Israele e i palestinesi/ I
rigurgiti antisemiti e le parole malate a sinistra
Arrivederci padre o forse addio: era mio nonno il vero padre
mio, cancellato come un numero dalla lista delle spese, ma così
tanto più grande delle offese: questi sono alcuni
versi del famoso brano “Shalom” pubblicato da Roberto
Vecchioni, nel 2002, all'interno dell'album “Il lanciatore
di coltelli”.
Quando lo ascoltai per la prima volta provai una sorta di sollievo.
Il cantautore brianzolo era riuscito, da vero poeta, ad esprimere
in poche parole un disagio che non era solo mio, ma che da decenni
tormentava migliaia di militanti della sinistra cresciuti con
quei valori che valgono ancora: solidarietà, antifascismo,
libertà, fraternità, uguaglianza, democrazia.
Ascoltando Shalom ritornai indietro con la mente agli anni universitari,
alla Statale di Milano. Ricordo come se fosse oggi quando, avvolto
dalla kefiah, all'indomani del massacro di Sabra e Shatila,
(18 settembre 1982) mi recai in corteo con altri studenti di
agraria davanti al consolato israeliano. Quel massacro, e quelli
che seguirono nei decenni successivi, ci cambiarono dentro.
Ci chiedemmo chi fosse, in quei giorni, Davide e chi Golia.
Poi le intifade mostrarono al mondo, con grande evidenza, la
sproporzione delle forze in campo: ragazzini da una parte armati
di fionde e il quarto esercito più potente del mondo
dall'altra. Come Vecchioni ci chiedemmo, e ci chiediamo ancora,
se quelli di oggi sono gli eredi di coloro che, grazie ai giusti,
superarono il valico di Ventimiglia, vissero per mesi negli
scantinati delle abitazioni, fuggirono da sicura deportazione
nascosti nelle barche dei pescatori liguri.
Criticare i governi israeliani,
senza antisemitismo
Racconti “versati nelle nostre orecchie” sin da
bambini che ci fanno appartenere a quelle sofferenze. Se per
scelta di vita abbiamo deciso di stare dalla parte dei deboli,
dei sofferenti, degli ultimi così come accadde per il
popolo ebraico, non potemmo e non possiamo restare indifferenti
nei confronti della tragedia del popolo palestinese e sperare,
con tutte le nostre forze, che si affermi il loro diritto alla
terra e ad una vita dignitosa. Ecco perché bisogna continuare
a ricordare e ad esercitare il diritto di critica nei confronti
dei governi israeliani, senza sprofondare nell'antisemitismo,
lavorando per una riconciliazione tra i due popoli che paghi
i propri debiti nei confronti dei lutti ai quali entrambe le
comunità sembrano essersi abituate. Le memorie sono necessarie
perché mutano al mutare dei quadri sociali. I differenti
gruppi ricostruiscono il proprio passato adattandolo ai quadri
sociali del presente, cancellandone alcuni tratti e attivandone
altri, e nello stesso tempo progettano anche il proprio futuro.
In un momento in cui la tendenza di Israele a trasformarsi da
uno stato democratico ad uno dell'apartheid (vedi discriminazioni
dei palestinesi con cittadinanza israeliana) è purtroppo
reale, credo sia opportuno che gli uomini di sinistra esprimano
il proprio pensiero con parole chiare, precise, non malate di
ipocrisia o intrise di ideologia.
A chi non riconosce il diritto all'esistenza di Israele occorre
dire con chiarezza, soprattutto in questi periodi, che proprio
perché la politica guerrafondaia di Netanyahu ha fallito,
bisogna ribadire che non solo Israele ha diritto ad esistere
ma ha diritto a vivere in pace entro i confini stabiliti dagli
accordi di armistizio del 1949. Si può anche cancellare
artificialmente quello stato dai libri di testo, come hanno
fatto in molte scuole palestinesi, farlo sparire dalla carta
geografica ma la realtà incontrovertibile è un'altra:
gli uomini, le donne e i bambini israeliani, al contrario di
altri popoli del Medio Oriente, vivono in una democrazia parlamentare
i cui poteri costitutivi (legislativo, esecutivo e giudiziario)
garantiscono e tutelano i loro diritti.
Sono passati esattamente 50 anni dalla drammatica ed inaccettabile
occupazione della Palestina da parte dell'esercito israeliano
e l'associazione SISO (Save Israel, Stop the Occupation) ha
lanciato un appello “agli ebrei del mondo”. Cinquecento
tra intellettuali, politici, scienziati, attivisti per la pace,
ebrei israeliani: tra loro scrittori come David Grossman, Amos
Oz e Ronit Matalon, artisti come Noa e Amos Gitai, intellettuali
come Naomi Chazan e Daniel Bar-Tal, l'ex-leader laburista ed
ex-generale Amram Mitzna, l'ex-deputata ed ex-vicesindaco di
Tel Aviv Yael Dayan, il Premio Nobel Daniel Kahneman chiedono
di porre fine all'occupazione dei territori palestinesi.
Ritirandosi nei propri confini, Israele
potrebbe...
Ciò dimostra che la società israeliana è
complessa ed in continua evoluzione. Certi giudizi cristallizzati
o stracotte teorie complottiste, che iniziano ad albergare anche
a sinistra, non aiutano certo il processo di pace, soprattutto
se non si considera il contesto geo-politico in cui Israele
vive. Siria e Iran ad esempio sono due stati dove le minoranze
sono represse, poi vi sono altri stati dove le donne non hanno
diritto di voto. In molti regimi arabi alla donne è vietato
ricoprire incarichi politici o pubblici e/o non possono persino
guidare l'auto. Al contrario vivono nella terra dei profeti
punk, ebrei ortodossi, sionisti e antisionisti, gay, lesbiche
e trans, comunisti, anarchici, ambientalisti e, purtroppo, anche
gruppi neonazisti come raccontato più volte dal quotidiano
Yedioth Ahronoth. Da qualche decennio molti giovani israeliani
non rispettano lo Shabbat (il sabato ebraico) o la kasherut
(l'insieme di regole alimentari ebraiche), non frequentano la
sinagoga, lavorano nelle discoteche o nei pub anche di sabato
e nessuno è stato perseguito per questo. La religione
ha la sua importanza ma non limita la laicità.
Nella Knesset (il parlamento israeliano) sono rappresentate
molte delle componenti vive e vivaci della società israeliana.
I governi si alternano grazie al voto. Gran parte della cittadinanza
israeliana è stanca di vivere nell'insicurezza, desidera
la pace e lotta ogni giorno affinché il governo israeliano
ponga fine all'occupazione, alla costruzione di nuovi insediamenti
per i coloni, alle atrocità, alle persecuzioni, alle
violenze, alle umiliazioni quotidiane e riconosca i diritti
dei palestinesi perché questa è la precondizione
per ogni seria trattativa politica. Tutti sanno che i territori
sottratti ai palestinesi non servono a rafforzare le difese
di Israele, questo stato ha solo bisogno di pace non di altre
terre.
Ritirandosi nei propri confini Israele impedirebbe che le trattative
falliscano di nuovo, recupererebbe quella dignità morale
e legittimità democratica che oggi ha largamente smarrito
e potrebbe regalare ai cittadini residenti ed agli ebrei della
diaspora la speranza di un futuro di convivenza rispettosa e
pacifica tra i due popoli.
Angelo Pagliaro
Paola (Cs)
angelopagliaro@hotmail.com
Dibattito
orientalismo/Decolonizzare le narrazioni
È in corso da tempo un dibattito su “A”
sulla questione dell'atteggiamento di alcuni anarchici nei confronti
delle popolazioni indigene, in paesi coloniali.
Dopo un primo scritto di Costantino Paonessa (“A”
405, marzo 2016), lo stesso Paonessa è ritornato
sull'argomento in
“A” 417 (maggio 2017) con una contestuale risposta
di Giorgio Sacchetti che riportava anche uno stralcio di Laura
Galiàn.
Sullo scorso numero (“A”
417, giugno 2017) interventi di Pietro Di Paola, Laura Galiàn,
Costantino Paonessa e Giorgio Sacchetti.
Ora interviene Francesco De Lellis.
L'Islam non è un monolite. E i musulmani
non sono tutti uguali.
Leggere la moltitudine dei popoli e delle comunità di
religione islamica attraverso l'unica, semplicistica, lente
dell'oscurantismo e dell'arretratezza religiosa ci impedisce
di vedere i processi sociali in corso. In medio oriente non
c'è solo la lotta dei curdi del Rojava (belli perché
laici), ma una miriade di conflitti, soggettività e visioni
diverse. Molti di questi soggetti sono credenti. Non aspirano
alla nostra versione della modernità, spesso non si definiscono
anarchici, comunisti, socialisti. Ma nemmeno fanno della religione
o della “tribù” il loro riferimento politico.
Dal Marocco alla Tunisia, dall'Egitto alla Siria, sono in corso
processi rivoluzionari di lunga durata che mettono in discussione
l'assetto neoliberista, autoritario e patriarcale imposto nella
regione. Cercare di capirli senza paternalismo, senza l'idea
che vadano “illuminati” e guidati fuori dalla schiavitù
dell'ignoranza, è il primo passo per rendere giustizia
alle loro lotte e aspirazioni. E magari imparare anche qualcosa
da loro.
L'articolo di Costantino
Paonessa su “A” di maggio (“A” 416,
“E se ad essere razzisti e orientalisti sono gli anarchici?”),
ha aperto un interessante dibattito sull'atteggiamento sprezzante,
orientalista e spesso razzista degli anarchici italiani di inizio
ottocento in Egitto nei confronti della popolazione locale.
Fa male ammetterlo, ma certi atteggiamenti restano, e sono diffusi,
anche tra tanti compagni di oggi, anarchici e non.
Dopo aver letto l'articolo di Costantino sono andato a sfogliare
i vecchi numeri di “A”, per vedere come erano state
raccontate le cosiddette 'primavere arabe'. E nel numero di
giugno 2013 ho trovato la recensione di un libro pubblicato
da Elèuthera dal titolo Sfida laica all'Islam. La
religione contro la vita. Premesso che stimo tantissimo
sia “A” sia la casa editrice Elèuthera, leggere
l'introduzione al libro e gli stralci riportati mi ha fatto
rabbrividire. Gli autori usano gli stessi concetti e le stesse
argomentazioni della mai compianta Oriana Fallaci, che dedicò
gli ultimi anni della sua vita alla crociata contro l'Islam.
L'autore del libro, l'algerino Hamid Zanaz, nelle parole di
Michel Onfray che lo recensisce, afferma sostanzialmente che
“l'islam è intrinsecamente incompatibile con i
valori dell'Occidente” e considera una grande bufala l'idea
che possa esistere una “rilettura contestualizzata”
dell'Islam, l'idea cioè che l'Islam possa convivere con
valori di uguaglianza e libertà. E continua, con uno
dei più triti argomenti del colonialismo: “in terra
non occidentale l'individuo non esiste, contano solamente la
tribù, la comunità, il gruppo”. E mette
in guardia (come farebbe qualunque Salvini di turno) dall'avanzata
dell'Islam in Europa, dall'islamizzazione già in corso
dell'Occidente.
Ma non si tratta di un risveglio improvviso
Applicata a una lettura delle rivolte scoppiate nel 2010-2011
nel mondo arabo, l'analisi di Zanaz lo porta ad affermare qualcosa
che ci capita spesso di sentire ultimamente, e cioè che
in fondo era prevedibile che le rivolte facessero questa fine,
“gli islamisti dominavano già la piazza”
dall'inizio. E continua con un'altra sconcertante verità:
“Perché gli islamisti trionfano? Perché
nuotano in tutte le società arabe come pesci nell'acqua.
A dire il vero, se non fosse per la barba e il velo, sarebbe
molto difficile individuare le differenze tra 'musulmani' e
'islamisti'”. Insomma, “la relazione tra islam ed
estremismo” è per lui “intrinseca”.
La fede nella religione determina meccanicamente l'adesione
a una ideologia oscurantista legata al Corano e ai testi sacri
dell'Islam, e quindi crea terreno fertile, sempre, per i militanti
cosiddetti estremisti. Essere musulmani insomma (“di nascita
o musulmani etnici, credenti o meno,” dice Zanaz) implica
necessariamente credere a una soluzione 'islamica' e 'barbuta'.
Eppure
i milioni di persone scesi in piazza a sfidare alcuni dei regimi
più feroci del mondo nella maggior parte dei casi non
avevano (e non hanno) l'Islam nelle loro parole d'ordine. Giustizia
sociale, uguaglianza, dignità, pane, lotta alla corruzione
e agli abusi degli apparati di polizia, allo strapotere dell'esercito:
queste sono le parole che echeggiano ancora nelle piazze delle
grandi metropoli così come nelle regioni remote e marginalizzate.
E non solo negli slogan, ma nelle pratiche vissute di lotta
questi movimenti hanno realmente abbattuto le gerarchie e le
barriere costituite, comprese quelle di genere. E non si tratta
di un risveglio improvviso, scaturito da una provvidenziale
presa di coscienza (magari nata da Facebook). Solo chi negli
ultimi decenni non ha saputo o voluto guardare a quello che
succedeva sull'altra sponda del Mediterraneo può ritrovarsi
sorpreso dalle esplosioni di piazza del 2010-2011, e quelle
successive, che continuano fino a oggi.
In molti casi si tratta di credenti, musulmani, a volte cristiani,
che non hanno mai pensato come incompatibili le loro aspirazioni
di libertà e la loro identità e fede religiosa.
Penso alle tremila operaie di Mahalla al-Kubra nel Delta del
Nilo che a dicembre 2006 iniziano uno sciopero trascinando con
sé tutto il settore del tessile ed inaugurando una stagione
di lotte senza precedenti nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro
in Egitto. Nessuno all'epoca ha pensato a dire a quelle operaie
che loro erano musulmane e che dovevano obbedire ai mariti invece
che scatenare uno sciopero? E penso alle lotte del Rif marocchino,
che proprio in questi giorni (mentre scrivo) sono arrivate a
travolgere anche la capitale Rabat. O le mobilitazioni nel sud
della Tunisia che resta in perenne fermento. Penso ai tanti
modi praticati e pensati di essere donne e musulmane, ai tanti
'femminismi' possibili (come li definisce Sara Borrillo, ricercatrice,
in un suo recente libro). Sono donne e uomini, sono berberi
e arabi, musulmani praticanti e non, insieme. E promettono nuove
mobilitazioni per rivendicare la dignità di cittadini
e chiedere la fine del sistema di ingiustizia che li affama
e li esclude.
Musulmani contro musulmani, su opposte
barricate
È vero, una componente di queste piazze è stata
ed è fatta di movimenti islamisti, con un'ideologia conservatrice,
che in alcuni casi hanno saputo abilmente sfruttare l'ondata
di rifiuto dell'ordine costituito per trasformare la loro potenza
organizzativa in voti e seggi in parlamento, oppure in lotte
armate e sedicenti 'Stati islamici'.
Ma non sono diventati egemonici. Anzi, la loro esperienza al
potere serve ogni giorno di più a smascherare la loro
brama di potere, e la loro sostanziale compatibilità
con il sistema capitalista e repressivo dei vecchi regimi. Milioni
di persone sono scese nelle strade in Egitto nel 2013 contro
il regime dei Fratelli Musulmani, non in nome della laicità,
ma contro le scelte oppressive di quel governo in campo sociale,
economico, culturale, politico. Musulmani da un lato, musulmani
dall'altro, ma schierati su barricate opposte nel nome delle
proprie visioni, di un'idea di cittadinanza, non di un astratto
'essere musulmani'.
Certo, esistono contraddizioni, non ho nessuna intenzione di
mitizzare e ridurre il tutto a una grande epopea di lotta popolare.
Nessuna narrazione semplice e lineare ci permetterà di
cogliere i processi in corso nella loro complessità.
Ha detto Asef Bayat, grande sociologo di origine iraniana: “I
comandamenti religiosi sono oggetto di lotte, di 'letture' contrastanti.
Sono in altre parole, una faccenda storica: gli esseri umani
ne definiscono le verità. Gli individui o i gruppi che
detengono un potere sociale possono affermare ed egemonizzare
queste verità”. Insomma, gli uomini e le donne
musulmane non sono pedine mosse da un motore atavico, ma soggetti,
protagonisti attivi della loro storia, della costante lotta
per definire il senso del nostro stare al mondo.
Eppure c'è chi ancora pensa che questi siano popoli schiavi
soltanto della religione, e che solo in nome di quella possano
mobilitarsi. Una visione che ne fa una massa passiva, psicologicamente
debole, succube di richiami ancestrali. Una visione che purtroppo
il 'nostro' Zanaz ha in comune con tanti intellettuali arabi
(molti dei quali marxisti ed ex-marxisti), “passati dall'idealizzare
il potenziale rivoluzionario delle masse...a individuare i problemi
intrinseci che affliggono la regione nella cultura di quelle
stesse masse” (sono parole di Fadi Bardawil, in un articolo
in inglese che trovate su Jadaliyya.com intitolato Sunken Mythologies,
'mitologie affondate').
Molti di loro, disillusi dai fallimenti e le sconfitte del socialismo
arabo hanno finito per dare la colpa ai sentimenti profondi,
religiosi e tribali dei loro popoli, così fortemente
radicati da determinare qualsiasi aspetto della vita sociale
e politica. E continuo citando Bardawil: “Ciò che
è rimasto costante in questa inversione interpretativa
e politica è la distanza che separa il militante di allora,
oggi intellettuale, dalle masse un tempo adulate e oggi disprezzate.
E c'è un'altra cosa che è rimasta costante: il
prevalere di spiegazioni semplicistiche, mono-causali delle
storie e delle società di questa parte di mondo. Se per
un periodo tutto si doveva analizzare accusando le macchinazioni
politiche esterne del colonialismo e dell'imperialismo, il mea
culpa disilluso del militante è andato poi nella direzione
di ritrovare la radice di tutti i mali nel carattere interno,
culturale di queste società”.
Una chiara genealogia coloniale
Il danno più grande che queste 'mitologie culturaliste'
fanno è di escludere ogni possibilità di ribellione
fuori dallo schema della religione, di non riuscire a concepire
la capacità creativa, innovativa degli arabi o musulmani
in quanto soggetti, ridotti a semplice espressione di una cultura
antica, sempre uguale a se stessa. È esattamente questo
il discorso che ha legittimato nei decenni l'esistenza dei regimi
autoritari in Medio Oriente. “È gente che non sa
essere libera”. “Non sanno governarsi senza mettersi
a capo i fondamentalisti”. “Meglio un regime cattivo
ma laico che dare mano libera ai terroristi”. Come dei
bambini, che hanno bisogno di un padre severo, che li istruisca,
li controlli, e li protegga da se stessi. In questa visione
è evidente che c'è un “noi” incaricato
di “aiutare le masse a uscire dalla servitù volontaria”
e guidarle verso i valori universali della modernità
occidentale, l'unica razionalità possibile per vivere
liberi.
È sempre Fadi Bardawil a sottolineare come questa infantilizzazione
abbia una chiara genealogia coloniale. E sono alcune élite
intellettuali, arabe e non (di cui Zanaz è un rappresentante),
a riprodurre attivamente oggi quella stezza infantilizzazione
del popolo che ha sorretto e sorregge la dominazione coloniale,
autoritaria e post-coloniale. Qualcosa di più lontano
da una visione socialista, libertaria e anarchica?
Francesco De Lellis
Termoli (Cb)
Genova/ Ma la sinistra è davvero morta. Suicidata
Buonasera,
vorrei condividere con voi alcune riflessioni che le recenti
elezioni comunali, ma soprattutto l'articolo “Ma
la sinistra si è suicidata” di Andrea Papi
(“A” 414, marzo 2017) mi hanno suscitato.
Lo scorso 25 giugno 2017 si sono tenuti i ballottaggi che hanno
portato alla nomina di nuovi sindaci e nuove giunte in alcune
città di Italia. Da più parti si è sentito
dire che la destra ha ottenuto risultati storici, grazie a vittorie
in città come Genova, La Spezia e Sesto San Giovanni,
considerate roccaforte del centro sinistra almeno da quando
il sindaco viene eletto direttamente. Al di là dei risultati
e di chissà cosa cambierà ora - sostanzialmente
poco: di destra o di sinistra il potere è sempre conservatore
e repressivo - trovo che l'evento sia spunto per alcune riflessioni
e per riallacciarsi idealmente con l'articolo “Ma la sinistra
si è suicidata” di Andrea Papi del numero 414.
In questi giorni sono arrivati parecchi inviti calorosi ad andare
a votare per scongiurare un pericolo incombente sulla città
in cui vivo: Genova, medaglia d'oro alla resistenza, Genova
che ha avuto il 30 giugno 1960, il G8 del 2001 e i suoi pestaggi,
non poteva finire in mano ai fascisti e l'appello era tanto
più accorato e accompagnato da descrizioni di imprese
memorabili del candidato sindaco del centro sinistra quanto
più proveniente da chi, solo poche settimane prima, attaccava
lo stesso sui social network, ritenendolo inadeguato ad una
sfida del genere; ironia della sorte? Ovviamente no.
Come prevedibile, la delusione provata al risveglio il mattino
dopo ha trovato riscatto nelle accuse verso chi non è
andato alle urne, soprattutto se abituale. Per chi crede nella
democrazia non è concepibile che una persona non possa
esercitare il suo dovere al voto, specie in un momento in cui
i cosiddetti populismi stanno prendendo sempre più campo.
Personalmente è da tempo ormai che non credo nel voto,
almeno quello istituzionale, come mezzo per arrivare ad una
società migliore, visto che è solo un modo per
delegare le responsabilità e sentirsi a posto con la
coscienza, né sono d'accordo con chi sostiene che, in
attesa di altri tempi, le elezioni siano necessarie, tanto poi
arriverà il momento della rivoluzione e allora cambierà
tutto; sono convinto però che sia importante vivere dentro
la società, nei modi e nei tempi che meglio crediamo,
eppure...
In questi anni di militanza poco attiva ho avuto la possibilità
di conoscere due diverse realtà, un'organizzazione “libertaria”
e un'associazione culturale; le intenzioni erano in entrambi
i casi più che buone: una voleva divulgare attraverso
giornali, riviste ed incontri la propria visione di una società
senza stato ed era sempre in prima linea nella difesa degli
immigrati, mentre l'altra aveva lo scopo di creare un polo culturale
non istituzionale, un luogo di scambio e di incontri con la
cittadinanza. Purtroppo presto le cose si sono rivelate per
quello che erano o si sono trasformate in altro; se l'organizzazione
era si anti statale, non era certo anti potere, nonostante le
parole: la sua struttura era infatti composta a piramide, con
un capo e via via altre persone fino ad arrivare alla base alla
quale veniva promesso costantemente che un buon sacrificio economico
e una costante dedizione portavano a ruoli più importanti.
E per quello che riguarda l'associazione culturale, nel corso
degli anni ha dovuto e voluto avere a che fare sempre più
con le istituzioni fino a diventarne quasi del tutto dipendente,
vedendo così il numero degli associati ridursi drasticamente
nel giro di pochi anni e poco a poco quel minimo di scambio
culturale con altre realtà del territorio che si era
riusciti a creare è venuto meno.
Due realtà diverse, due realtà che passano il
tempo concentrate a trovare un modo per continuare ad esistere,
senza rendersi conto che ormai l'intenzione iniziale è
andata persa e con questa la stessa ragione di esistere, mentre
la società si allontana, non sentendosi più rappresentata
e reagisce sfogandosi verso i ceti ancora più deboli
attraverso il voto, se non usando altri mezzi. Sì, la
sinistra al giorno d'oggi si è suicidata, ma non è
ancora morta: ansima, respira affannosamente, ma è lì,
pronta a riprendersi da un momento all'altro e forse è
altrettanto pericolosa della destra spauracchio di molti.
Grazie, un saluto ed un pensiero ribelle in cuor.
Alessandro Adesso
gruppo CAOS Genova
Sedici anni dopo il G8/ Per non dimenticare Carlo Giuliani
Il
20 luglio 2001, il corteo delle Tute Bianche, regolarmente
autorizzato della questura di Genova, stava percorrendo
Via Tolemaide quando venne caricato frontalmente da un
“plotone” di carabinieri del 3º Battaglione
Lombardia. A causa di questa prima carica iniziò
il dilagare della violenza tra i manifestanti e le forze
dell'ordine.
Dopo più o meno un'ora, circa settanta carabinieri
della compagnia “Echo” delle CCIR (Compagnie
di contenimento e intervento risolutivo) attaccarono nuovamente
il corteo regolarmente autorizzato, questa volta lateralmente,
in Via Caffa. La reazione di un gruppo di manifestanti
fece in modo che i militari si ritirassero. Tutto questo
è testimoniato dalle fotografie scattate e dai
video girati durante lo svolgersi di questi e di tutti
i fatti di quei giorni a Genova, divenuti in seguito atti
probatori. [...]
Nessuno dovrebbe permettere a se stesso di dimenticare
Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso in piazza Alimonda dalla
pallottola sparata da un altro ragazzo, Mario Placanica,
non manifestante come Carlo, ma carabiniere. Il corpo
di Carlo disteso sull'asfalto, le grida per l'assassinio
di un altro manifestante e quelle in risposta dalle forze
dell'ordine: “bastardo... lo ha ucciso il tuo sasso!”
Il tuo sasso!”
E ancora la camionetta che passa più volte su di
lui, Carlo, ferito sull'asfalto. La stessa camionetta
da cui, qualche istante prima, Mario Placanica aveva sentito
il “bisogno” di sparare, ma non in aria per
intimidire come dichiarò in una prima versione,
no, ad altezza uomo, non per ferire ma per uccidere.
E poi ci sono le percosse subite da altri manifestanti
nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz: picchiati,
massacrati, manganellati, presi a calci, violati e umiliati.
[...]
Il G8 di Genova del 2001 è simbolo di ingiustizia,
violenza, devastazione e morte agli occhi del mondo intero,
ma in Italia si finge che sia successo altro. In Italia,
oggi, dopo sedici anni e nel periodo dell'anniversario
della morte di Carlo Giuliani, nel tentativo di colmare
l'esistente vuoto normativo sul reato di tortura, commesso
e commettibile, è stato approvato per il codice
penale un inadeguato provvedimento che sottolinea, ancora
una volta, l'intenzione di garantire l'ingiustizia e la
possibilità di impunibilità.
Cristina Lo Giudice Catania
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Dibattito pedagogia/ L'autorità nell'educazione
In un numero precedente di questa rivista, un pedagogista, Raffaele
Mantegazza (“Educazione
e anarchismo”, “A” 413, febbraio 2017),
pone in luce alcune criticità della scuola libertaria,
esponendo alcuni problemi della “filosofia” di fondo.
Pur condividendone in linea di massima il pensiero, ritengo
che vada tuttavia ulteriormente chiarito il rapporto tra educazione
e autorità. Una relazione educativa, secondo Mantegazza,
può essere asimmetrica a livello di competenze ed al
tempo stesso non essere autoritaria come “un ragazzo che
insegna agli amici a suonare”. Se ciò può
essere vero, tuttavia la questione è se ciò avviene
nella educazione normale. La risposta è negativa. Il
sistema educativo “normale” quello che la maggior
parte delle persone conosce, è intrinsecamente autoritario.
Il docente, analizzato sotto qualunque punto di vista è
una autorità. Il sistema educativo normale, o non libertario,
considera l'educando una persona da formare e da plasmare. Obiettivo
di questo sistema è quindi formare la persona, fornendo
conoscenze pre-determinate.
La scuola dà a tutti i bambini una base comune, e gradualmente
chiede agli studenti una rielaborazione delle conoscenze/concetti/strumenti
forniti, questo processo può essere schematizzato in
tre fasi: si incomincia dando un metodo risolutivo e si mostra
l'insieme di problemi che vengono risolti da quel metodo. In
un secondo momento si chiede ai ragazzi di risolvere un problema
individuando, in autonomia, il metodo da applicare tra quelli
conosciuti. Infine si chiede allo studente di immaginare nuove
soluzioni combinando le conoscenze e le competenze acquisite
in vari momenti rielaborandole in autonomia. Questo metodo educativo
è applicato a quasi tutte le discipline.
Questo metodo ha due punti di forza: permette di estendere le
conoscenze combinandole tra di loro, e insegna a soppesare e
a mettere in relazione reciproca le conoscenze che si acquisiscono.
Si insegna cioè un approccio critico e si consente di
scegliere assumendo la responsabilità delle proprie scelte.
Inoltre questo metodo non necessita ma può sostenere
anche una critica all'autorità, anzi in qualche modo
forse la stimola, perché fa “toccare con mano”
i limiti delle autorità, e la necessità di ricercare
una propria via. In sostanza ci consente la possibilità
di essere liberi, evitando di essere plagiati e condizionati,
dagli altri.
La scuola libertaria pone al centro lo studente con i suoi interessi,
non vi sono quindi programmi uguali per tutti ma si fanno emergere
gli interessi e le peculiarità di ciascuno. Per contro,
se il bambino vuole giocare tutto il giorno, la scuola libertaria
glielo permette. Così facendo vi è il rischio
concreto di non far sviluppare le potenzialità degli
studenti, lasciandoli sempre in una condizione “infantile”.
La scuola non libertaria sicuramente lavora in ottica pluriennale,
parte da un bambino piccolo e lo accompagna nel suo processo
educativo, passo dopo passo. Nel corso del processo, nel sistema
idealizzato, l'autorità diminuisce per lasciare posto
alla sola autorevolezza nei gradi più alti dell'istruzione.
L'autorità rimane un punto fondamentale del processo
educativo dà le basi senza le quali nulla è possibile.
Le persone già formate, che hanno consapevolezza dei
propri interessi e bisogni, non hanno più bisogno di
un autorità che li costringa. Possono quindi giovarsi
ad un esperienza come la scuola libertaria.
È forse paradossale ma per costruire la libertà
siamo costretti in una prima fase a essere autoritari, costruire
dei confini nel quale far crescere il bambino, cosicché
possa svilupparsi al meglio come persona.
Luca Vanzetti
Vimercate (Mb)
80
anni dopo/ Una mostra sulla guerra di Spagna
Il Circolo “Filippo Buonarroti” di Milano (circolo
culturale di orientamento marxista che fa riferimento all'area
di Lotta Comunista) ci ha trasmesso un comunicato di cui pubblichiamo
ampi stralci.
La mostra Catalogna Bombardata è stata realizzata dal
Memorial Democratic di Barcellona e tradotta e curata, per l'edizione
italiana, dal Centro Filippo Buonarroti di Milano, che è
impegnato da due anni ad organizzare il tour in Italia e Svizzera
italiana, un giro che ha già toccato 59 città
per un totale di 86 esposizioni. I punti di contatto, che accomunano
l'analisi degli eventi politici e storici della Rivoluzione
Spagnola, tra il Centro Buonarroti ed il movimento anarchico
e libertario, hanno favorito una fattiva collaborazione che
si è concretizzata in numerose esposizioni organizzate
in comune con gli anarchici: a Trieste, Imola, Milano, Verona,
Bologna, Volterra; fattiva la collaborazione con artisti diversi
tra cui Alessio Lega.
Abbiamo voluto dedicare questa mostra ai bombardamenti sulla
Catalogna ma anche, soprattutto, all'80° della Guerra di
Spagna, uno degli eventi più significativi e più
importanti per il movimento operaio dell'intera storia del XX
secolo.
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Il catalogo della mostra “Catalogna bombardata” |
Altro scopo importante della mostra è smascherare l'errata
percezione legata agli eventi delle guerre di aggressione condotte
dall' imperialismo italiano. Le azioni di repressione contro
i civili, le esecuzioni sommarie e gli internamenti compiuti
dai soldati italiani (non solo in Spagna, ma anche in Grecia,
Albania, Jugoslavia, Etiopia) sono stati dei veri e propri crimini
di guerra rispetto ai quali ci si rifugia in un processo di
autoassoluzione nascondendosi dietro il falso mito degli “italiani
brava gente”.
Infine la mostra Catalogna Bombardata vuole denunciare gli 80
anni di barbarie che hanno visto i bombardamenti sulle popolazioni
civili diventare la regola necessaria: Barcellona, Aleppo, Mosul...
Circolo “Filippo Buonarroti”
Milano
Dibattito vaccinazioni/ Nè pericolose né inutili, anzi
Queste poche righe vogliono essere risposta alla lettera di
Stefano Boni e Angela Leone, pubblicata sul penultimo numero
(“A”417,
“Dibattito vaccinazioni/L'autoritarismo dei vaccini”).
Boni cita a sproposito un mio articolo apparso su “Umanità
Nova” a marzo 2014.
Il mio articolo dell'epoca, che rivendico in toto, altro non
è che l'introduzione da me scritta per l'opuscolo “Antivaccinari
– Un'introduzione storica e attuale di un'idea antiscientifica”,
curato da GreenNotGreed e costituito dalla traduzione di una
serie di analisi critiche di Patrick Caine, Amanda Marcotte,
David Shihi e Andrew Potter sul movimento antivaccinista, nello
specifico di quello attivo sul suolo statunitense.
Il fatto era opportunamente segnalato nell'edizione cartacea
di “Umanità Nova” del 5 marzo 2014 e altrettanto
nell'edizione web. Essendo le introduzioni per definizione dei
prolegomeni e non dei testi sviluppati in profondità
chi volesse scoprirne le argomentazioni non ha che da scaricarsi
l'opuscolo e leggerselo, si trova online ed è stato aggiornato
a poco più di un anno fa.
Le mie posizioni, così come quelle di molti altri compagni
e compagne, vengono tout-court appiattite dagli autori della
lettera a quelle delle multinazionali del farmaco, le quali
notoriamente chiudono i loro comunicati-stampa affermando la
necessità della rivoluzione sociale e dell'accesso universale
e gratuito alle forme più avanzate di sanità,
come invece scrissi io nel mio pezzo.
Le argomentazioni che Boni e Leone portano nella loro lettera
per provare a dare un supporto logico alla loro tesi, quella
della pericolosità e inutilità dei vaccini, sono
fallaci e partono da assunti di base non dimostrati. Invito
chi fosse interessato a darsi una minima base tecnico-scientifica
sull'argomento a leggersi i due articoli Vis Medicatrix Naturae
di Ennio Carbone, che è un immunologo oltre che un compagno,
pubblicati su “Umanità Nova”, il primo insieme
al mio articolo, e facilmente reperibili sul sito del giornale1.
Al Boni lascio volentieri l'onore di impostare l'analisi del
mondo sulle basi della critica ai vaccini e della scienza eliminando
completamente il dato di classe. Io, da anarchico e da proletario,
preferisco concentrarmi nella costruzione di organizzazioni
sociali autogestiste che permettano di fare scelte razionali
coinvolgendo strutturalmente chi è detentore di un sapere
tecnico e quindi di socializzare questo sapere, per strappare
l'uso di questo sapere dalle mani del nemico di classe, il quale,
al contrario di quanto sostengono coloro che si sono creati
il moloc della tecnoscienza, lungi dall'esaltare il metodo scientifico
degrada questo a pura ragione strumentale.
A ciascuno il suo, purché ci si assuma le proprie responsabilità
fino in fondo.
Lorenzo Coniglione
Reggio Emilia
1. www.umanitanova.it
Segnalo inoltre anche il mio pezzo “Tra l'incudine delle
pseudoscienze e il martello del mercato - Mai la merce curerà
l'uomo (e figuriamoci se lo farà lo stato)”, uscito
sul numero 21, anno 97 dell'11 giugno 2017, che riprende ampiamente
questi temi alla luce del decreto Lorenzin e l'intervento di
Ennio Carbone ai microfoni di Radio Blackout (“Vaccini,
complotti, salute, soldi”, 10 giugno 2017).
I
nostri fondi neri
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Sottoscrizioni.
Fausto Buttà (Freemantle – Australia)
100,00; Egidio Colombo (Quartu Sant'Elena - Ca) 50,00;
ricavato dalla FestA 2017 a Massenzatico (Reggio Emilia)
il 1° luglio, 520,00; nella stessa occasione,
ricavato dal banchetto di Federico Zenoni, 25,00;
Aurora e Paolo (Milano) ricordando Amelia Pastorello
e Alfonso Failla, 500,00; Marco Cosenza (Napoli) per
pdf, 5,00; Massimiliano Barbone (Bergamo) per pdf,
15,00; Sergio Quartetto (Asti) 10.00; Alessandro Spinazzi
(Venezia) 50,00; Federico Beconi (San Vincenzo –
Li) 10,00; Simona Bruzzi (Piacenza) 20,00; Mauro Mazzoleni
(Malnate – Va) 10,00; Antonino Pennisi (Acireale
- Ct) 20,00; Orazio Gobbi (Piacenza) 10,00; Doriano
Maglione (Como) 20,00; Francesco Negrini (Mantova)
10,00; Davide Andrusiani (Castelverde – Cr)
10,00; Settimio Pretelli (Rimini) 20,00; Enrico Moroni
(Settimo Milanese – Mi) 10,00; Rino Quartieri
(Zorlesco – Lo) 50,00; Olga Pugliese (Toronto
– Canada) 100,00; Roberto Nanetti (Settimo Torinese
– To) 20,00; Guido Salamone (Roma) 10,00. Totale
€ 1.595,00.
Ricordiamo che tra le sottoscrizioni registriamo
anche le quote eccedenti il normale costo dell'abbonamento.
Per esempio, chi ci manda € 50,00 per un abbonamento
normale in Italia (che costa € 40,00) vede registrata
tra le sottoscrizioni la somma di € 10,00.
Abbonamenti sostenitori.
(quando non altrimenti specificato, si tratta dell'importo
di cento euro). Cariddi Di Domenico (Livorno);
Nuccia Pelazza (Milano); Donata Martegani (Milano);
Fabrizio Cucchi (Empoli – Fi); Gaetano Caino
(Avigliano – Pz); Gruppo Caos (Genova); Vito
Mario Portone (Roma); Giovanni D'Ippolito (Casole
Bruzio – Cs); Carmelo Goglio (Olmo al Brembo
– Bg); Dario Cercek (Lecco); Rossana Cau (Arborea
– Or); Enrico Bonadei (Curno - Bg). Totale
€ 1.200,00.
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