Lo spirito di Cavallo Pazzo
La solidarietà con le lotte contro un oleodotto che rischia di inquinare il fiume Missouri, la pluridecennale vicenda giudiziaria dell' indiano Leonard Peltier, sullo sfondo le condizioni in cui vengono costretti i Sioux e le altre popolazioni native. Il tutto visto attraverso una piccola manifestazione pubblica a New York. Piccola ma significativa.
Tanto più ora che Trump ha deciso di sbloccare i lavori
di costruzione dell'oleodotto.
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Un manifesto con la scritta “solidarietà con i sioux di Standing Rock” |
Tutte le foto pubblicate sono tratte da una manifestazione
tenutasi a New York, Washington Square, nel settembre 2016,
in solidarietà con la lotta dei sioux di Standing Rock
contro il Dakota Access Pipe Line – DAPL.
Conosci Leonard Peltier?
Una domenica di fine settembre, a Washington Square, nel cuore
di New York, una signora non più giovanissima mi ha rivolto
questa domanda. Aveva appeso la sua mercanzia, fatta di spillette
a tema politico, su due rudimentali pannelli e l'aveva sistemata
nel cuore di una piccola manifestazione di solidarietà
con i sioux di Standing Rock, la riserva al confine fra Sud
e Nord Dakota dove riposano le spoglie di Toro Seduto; il luogo
dove, si racconta, vola ancora lo spirito di Cavallo Pazzo.
Mi chiese di Peltier vedendomi interessato a certe sue spilette,
perché qui non sono in tanti a conoscere la sua storia.
Quella storia, invece, io la conoscevo: la vicenda di un sioux
condannato senza prove per l'omicidio di due agenti federali,
chiuso in carcere oltre quarant'anni fa, dopo un processo rivelatosi
in seguito una farsa macchinata dall'FBI; un attivista per i
diritti dei nativi a cui nessun presidente americano ha voluto
concedere la grazia e nessun giudice un'agevolazione del regime
carcerario, un detenuto modello, ormai vecchio e malato, a cui
è stato vietato persino di presenziare al funerale di
un figlio. Una delle tante pagine vergognose della storia recente
degli Stati Uniti.1
Quel giorno ci eravamo dati appuntamento sotto l'incongruo arco
di trionfo sistemato fra i giardini di una piazza di Manhattan,
per una manifestazione di solidarietà con i Water
Protectors, i protettori dell'acqua, i sioux che avevano
occupato alcuni terreni a sud della riserva, per impedire il
passaggio sulle loro terre del DAPL, il Dakota Access Pipe
Line2, un oleodotto che minaccia
d'inquinare il fiume Missouri, unica risorsa idrica dell'area,
e il cui tracciato prevede il passaggio attraverso luoghi considerati
sacri dai nativi3.
Sicuro che conosco Leonard Peltier! Ho risposto.
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Il gruppo dei quaccheri. Nei cartelli scritti a mano si legge: “Perchè stanno cercando di guidare il pianeta verso il baratro” e “Rispettate il sacro, no al DAPL” |
La venditrice di spillette
Sono sempre stato dalla parte degli indiani, forse è
nel mio dna, forse è per l'educazione ricevuta, gli incontri
fortunati, le letture giuste. A quindici anni avevo letto Seppellite
il mio cuore a Wounded Knee, il classico di Dee Brown, uno
sconosciuto bibliotecario divenuto famoso, con grande onta degli
accademici, per aver raccontato la vera storia della conquista
del West, l'epopea che ha visto gli Stati Uniti annettersi vastissimi
territori in meno di trent'anni. Una storia vista però
dalla parte degli indiani delle grandi praterie, con lo sguardo
di chi a ovest ci viveva e guardava con rabbia e disperazione
orde di barbari calare da est, avidi di terra, oro e minerali.
A vent'anni avevo visto Soldato Blu. A ventidue avevo
ascoltato Fabrizio De André raccontare, con un brivido
di delicata poesia e quella sua voce evocativa da sciamano,
il massacro degli cheyenne di Black Kettle sul Sand Creek.
Ma ancora prima di tutto questo, quando avevo appena dodici
anni, avevo seguito con passione la cronaca dell'assedio di
Wounded Knee: nella primavera del 1973 quel luogo immensamente
simbolico4 era stato occupato
dai ribelli, male armati ma decisi, dell'American Indian Movement
e un assortimento di indiani di sessantaquattro diversi gruppi
tribali tenne in scacco per oltre due mesi il governo federale,
reclamando rispetto dei trattati, sovranità e diritti
civili. Quando tutto fu finito e i pochi morti seppelliti, proprio
nei pressi della fossa comune dove riposano le spoglie dei minneconjou
di Piede Grosso, ancora una volta gli indiani furono ingannati
dalle false promesse dei visi pallidi5.
La venditrice di spillette mi ha risposto senza stupore: “è
più conosciuto all'estero che qui da noi, eppure Peltier
è il più importante prigioniero politico degli
Stati Uniti”. Io sì, mi sono stupito, perché
non si incontra spesso un americano che ammetta l'esistenza
di prigionieri politici nel suo paese, un'affermazione che riempirebbe
di indignazione la maggior parte dei suoi concittadini.
Mentre parlavo con lei mi guardavo attorno: poca gente, pochissimi
giovani, ma tanto entusiasmo. Canti e cori intervallati da slogan
gentili. Quaccheri, studenti di psicologia, attivisti di varie
associazioni e veri indiani se ne stavano lì, fianco
a fianco, determinati e allegri. Quella gente sapeva che i nativi
di Standing Rock, lottando per la loro dignità, per la
libertà, per una sovranità ancora una volta violata,
stavano lottando anche per il futuro di tutti noi, contro l'arroganza
del potere, gli affaristi, le banche, le multinazionali, i politicanti
corrotti e il maledetto, dissennato modello di sviluppo che
sta spingendo il pianeta verso il baratro: davvero un grande
impegno per un piccolo popolo, che appena un secolo indietro
era stato quasi cancellato dalla storia. Una bella storia, che
in quel giorno di settembre faceva avvertire un senso di fratellanza
a persone i cui destini difficilmente si sarebbero in altro
modo incrociati.
Sono rimasto un po' a parlare con quella donna: sembrava uscita
da un'altra epoca, mi raccontava di aver trascorso qualche tempo
con gli indiani, in una riserva. Ne parlava come si fosse trattato
di un altro paese, o di un altro mondo e io pensavo come fosse
assurdo che ancora esistano, le riserve, un universo concentrazionario
architettato dal governo degli Stati Uniti come soluzione finale
alle guerre indiane.
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Attivisti della campagna per la liberazione di Leonard Peltier |
Ancora una volta, i Sioux
La manifestazione si è sciolta dopo qualche ora, senza
drammi. Gli striscioni sono stati riposti e ciascuno è
andato per la sua strada. Ho salutato la signora delle spillette
e nel cuore mi è cresciuta la tristezza: mi pareva che
tutto quello fosse stato bello, ma inutile; che i nativi fossero
impegnati in una lotta impari e senza speranza; che quella manifestazione
fosse stata poco più che simbolica e che in fondo dei
sioux non importasse nulla a nessuno.
Andando verso casa certe letture giovanili sono affiorate alla
mente. Da ragazzo la storia dei sioux mi aveva affascinato:
nel XIX secolo avevano condotto una resistenza coraggiosa unendo
altre tribù nell'impegno comune di fermare l'invasore.
Nuvola Rossa aveva ricacciato l'esercito costringendolo a una
pace umiliante. Toro Seduto aveva battuto sul terreno le più
numerose e meglio armate giacche blu, preferendo alla fine l'esilio
alla riserva. Cavallo Pazzo aveva guidato i suoi a memorabili
vittorie e rifiutato ogni compromesso. Quei guerrieri non furono
sconfitti sul campo ma fermati dal dolore di vedere il proprio
popolo morire di stenti e assassinati poi a tradimento, come
accadde a Toro Seduto e a Cavallo Pazzo. Mi colpisce che oggi
siano ancora una volta loro, i sioux, a guidare la rivolta.
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Manifesto con la scritta “fermiamo il Dakota Access Pipeline” |
Quei nativi accampati per fermare le ruspe mi hanno ricordato
i “nostri” resistenti: i no TAV, no MUOS, no Dal
Molin; i nostri indiani piemontesi, siciliani, veneti, che difendono
le loro terre da politiche dissennate. Sarebbe bello trovare
il modo di collegare tutte queste lotte, queste aree libere,
questi piccoli popoli resistenti. Disegnare una linea ideale
di amicizia e solidarietà fra Standing Rock e la val
di Susa.
A molti americani, invece, questa lotta di nativi del XXI secolo
ha ricordato i fatti di Wounded Knee della primavera del 1973.
Ma le differenze con quegli avvenimenti sono, a mio parere,
determinanti: quella ribellione nacque fra indiani urbanizzati
e politicizzati, spesso in polemica con i cosiddetti “tradizionali”
che vivono nelle riserve; fu una rivolta senza chiari obiettivi
e priva di una struttura decisionale. Dalle improvvisate trincee
di Wounded Knee gli indiani si difesero a colpi di fucile e
le sparatorie furono frequenti.
Il movimento di Standing Rock, invece, è nato dentro
la riserva, con il sostegno e l'incoraggiamento degli anziani
che hanno fornito un'autorevole leadership, garantendo organizzazione,
disciplina, rispetto delle decisioni. Questa volta le armi hanno
tuonato da una parte sola: i nativi hanno scelto la strada della
nonviolenza e gli anziani hanno percorso incessantemente gli
accampamenti per esortare i giovani a non rispondere mai con
la violenza, neanche alle provocazioni più gravi. Sono
caratteristiche nuove, che hanno consentito alla protesta di
crescere e guadagnarsi il rispetto e l'ammirazione di tanti
americani. Infatti quella di Washington Square non è
stata che la prima di tante altre manifestazioni. La solidarietà
è cresciuta di pari passo con la repressione e i fatti
di Standing Rock hanno avuto un'eco inaspettata, risvegliato
le coscienze, spinto alla partecipazione.
L'occupazione nata in estate con poche decine di sioux, in autunno
era divenuta un grande accampamento di oltre quindicimila persone:
nativi di molte diverse tribù ma anche tanti visi pallidi,
arrivati da ogni angolo del paese, uniti sotto la guida dei
pronipoti di Toro Seduto e Cavallo Pazzo. La pianura si è
riempita di teepee, risate, giochi e calore, facendo montare
la rabbia degli speculatori, spaventati dalla prospettiva di
perdere lucrosi guadagni. Il consorzio che ha l'appalto per
la costruzione del DAPL non ha esitato a mettere in campo agenti
federali e forze di sicurezza private per forzare lo sgombero
e riprendere i lavori. Pallottole di gomma, cani d'assalto e
granate stordendi hanno fatto parte del triste armamentario
della repressione e i manifestanti sono stati colpiti brutalmente
dai getti freddi degli idranti quando ormai l'inverno aveva
portato il gelo e imbiancato la pianura coi primi fiocchi di
neve. Gli ambulatori da campo si sono riempiti di feriti e di
gente a rischio congelamento. Ma l'accampamento ha resistito.
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Col pugno alzato davanti all'arco di trionfo in solidietà con i sioux: “Rispettiamo i popoli indigeni e la madre terra. Acqua=vita” |
La presenza dei veterani
Un filmato dei feroci attacchi contro i pacifici dimostranti
è stato diffuso da Democracy Now,6
suscitando un'ondata di indignazione: a molti quelle immagini
hanno ricordato la brutale repressione della polizia dell'Alabama
contro i cortei antisegregazionisti degli anni sessanta e il
movimento di solidarietà ha risposto con una escalation
di azioni nonviolente: manifestazioni estemporanee, flash mob
nelle sedi del consorzio di costruzione del DAPL, boicottaggio
delle banche che finanziano il progetto, siti istituzionali
sommersi da messaggi, autoaccuse di migliaia sui social network
per confondere gli investigatori a caccia di resistenti sul
web.
Sul mio cellulare le convocazioni last minute di manifestazioni
anti DAPL a New York sono andate moltiplicandosi con appuntamenti
veloci e improvvisi cambiamenti di programma, sempre con la
stessa sottolineatura: “se non siete pronti a manifestare
in maniera nonviolenta, non venite”. Dietro questo movimento
spontaneo nessuna etichetta politica, nessuna apparente leadership:
i capi ideali di questa piccola rivolta erano ancora accampati
sul ghiaccio, a 1700 miglia di distanza.
Erano i coraggiosi sioux di Standing Rock, gli abitanti della
contea più povera degli Stati Uniti.7
All'inizio di dicembre, quando le forze della repressione si
stavano preparando a sferrare l'attacco finale per sgomberare
l'occupazione, è accaduto un piccolo miracolo yankee
che mi ha lasciato di stucco: in risposta a un appello cinquemila
ex militari si sono messi in viaggio, hanno raggiunto Standing
Rock, si sono schierati a fare scudo, hanno rafforzato i punti
deboli dell'accampamento. I veterani erano lì per difendere
il diritto dei sioux a proteggere la loro terra. Le ragioni
di questa mobilitazione le ha spiegate in un post l'ex marine
Halim Nurdir: “Siamo qui per difendere la libertà
di espressione, il diritto a manifestare pacificamente. Qui
abbiamo gente attaccata brutalmente a cui viene chiesto di azzittirsi.
Quando sono entrato nell'esercito ho giurato di difendere l'America
da ogni minaccia, esterna ed interna. Usare idranti in pieno
inverno, lanciare granate stordenti e lacrimogeni su pacifici
manifestanti: a me pare che tutto questo rappresenti una minaccia”.
La partecipazione degli ex militari è stata decisiva.
Lo sgombero non c'è stato, perché i veterani godono
di grande rispetto e colpirli avrebbe provocato uno scandalo
nazionale. Due giorni dopo il loro arrivo il genio militare
ha revocato i permessi di attraversamento nel territorio della
riserva e il consorzio ha dovuto annunciare, suo malgrado, la
modifica del tracciato. Una vittoria insperata, come se la TAV
fosse stata revocata, il MUOS smantellato, la base Dal Molin
chiusa.
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Una ragazza indigena esibisce un dipinto con la scritta “Lo possiamo siuxare”, un verbo creato per l'occasione e un gioco di parole tra “siuox” e “sue” (citare in giudizio) che hanno la stessa pronuncia |
I veterani sono ritornati alle loro case e i camion antisommossa
sono rientrati nelle caserme, ma un presidio di water protectors
è rimasto a vigilare, perché i sioux non si fidavano:
in passato i visi pallidi hanno fatto molte promesse e firmato
tanti trattati, ma li hanno sempre traditi.
Il tradimento è arrivato, infatti, puntale, con l'ascesa
al potere di Donald Trump. Uno dei suoi primi atti da presidente
è stato l'ordine esecutivo per far ripartire i lavori
del DAPL, con l'imposizione al genio militare di rilasciare
le autorizzazioni. La polizia del Sud Dakota è stata
dotata di maggiori poteri e le pene per i resistenti sono state
inasprite. Alla fine di febbraio i sioux hanno ceduto, per evitare
lo scontro. Lo hanno fatto soprattutto per proteggere i simpatizzanti,
quei sostenitori giunti da fuori che per molte settimane hanno
condiviso con loro la vita nelle difficili condizioni dell'accampamento.
Non hanno voluto che subissero la violenza della polizia e dure
sentenze negli inevitabili processi. Dopo otto mesi di resistenza
è finita l'occupazione, ma la lotta continua con altri
mezzi.
A dispetto del finale triste, questa storia ha scosso un certo
mio pessimismo, risvegliando la speranza: anche nel paese più
forte, anche quando la repressione è immensa, un piccolo
popolo che combatte per la dignità e la libertà
può cambiare le cose. “Freedom is a constant struggle”,
ha detto recentemente Angela Davis,8
che invita a non credere in singole figure eroiche ma nella
forza dell'impegno collettivo. E la campagna contro il DAPL
si è caratterizzata anche per il suo carattere comunitario:
nessuna personalità è emersa, nessun portavoce,
i sioux di Standing Rock sono una collettività in lotta
e hanno dimostrato che nulla è immobile e cambiare direzione
è possibile.
Crudele vendetta contro l'indiano ribelle
È difficile prevedere se questo movimento si spegnerà
o fiorirà. Qualche lieve segnale di speranza c'è:
il DAPL non è l'unico oleodotto che rischia di distruggere
l'ambiente e già altri tracciati sono sotto accusa, nuove
proteste all'orizzonte. Il fracking9
sta sconvolgendo l'America e non tutti sono disposti a restare
a guardare in nome di una illusoria indipendenza energetica.
Se son rose fioriranno.
Dalla sua cella, in un carcere federale di massima sicurezza, Leonard Peltier ha incoraggiato e sostenuto questa lotta. Ma resta prigioniero: Obama non ha firmato quella grazia che migliaia di cittadini hanno chiesto a gran voce. Lo stato vuole portare a termine la sua crudele vendetta contro l'indiano ribelle. Peltier aveva chiesto solo di poter morire nella sua terra, fra la sua gente. In attesa di notizie sul suo destino aveva scritto ai suoi sostenitori: “Se non avrò clemenza mi farò un pianto in cella, poi mi tirerò su e continuerò a lottare fino a quando ne avrò la forza. Non temete: dopo oltre quarant'anni posso affrontare qualsiasi cosa”. Le sue lettere dal carcere le conclude sempre con queste parole: In the spirit of Crazy Horse.
Di Cavallo Pazzo non esiste alcuna immagine, nessun possibile “santino”: nella sua breve vita egli rifiutò risolutamente di farsi fotografare o dipingere. Dove sia sepolto nessuno lo sa. Ma il ricordo si conserva nel cuore di molti, perché non si arrese mai alla prepotenza dell'invasore. Dove vola il suo spirito è bello stare. Nel suo spirito la lotta dei sioux continua.
Santo Barezini
- I retroscena del caso Peltier sono stati rivelati da Peter
Matthiessen nel suo monumentale libro/inchiesta: “In
the Spirit of Crazy Horse”, pubblicato nel 1983 col
sottotitolo: “la storia di Leonard Peltier e della guerra
dell'FBI contro l'American Indian Movement”. Sulle campagne
per la liberazione di Peltier si veda freepeltier.org
e whoisleonardpeltier.info.
- L'oleodotto in costruzione, gestito da un consorzio miliardario,
sarà lungo 1172 miglia, destinato a trasportare petrolio
dal confine settentrionale del Nord Dakota fino ai porti sul
fiume Missouri, nell'Illinois.
- In alternativa a “nativi” userò spesso
qui “indiani”, per intendere le popolazioni che
abitavano l'America del Nord all'arrivo di Colombo. La scelta
può lasciare perplessi e anche indignare qualcuno ma,
di fatto, il termine è ormai nell'uso comune degli
stessi nativi e viene utilizzato anche per rivendicare la
propria appartenenza alle nazioni originarie e distinguersi,
culturalmente, etnicamente e politicamente, dagli invasori,
cioé da tutti gli altri cittadini degli Stati Uniti.
Del resto la più forte organizzazione politica mai
fondata dai nativi è stato appunto l'American Indian
Movement. Con lo stesso criterio parlo qui di sioux anziché
utilizzare i più corretti “lakota” e “dakota”
perché questi ultimi, suddivisi in molti sottogruppi
e bande (minneconjou, oglala, hunkpapa, ecc.) oggi si riconoscono
essi stessi, collettivamente, come sioux.
- Il 29 dicembre 1890, 15 giorni dopo l'assassinio di Toro
Seduto, i sioux minneconjou di Piede Grosso, completamente
disarmati, vennero massacrati dall'esercito a Wounded Knee.
Oltre 300 bambini, donne e uomini morirono sotto il fuoco
indiscriminato e inutile dei militari o per congelamento,
nelle ore successive alla carneficina, feriti e abbandonati
nella neve in mezzo a una tempesta. Fu l'ultimo grande massacro
delle guerre indiane.
- L'assedio di Wounded Knee da parte dei federali e di milizie
irregolari durò dal 28 febbraio al 9 maggio 1973. Le
varie promesse fatte dalla Casa Bianca per far cessare la
rivolta, come da tradizione, furono disattese. Nessuna vera
inchiesta venne avviata sui fatti e oltre 500 indiani finirono
sotto processo.
- Vedi democracynow.org.
- Secondo l'istituto federale di statistica.
- “La libertà è una continua lotta”.
Angela Davis (1944), ostracizzata, perseguitata e ingiustamente
incriminata negli anni Sessanta per l'impegno nelle Black
Panthers e l'affiliazione al Partito Comunista, è ancora
oggi attiva, impegnata in vari campi, sostenendo tra l'altro
la necessità di abolire l'istituzione carceraria.
- La devastante tecnica utilizzata per rompere strati rocciosi
e portare in superficie depositi sotterranei di petrolio,
oli minerali e gas. Nello stato di New York, ispirata alla
lotta di Standing Rock, sta prendendo forza la protesta contro
un altro oleodotto in costruzione.
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