanalitica e ricerca empirica sul risultato e sul processo della terapia? 10- Come valuta i recenti sviluppi delle neuroscienze e della neurobiologia rispetto alla psicoanalisi? Come vede il rapporto tra psicoanalisi e ricerca psicologica e, più in generale, tra la psicoanalisi e le altre discipline? 11- Quali concetti centrali della psicoanalisi hanno mantenuto una loro validità, e quali sono le loro evidenze empiriche? 12- Come spiega la crescente marginalizzazione della psicoanalisi?


Scuola/
Quando si insegnavano militarismo e obbedienza (ma anche oggi...)

Nello spazio chiuso delle aule come in piazza, nell'associazionismo scolastico e extrascolastico, la scuola rappresenta un ambiente privilegiato per il controllo, la nazionalizzazione e militarizzazione dell'infanzia.
Il saggio divulgativo e ben documentato di Gianluca Gabrielli (Educati alla guerra. Nazionalizzazione e militarizzazione dell'infanzia nella prima metà del Novecento, Edizioni Ombre corte, Verona, 2016, pp. 127, € 13,00) accompagna una mostra curata dallo stesso autore e distribuita da Pro Forma Memoria. Il percorso attesta il coinvolgimento di bambini e bambine, adolescenti, presidi, insegnanti e famiglie attingendo a fonti iconografiche, giornalini e quaderni con copertine illustrate, carteggi epistolari gestiti dalle scuole, riviste per docenti, registri personali, resoconti, circolari ministeriali, libri scolastici prodotti nella prima metà del Novecento.
A partire dalla guerra di Libia, la rivista laica “I diritti della scuola” recepisce il messaggio degli insegnanti pronti alla sottoscrizione per donare aeroplani, sollecitati dal mito tecnologico della guerra aerea, e la posizione dei docenti favorevoli alla solidarietà patriottica e inclini a sollevare dubbi negli allievi.
Nel “Corriere dei piccoli” la guerra è presentata come giusta, ma cosa da grandi. Tuttavia, nell'ultimo anno della Grande guerra l'interventismo condiziona l'infanzia, destinataria delle storie. Il personaggio Italino ne è il protagonista. Viene istituita l'ora settimanale dedicata al conflitto in corso, ma si sollecita anche il conforto ai soldati con lettere, e l'elaborazione collettiva del lutto.
Comitati di organizzazione civile, patronati, maestri volontari e associazionismo femminile si occupano della tutela e assistenza dei bambini nel periodo estivo.
Con l'avvento del fascismo al potere, l'etica della violenza e la celebrazione della guerra fondano la pedagogia politica e sociale del nuovo stato. La propaganda entra nello spazio della vita scolastica quotidiana. Circolari ministeriali e richiami in ogni libro di testo trasmettono ai piccoli balilla il modello delle squadre fasciste. Nel 1923, l'applicazione della riforma della scuola di Giovanni Gentile e Giuseppe Lombardo Radice è piegata ai fini propagandistici del fascismo, a partire dall'alzabandiera e dalla esaltazione della morte eroica.
La politica di potenza e di conquista territoriale premia nuzialità e natalità, e tassa i celibi. Un intervento eugenetico per migliorare la stirpe istituisce colonie estive ed elioterapiche. Più tardi, nell'ambito di simbologie infantili, la pubblicità di ricostituenti e integratori alimentari come Nucleon e Ovomaltina riprodotta sul “Corriere dei piccoli” richiama lo svago e la cura del corpo dei piccoli italiani.
Nel 1928, in stretto rapporto con il ministero dell'educazione nazionale e le competenze affidate all'Opera nazionale balilla, le due ore di educazione fisica sono propedeutiche all'uso pubblico di esercitazioni coreografiche. Il controllo totale del tempo libero contrasta eversioni dell'ordine sociale.
Bellicismo e militarismo nei curricoli scolastici sono proiettati oltre le discipline tradizionali. Nel testo unico per la scuola elementare la simbologia machista e guerriera infantile è rappresentata dai balilla in divisa. Il gioco della guerra, richiamo alla virtù guerriera, viene istituzionalizzato.
Nel 1934, sfumano i confini tra scuola e caserma. Con la nuova svolta militarista nei nuovi programmi di storia della scuola elementare, la voce conclusiva è dedicata alle forze armate. Un anno dopo, per la scuola secondaria, viene introdotta la materia cultura militare. Si intensifica la militarizzazione dei curricoli maschili: un nuovo decreto equipara gli ufficiali responsabili dell'istruzione ai membri del corpo insegnante.
Per la difesa della società civile dagli attacchi nemici, nelle scuole arrivano le maschere antigas e l'immaginario di guerra muta velocemente. Seguono esercitazioni antiaeree nelle scuole, documentate da foto di maschi in divisa militare e femmine vestite da crocerossine.
Nelle nuove adozioni del libro di testo di stato per la scuola elementare (1935- 36) il concetto di razza e di civiltà veicola quello della gerarchizzazione dei popoli. Sulle nuove copertine dei quaderni della serie “Abissinia” la pubblicistica propaga l'ostilità razzista contro il nemico. Ogni apprendimento allude alla marcia, alle armi, alla gerarchia della caserma. In materie come la fisica, dominano metafore in cui un plotone militare in marcia è accompagnato dalla didascalia “il passo romano di parata è un esempio di moto uniforme”.
La scuola è il primo settore della vita pubblica ad essere colpito dall'offensiva razzista del regime. Tra il 1936 e il 1938, la polarizzazione amico-nemico viene sancita dall'integrazione dell'educazione guerriera con lo sviluppo della coscienza “razziale”. Una circolare del ministro Bottai, in merito alla corrispondenza scolastica degli alunni italiani con indigeni dell' Africa orientale, ammonisce: con i “sudditi inferiori” non si deve fraternizzare “perché i fratelli degli italiani sono solamente gli italiani”.
L'anno scolastico1938-39 inizia con l'espulsione dei nemici di razza interni per eccellenza, gli ebrei, biologicamente diversi e cospiratori ai danni della nazione. Libri di testo, carte geografiche, nomi delle scuole vengono bonificati dalla presenza di autori e personaggi ebrei. Durante il secondo conflitto mondiale, alta la mobilitazione quotidiana dei docenti impiegati nei nuclei di propaganda per attività di censura sulla posta ordinaria di cittadini e militari. A partire dal 1941, circolari ministeriali inducono le scuole a mantenere sostegno morale ai combattenti e la tenuta della società civile: lotta contro gli sprechi, raccolta di rifiuti per riutilizzarli, rivolta a maschi e femmine. Una marcata connotazione di genere riguarda le attività degli orti di guerra richieste ai maschi, alle femmine invece la “giornata del fiocco di lana”, per assicurare una sovrabbondante confezione di indumenti caldi.
Ma il mito di potenza della guerra è infranto. Con lo sbarco alleato, i bombardamenti colpiscono le scuole. A Gorla, nel milanese, il 20 ottobre 1944 morti oltre 200 bambini con le loro maestre. E non si contano gli orfani di guerra. In triste aumento i bambini mutilati per gli ordigni inesplosi. Nel secondo dopoguerra, anche le forze politiche più determinate accetteranno un silenzioso ripiegamento. I programmi di storia si fermeranno al 1918, anche autori ed editori sceglieranno la strategia del silenzio. La parentesi fascista poteva essere ignorata senza inficiare la comprensione del presente ignorando le responsabilità italiane nel secondo conflitto mondiale e i vent'anni di regime.
Ancora oggi la scuola di stato, attraverso le riforme, le linee guida, i programmi scolastici frutto di scelte politiche, condiziona l'immaginario collettivo e conferma la sua struttura piramidale e gerarchica, dalle dinamiche aziendalistiche, sempre più meritocratica, laddove invece si dovrebbero sperimentare dal basso spazi di democrazia, per promuovere piena autonomia e favorire la libertà dell'individuo.

Claudia Piccinelli


Ribolla 1954/
La più grande tragedia mineraria in Italia

Se è stato immmediato l'impulso di proporre alla Rivista la recensione del volume di Silvano Polvani, dirigente della CGIL in prima fila per la tutela sindacale dei lavoratori del Grossetano fin dal 77, che per la sicurezza dei lavoratori si è battuto con l'attività sindacale e con la penna, non è stata altrettanto immediata la predisposizione della recensione stessa. Infatti il volume Ribolla 1954-2014 La tragedia mineraria nella cronaca dei quotidiani (di Silvano Polvani, Edizioni Effigi, 2014, pp. 240, € 18,00) pubblicato a cinquantanni dalla tragedia di Ribolla, la più grande strage del lavoro accaduta in Italia in quegli anni, nella quale il 4 maggio del 1954 perirono nell'esplosione in miniera 43 minatori, non è un libro di storia della sicurezza del lavoro come tanti.
La somma del dolore e dello strazio che emerge sia dalle pagine dei quotidiani, dove sono anche conservate e tramandate alla memoria le testimonianze raccolte dalle voci dei minatori sopravvissuti, che dal corredo iconografico che, insieme alla cronaca giornalistica, definisce e delinea il contesto nel quale si svolgeva la vita della comunità, imperniata sull'attività nella miniera, rende perfino difficile la lettura del volume. Lettura che rimanda anche alla constatazione dell'impegno speso dal curatore del libro, nell'affrontare i temi dell'igiene e della sicurezza sul lavoro nei suoi aspetti più crudi e più aspri.
Quando, negli anni 50, le lotte dei lavoratori per la costituzione, nei posti di lavoro, degli idonei requisiti preventivi contro gli infortuni e le malattie professionali, si esprimevano in Italia in controtendenza rispetto alla sensibilità generale dell'opinione pubblica, ben meno avvertita su questi temi di quella odierna, la tragedia di Ribolla rappresentò nella storia del lavoro, il punto di svolta fondamentale. Infatti essa costituì una potente sollecitazione nel far pervenire a conclusione l'elaborazione della normativa prevenzionistica che fu emanata nel 1955 e 56 e che durò fino al Dlgs 626 del 1994.
È un libro prodotto non da specialisti di storia del lavoro sui minatori dell'Area Grossetana, ma dalla volontà di dare ai lavoratori sopravvissuti ed alle loro famiglie vittime della sciagura, la voce che, a distanza di oltre 50 anni, risuona con tutta la verità con la quale fu espressa allora.
Fin dalla Presentazione e dall' Introduzione del volume sono chiariti i termini economici, politici, sindacali e igienico- lavoristi del contesto entro il quale si consumò la tragedia, le cui cause sono spiegate nella I parte.
L'autore, nella II parte, in modo chiaro e piano, mette a disposizione del lettore ciò che fu scritto sui giornali dell'epoca con abbondanza di particolari e nel dettaglio, senza nulla tralasciare, sia dell'evento che del processo che ne seguì. Oggi si direbe che fu assicurata una copertura mediatica completa per l'accaduto, che ebbe risonanza nazionale. Fra le firme giornalistiche, fra le altre, si trovano quelle di Carlo Cassola, di Giorgio Bocca e di Luciano Bianciardi, che in diversi modi avrebbero continuato l'impegno per lo sviluppo democratico della società italiana.
A proposito di Luciano Bianciardi, del quale viene riportato un articolo eloquente sulle condizioni di lavoro nella miniera scritto sull'Avanti prima della tragedia, non è a tutti noto come il suo capolavoro “ la vita agra”, affondò le sue radici creative nella riflessione che elaborò sull'evento, dal quale egli fu segnato profondamente.
La III parte, che raccoglie la testimonianza di chi fu presente il 4 maggio del '54, da conto della dura vita che si viveva nelle miniere del Grossetano e di quanto la lotta sindacale e politica per l'affermazione delle misure preventive, nell'attività lavorativa, sul posto di lavoro sia stata legata alla lotta per la democratizzazione della società.
Dall'Albo dei minatori caduti nelle miniere delle Colline Metallifere dal 1892, che conclude l'opera, si evidenzia la terribile casistica dell'infortunistica sul lavoro, aggravata in miniera dal rischio di esplosione, che ricorre ancor oggi nella rilevante infortunistica mortale che si verifica in Italia, nonostante l'impegno che i diversi soggetti previsti dal Dlgs 81/08 sviluppano. In conclusione si condivide pienamente e per questo si suggerisce la lettura del volume, ciò che l'autore pone alla fine nella sua Nota per chiarire che si tratta di “ Un volume dedicato alle nuove generazioni affinchè attraverso la memoria riscoprano, per praticarli, i veri valori che sono a fondamento della propria esistenza: solidarietà, dignità e giustizia”.

Enrico Calandri


Giordano Bruno/
Ma l'ordine umano è anarchico

L'ultimo libro di Aldo Masullo contiene quattro brevi saggi, due già pubblicati in altri volumi, due inediti, che compongono e propongono, nell'insieme, un'acuta riflessione su Giordano Bruno, maestro d'anarchia (Saletta dell'Uva, Caserta, 2016, pp. 118, € 10,00).
Vive un XVI «secolo confusissimo», Bruno - come spiega bene Masullo - d'enormi sconvolgimenti: la scoperta dell'America, la conseguente rivoluzione dei prezzi in Europa, la riforma protestante, la formazione delle monarchie nazionali sulle ceneri del dissolto regime feudale, l'imporsi di spiazzanti scoperte scientifiche, che inaugurano peraltro un nuovo metodo e una nuova logica, sperimentale, nel fare ricerca.
È un tempo di crisi che produce sopraffazione e violenza, denuncia Bruno in diverse sue opere (nel suo Spaccio della bestia trionfante, nella Cena delle ceneri, ne L'asino cillenico, etc.), dove critica aspramente la forzata sottomissione dei selvaggi d'America ai ‘civilizzati' conquistatori europei e i cruenti e sanguinari contrasti confessionali in ragione della difesa o della messa in discussione del monopolio del cristianesimo da parte della chiesa cattolica. Ma nel suo “mondo rinversato”, nella società del suo tempo che gli pare abbia rovesciato i veri e buoni valori, Bruno scorge segni e movimenti d'idee moderne e profetiche d'un possibile cambiamento e organicamente vi si inserisce, come acutamente documenta Masullo nel suo libro, facendosi interprete e promotore della pace come ideale assoluto, della ragione come guida sicura, delle leggi come strumenti atti a rendere possibile “la pacifica convivenza e la libertà del comunicare”; leggi che devono essere basate, ovunque, sulla salvaguardia imprescindibile e obbligatoria di quei ‘diritti universali' che sostanziano e caratterizzano gli uomini prima delle loro etnie, storie, culture. Lucidamente consapevole che, dopo la conquista dell'America, l' Europa s'apprestava a dar vita ad un dominio coloniale vasto e duraturo che avrebbe creato sfruttamento e disuguaglianze tra gli uomini, Bruno, difensore dei diritti naturali di ogni uomo, che devono essere preservati e rispettati in qualsivoglia condizione storico-sociale, ci appare, come fa notare giustamente Masullo, “nel suo tempo, un compagno del nostro tempo”, del nostro presente, nel quale aleggiano diffidenze e intolleranze verso le ‘diversità', che sempre più spesso diventano vero e proprio razzismo.
Ma ancor di più, Masullo - filosofo di vaglia, autore di importanti saggi, intellettuale meridionale da sempre partecipe nella vita politica e pubblica - con un'avvincente disamina della vicenda di Bruno, filosofo di Nola, che fu vittima, come è noto, dell'opprimente e terribile Inquisizione, rintraccia nei nuclei principali della sua filosofia, cioè “l'idea cosmologica e il principio etico” i motivi fondanti “della modernità politica e della forma democratica dell'ordine civile”.
“La filosofia di Bruno” afferma Masullo “secondo cui ogni luogo dell'infinito universo è centro, e ogni uomo, in quanto vita di ragione, dunque libero, ha pari dignità con ogni altro, è la base speculativa dell'idea politica della democrazia”.
“Per lui” continua Masullo “ogni individuo umano, in quanto centro irriducibile tra infiniti centri irriducibili, con cui non può non essere sempre aperto a comunicare, è portatore di responsabilità piena. Ma proprio perciò nessun capo è assoluto. L'ordine umano è anarchico”.

Silvestro Livolsi


Antifascismo/
Gli Arditi del Popolo della “ribelle irriducibile Civitavecchia”

La lotta antifascista a Civitavecchia [...] Molti lavoratori edotti del fatto si recavano dinanzi la sede del fascio protestando e chiedendo la liberazione del loro compagno. Ne nacque un corpo a corpo violento con scambio di bastonate e revolverate e lo scoppio di una bomba che frantumava i vetri del locale fascista”. («Umanità Nova», 14 ottobre 1922).

Contrastare le squadre di Mussolini, fin da subito e manu militari, erano gli intenti generosi di quel movimento che aveva ereditato, certo in forma spuria, il cameratismo di trincea. Nell'arditismo popolare si era in parte ricomposta la frattura della guerra con la convergenza strategica nelle formazioni militarizzate sia di ex interventisti divenuti anti-mussoliniani, sia di antimilitaristi libertari e anarchici.
A Civitavecchia oltre seicento Arditi del popolo (portuali, cementieri, ferrovieri, operai e artigiani di varie tendenze politiche e ideali) opposero in armi strenua resistenza fino al terribile ottobre 1922. Il “fascio spezzato” (scure che frantuma il simbolo littorio) era ricamato sulle bandiere di quei primi combattenti proletari, in contrapposizione al tricolore nazionale sempre usato dagli squadristi.
Lo Stato, la guerra, il lavoro industriale e la Nazione: il sistema valoriale del Novecento ha racchiuso tutto il suo potenziale totalitario e tossico in questi poli ideologici. Il nazionalismo, fenomeno strutturale, profondo e di lunga durata nelle società occidentali, ha via via riformulato e aggiornato le proprie prassi superando le apparenti sconfitte e marcando impensate continuità perfino nelle cesure più decisive dell'ultimo secolo. Così le declinazioni istituzionali e, appunto, la dimensione “nazionale” hanno pervaso ogni possibile rappresentazione sovversiva e antifascista. Così l'opposizione armata al primo fascismo in Italia è stata, e per troppo tempo, una pagina volutamente dimenticata in quanto non conforme, episodio rimosso della storia proletaria e internazionalista.
Questo libro (Enrico Ciancarini, il fascio spezzato. Gli arditi del popolo nella “ribelle irriducibile Civitavecchia”. 19 maggio 1921 – 28 ottobre 1922, Red Star Press, Roma, 2016, pp. 172, € 15,00) ci espone, in forma di incalzanti cronache quotidiane e con ritmi narrativi da fiction, diciassette mesi di guerra civile nella città portuale laziale – durante il cosiddetto “Biennio nero” – in uno dei luoghi mitici dell'arditismo popolare, insieme a Parma, Bari, Sarzana.
L'autore Enrico Ciancarini (classe 1965), presidente della Società storica civitavecchiese, serio e affermato studioso, prolifico storico locale (nell'accezione nobile e antica del termine), confida ai lettori: “fino al 1997 non sapevo nulla degli arditi del popolo e della loro attiva presenza a Civitavecchia, la mia città natale” (p. 27). L'affermazione, onesta, è l'ennesima riprova di come certe vicende salienti novecentesche, e quelle in particolare dell'antifascismo, siano state trasmesse e trattate solo superficialmente nei vari passaggi generazionali. Nel secondo dopoguerra i partiti, fattisi imprenditori politici della memoria, hanno di fatto prestabilito metodi e “luoghi” deputati alla ricerca contemporaneistica, hanno a lungo e con protervia presidiato le scienze storiche (con somma ignoranza e autoreferenzialità), quasi paventassero imminenti invasioni di alieni.
A tale proposito il racconto di come sia nata l'idea di questa pubblicazione è chiarificatore, avvincente al pari del contenuto vero e proprio del volume. In assenza dunque di un'affidabile e consolidata storiografia locale su un tema così peculiare, l'autore ha tratto ispirazione dai lavori di due precursori: Marco Rossi e Eros Francescangeli, quest'ultimo fra l'altro autore di una suggestiva prefazione a questo stesso volume. L'interessamento in ambito locale per i risultati delle prime ricerche effettuate dallo stesso Ciancarini ha portato, nel 2013, all'intitolazione di una strada agli Arditi del popolo proprio nel centro storico di Civitavecchia; tappa intermedia verso una definitiva ricostruzione di una bella memoria popolare.
Lo studio – che purtroppo non si avvale di note a piè di pagina – è basato su due formidabili tipologie di fonti: le carte di polizia e le cronache del quotidiano anarchico «Umanità Nova» (redatte da un puntuale e misconosciuto corrispondente, Augusto Milo, a cui l'autore rende giustamente onore e merito). L'incrocio intelligente di informazioni siffatte, provenienti da attori protagonisti che hanno avuto ruoli opposti sullo scenario dell'allora incipiente guerriglia sociale, ci fornisce una narrazione leggendaria e verosimile al tempo stesso di quei fatti. Sconfitto l'arditismo popolare, nei decenni successivi il regime mussoliniano esaltò le imprese del primo squadrismo fascista dopo che i tribunali avevano fatto largo uso della vendetta politica per saldare i conti sociali rimasti aperti. Nel secondo dopoguerra poi la memoria di quell'antifascismo armato rimase invece vittima del revisionismo storiografico di destra e di sinistra, di un uso pubblico della storia unicamente finalizzato al meschino agone partitico.
Le ombre di tanti sovversivi dimenticati, persi nei gorghi della guerra civile, rivivono oggi anche grazie a questo studio, bello e “ardito”, di Enrico Ciancarini.

Giorgio Sacchetti


Mille pagine/
Vent'anni di controcultura

Dopo aver raccolto e conservato per oltre cinquant'anni il materiale documentario – e dopo aver invitato un'ampia gamma di testimoni a dire la loro –, Ignazio Maria Gallino, nella doppia veste di autore e di editore, pubblica un'opera monumentale dedicata al periodo 1965-1985 Vent'anni di controcultura (Milano, 2016, pp. 908, € 180,00). Si tratta di mille pagine che – scevre da interpretazioni – rendono giustizia ai tanti protagonisti dell'unico momento del secondo Novecento in cui la cultura vigente – nel suo senso più ampio, comprensivo degli stili di vita, del sapere, della manutenzione dei corpi e delle loro relazioni, degli oggetti d'uso e dei segni che caratterizzavano gli ambienti stessi – è stata sottoposta ad una critica radicale.
Due i punti delicati sui quali Gallino ha dovuto effettuare le sue scelte: la periodizzazione e la categorizzazione del punto di vista da cui guardare gli eventi. Per quel che concerne il primo problema, va detto che da qualche parte occorreva pur cominciare – e poi finire; è ovvio che la matrice di certi comportamenti vada ricercata ancora prima – si pensi alla “gioventù bruciata” degli anni Cinquanta, al rock, ai “giovani al doppio gin”, ai bluson noir, alla “nouvelle vague” ed all'evoluzione dei costumi sessuali postbellici -, ma è altrettanto ovvio che, nel proprio lavoro, uno storico deve pur porre delimitazioni. Forse, nel volume, una premessa in tal senso non sarebbe stata inutile.
Per quel che concerne l'uso del termine “controcultura”, anche qui, si tratta di capirsi. Da un lato, resta il fatto che la categorizzazione è già stata utilizzata in ambito di storiografia – per esempio da Pablo Echaurren e da Claudia Salaris – e, dall'altro, resta l'ampiezza della sua designazione – la cultura intesa come l'insieme delle pratiche con cui gli esseri umani risolvono i propri problemi. Che da ciò rimanga fuori gran parte dell'ambito multiforme e ricchissimo delle arti – fatto comunque da considerare – è la conseguenza di una scelta metodologica e, come tale, comprensibile.
Va da sé che a quei mutamenti abbiano contribuito non poco le avanguardie artistiche – letterarie, pittoriche, plastiche, musicali, cinematografiche, senza dimenticare il design -, ma va anche da sé che se quelle evoluzioni hanno potuto usufruire di fior di storiografia (e anche di fior di autorappresentazioni), non è il caso di quanto raccontato dalla miriade preziosa dei documenti raccolti da Gallino – mai cementati così per qualità e per quantità.

Oltre al sottoscritto, al volume hanno contribuito Alessandro Bertante, Italo Bertolasi, “Bifo”, Riccardo Bertoncelli, Guido Blumir, Franco Bolelli, Antonio Caronia, Gianni De Martino, Beppe De Sarlo, Pablo Echaurren, Matteo Guarnaccia, Gigi Marinoni, Giancarlo Mattia, Lea Meandri, Gianni Milano, Primo Moroni, Andrea Pasquino, Marco Philopat, Giorgio Pisani, Fernanda Pivano, Franco Quadri, Angelo Quattrocchi, Lidia Ravera, Edoardo Re, Marisa Rusconi, Franco Schirone, Andrea Sciarné, Clara Sestilli, Gianni E. Simonetti, Vincenzo Sparagna, Myriam Sumbulovich e Andrea Valcarenghi.

Felice Accame



“A”/
Noi della redazione diamo i numeri

Da molti anni abbiamo un sito – arivista.org – giudicato con forte polarità. Molti lo ritengono statico, noioso, per niente interattivo, a volte difficile da usare per gli acquisti, ecc. Altri lo giudicano chiaro, ne apprezzano l'an-archivio e la doppia possibilità di scaricare gratis qualsiasi numero di “A” e di poter fare ricerche per nomi all'interno di tutti i 414 numeri finora usciti. Preannunciamo qualche simpatica novità e miglioramento, alla quale stiamo lavorando.
Dal punto di vista della fruizione, gli “accessi unici” al nostro sito (cioè le visits) negli ultimi 12 mesi sono passati da 25.000 a 40.000 al mese. Significa che sono quasi raddoppiate le persone che raggiungono il nostro sito, vi entrano e leggono almeno qualcosa: da 1.000 a 1.300 accessi medi al giorno, con punte di 2.000. Si tratta di persone tra loro, nel corso di una giornata, diverse.
Abbiamo dato un'occhiata – per curiosità – ai dati Audiweb relativi a periodici ben più noti di noi, carichi di pubblicità (che noi non ospitiamo) e di finanziamenti o comunque agevolazioni pubbliche (di cui noi non godiamo), e li abbiamo visti più “avanti” di noi, ma non in maniera così significativa.
Un altro indice di miglioramento lo abbiamo riscontrato nel numero degli abbonati cartacei e delle copie spedite agli individui, collettivi, centri sociali, gruppi anarchici diffusori, botteghe del commercio equo e solidale. Niente di travolgente, ma “A” negli ultimi mesi ha cominciato a crescere.
Diamo qui qualche ulteriore numero, per chiarire le nostre “dimensioni”. Mensilmente stampiamo da 4.300 a 4.500 copie, due terzi delle quali consideriamo vendute (il calcolo è necessariamente presuntivo, perché gran parte dei diffusori non ci segnala il dettaglio delle vendite). Gli abbonati si avvicinano al migliaio, tra italiani ed esteri: con una lenta tendenza all'aumento
E intanto, tornando alla rivista online, su twitter ci seguono oltre 3.400 follower. Che crescono in continuazione. Una pagina twitter asciutta e non invasiva, la nostra. Secondo un nostro stile non-gridato, che è una precisa scelta in questo mondo di superficialità, prepotenza e scompostezza.