rivista anarchica
anno 47 n. 419
ottobre 2017



Israele e i palestinesi/ I rigurgiti antisemiti e le parole malate a sinistra

Arrivederci padre o forse addio: era mio nonno il vero padre mio, cancellato come un numero dalla lista delle spese, ma così tanto più grande delle offese: questi sono alcuni versi del famoso brano “Shalom” pubblicato da Roberto Vecchioni, nel 2002, all'interno dell'album “Il lanciatore di coltelli”.
Quando lo ascoltai per la prima volta provai una sorta di sollievo. Il cantautore brianzolo era riuscito, da vero poeta, ad esprimere in poche parole un disagio che non era solo mio, ma che da decenni tormentava migliaia di militanti della sinistra cresciuti con quei valori che valgono ancora: solidarietà, antifascismo, libertà, fraternità, uguaglianza, democrazia.
Ascoltando Shalom ritornai indietro con la mente agli anni universitari, alla Statale di Milano. Ricordo come se fosse oggi quando, avvolto dalla kefiah, all'indomani del massacro di Sabra e Shatila, (18 settembre 1982) mi recai in corteo con altri studenti di agraria davanti al consolato israeliano. Quel massacro, e quelli che seguirono nei decenni successivi, ci cambiarono dentro. Ci chiedemmo chi fosse, in quei giorni, Davide e chi Golia.
Poi le intifade mostrarono al mondo, con grande evidenza, la sproporzione delle forze in campo: ragazzini da una parte armati di fionde e il quarto esercito più potente del mondo dall'altra. Come Vecchioni ci chiedemmo, e ci chiediamo ancora, se quelli di oggi sono gli eredi di coloro che, grazie ai giusti, superarono il valico di Ventimiglia, vissero per mesi negli scantinati delle abitazioni, fuggirono da sicura deportazione nascosti nelle barche dei pescatori liguri.

Criticare i governi israeliani, senza antisemitismo
Racconti “versati nelle nostre orecchie” sin da bambini che ci fanno appartenere a quelle sofferenze. Se per scelta di vita abbiamo deciso di stare dalla parte dei deboli, dei sofferenti, degli ultimi così come accadde per il popolo ebraico, non potemmo e non possiamo restare indifferenti nei confronti della tragedia del popolo palestinese e sperare, con tutte le nostre forze, che si affermi il loro diritto alla terra e ad una vita dignitosa. Ecco perché bisogna continuare a ricordare e ad esercitare il diritto di critica nei confronti dei governi israeliani, senza sprofondare nell'antisemitismo, lavorando per una riconciliazione tra i due popoli che paghi i propri debiti nei confronti dei lutti ai quali entrambe le comunità sembrano essersi abituate. Le memorie sono necessarie perché mutano al mutare dei quadri sociali. I differenti gruppi ricostruiscono il proprio passato adattandolo ai quadri sociali del presente, cancellandone alcuni tratti e attivandone altri, e nello stesso tempo progettano anche il proprio futuro.
In un momento in cui la tendenza di Israele a trasformarsi da uno stato democratico ad uno dell'apartheid (vedi discriminazioni dei palestinesi con cittadinanza israeliana) è purtroppo reale, credo sia opportuno che gli uomini di sinistra esprimano il proprio pensiero con parole chiare, precise, non malate di ipocrisia o intrise di ideologia.
A chi non riconosce il diritto all'esistenza di Israele occorre dire con chiarezza, soprattutto in questi periodi, che proprio perché la politica guerrafondaia di Netanyahu ha fallito, bisogna ribadire che non solo Israele ha diritto ad esistere ma ha diritto a vivere in pace entro i confini stabiliti dagli accordi di armistizio del 1949. Si può anche cancellare artificialmente quello stato dai libri di testo, come hanno fatto in molte scuole palestinesi, farlo sparire dalla carta geografica ma la realtà incontrovertibile è un'altra: gli uomini, le donne e i bambini israeliani, al contrario di altri popoli del Medio Oriente, vivono in una democrazia parlamentare i cui poteri costitutivi (legislativo, esecutivo e giudiziario) garantiscono e tutelano i loro diritti.
Sono passati esattamente 50 anni dalla drammatica ed inaccettabile occupazione della Palestina da parte dell'esercito israeliano e l'associazione SISO (Save Israel, Stop the Occupation) ha lanciato un appello “agli ebrei del mondo”. Cinquecento tra intellettuali, politici, scienziati, attivisti per la pace, ebrei israeliani: tra loro scrittori come David Grossman, Amos Oz e Ronit Matalon, artisti come Noa e Amos Gitai, intellettuali come Naomi Chazan e Daniel Bar-Tal, l'ex-leader laburista ed ex-generale Amram Mitzna, l'ex-deputata ed ex-vicesindaco di Tel Aviv Yael Dayan, il Premio Nobel Daniel Kahneman chiedono di porre fine all'occupazione dei territori palestinesi.

Ritirandosi nei propri confini, Israele potrebbe...
Ciò dimostra che la società israeliana è complessa ed in continua evoluzione. Certi giudizi cristallizzati o stracotte teorie complottiste, che iniziano ad albergare anche a sinistra, non aiutano certo il processo di pace, soprattutto se non si considera il contesto geo-politico in cui Israele vive. Siria e Iran ad esempio sono due stati dove le minoranze sono represse, poi vi sono altri stati dove le donne non hanno diritto di voto. In molti regimi arabi alla donne è vietato ricoprire incarichi politici o pubblici e/o non possono persino guidare l'auto. Al contrario vivono nella terra dei profeti punk, ebrei ortodossi, sionisti e antisionisti, gay, lesbiche e trans, comunisti, anarchici, ambientalisti e, purtroppo, anche gruppi neonazisti come raccontato più volte dal quotidiano Yedioth Ahronoth. Da qualche decennio molti giovani israeliani non rispettano lo Shabbat (il sabato ebraico) o la kasherut (l'insieme di regole alimentari ebraiche), non frequentano la sinagoga, lavorano nelle discoteche o nei pub anche di sabato e nessuno è stato perseguito per questo. La religione ha la sua importanza ma non limita la laicità.
Nella Knesset (il parlamento israeliano) sono rappresentate molte delle componenti vive e vivaci della società israeliana. I governi si alternano grazie al voto. Gran parte della cittadinanza israeliana è stanca di vivere nell'insicurezza, desidera la pace e lotta ogni giorno affinché il governo israeliano ponga fine all'occupazione, alla costruzione di nuovi insediamenti per i coloni, alle atrocità, alle persecuzioni, alle violenze, alle umiliazioni quotidiane e riconosca i diritti dei palestinesi perché questa è la precondizione per ogni seria trattativa politica. Tutti sanno che i territori sottratti ai palestinesi non servono a rafforzare le difese di Israele, questo stato ha solo bisogno di pace non di altre terre.
Ritirandosi nei propri confini Israele impedirebbe che le trattative falliscano di nuovo, recupererebbe quella dignità morale e legittimità democratica che oggi ha largamente smarrito e potrebbe regalare ai cittadini residenti ed agli ebrei della diaspora la speranza di un futuro di convivenza rispettosa e pacifica tra i due popoli.

Angelo Pagliaro
Paola (Cs)
angelopagliaro@hotmail.com



Dibattito orientalismo/Decolonizzare le narrazioni

È in corso da tempo un dibattito su “A” sulla questione dell'atteggiamento di alcuni anarchici nei confronti delle popolazioni indigene, in paesi coloniali.
Dopo un primo scritto di Costantino Paonessa (“A” 405, marzo 2016), lo stesso Paonessa è ritornato sull'argomento in “A” 417 (maggio 2017) con una contestuale risposta di Giorgio Sacchetti che riportava anche uno stralcio di Laura Galiàn.
Sullo scorso numero (“A” 417, giugno 2017) interventi di Pietro Di Paola, Laura Galiàn, Costantino Paonessa e Giorgio Sacchetti.
Ora interviene Francesco De Lellis.

L'Islam non è un monolite. E i musulmani non sono tutti uguali.
Leggere la moltitudine dei popoli e delle comunità di religione islamica attraverso l'unica, semplicistica, lente dell'oscurantismo e dell'arretratezza religiosa ci impedisce di vedere i processi sociali in corso. In medio oriente non c'è solo la lotta dei curdi del Rojava (belli perché laici), ma una miriade di conflitti, soggettività e visioni diverse. Molti di questi soggetti sono credenti. Non aspirano alla nostra versione della modernità, spesso non si definiscono anarchici, comunisti, socialisti. Ma nemmeno fanno della religione o della “tribù” il loro riferimento politico. Dal Marocco alla Tunisia, dall'Egitto alla Siria, sono in corso processi rivoluzionari di lunga durata che mettono in discussione l'assetto neoliberista, autoritario e patriarcale imposto nella regione. Cercare di capirli senza paternalismo, senza l'idea che vadano “illuminati” e guidati fuori dalla schiavitù dell'ignoranza, è il primo passo per rendere giustizia alle loro lotte e aspirazioni. E magari imparare anche qualcosa da loro.
L'articolo di Costantino Paonessa su “A” di maggio (“A” 416, “E se ad essere razzisti e orientalisti sono gli anarchici?”), ha aperto un interessante dibattito sull'atteggiamento sprezzante, orientalista e spesso razzista degli anarchici italiani di inizio ottocento in Egitto nei confronti della popolazione locale. Fa male ammetterlo, ma certi atteggiamenti restano, e sono diffusi, anche tra tanti compagni di oggi, anarchici e non.
Dopo aver letto l'articolo di Costantino sono andato a sfogliare i vecchi numeri di “A”, per vedere come erano state raccontate le cosiddette 'primavere arabe'. E nel numero di giugno 2013 ho trovato la recensione di un libro pubblicato da Elèuthera dal titolo Sfida laica all'Islam. La religione contro la vita. Premesso che stimo tantissimo sia “A” sia la casa editrice Elèuthera, leggere l'introduzione al libro e gli stralci riportati mi ha fatto rabbrividire. Gli autori usano gli stessi concetti e le stesse argomentazioni della mai compianta Oriana Fallaci, che dedicò gli ultimi anni della sua vita alla crociata contro l'Islam.
L'autore del libro, l'algerino Hamid Zanaz, nelle parole di Michel Onfray che lo recensisce, afferma sostanzialmente che “l'islam è intrinsecamente incompatibile con i valori dell'Occidente” e considera una grande bufala l'idea che possa esistere una “rilettura contestualizzata” dell'Islam, l'idea cioè che l'Islam possa convivere con valori di uguaglianza e libertà. E continua, con uno dei più triti argomenti del colonialismo: “in terra non occidentale l'individuo non esiste, contano solamente la tribù, la comunità, il gruppo”. E mette in guardia (come farebbe qualunque Salvini di turno) dall'avanzata dell'Islam in Europa, dall'islamizzazione già in corso dell'Occidente.

Ma non si tratta di un risveglio improvviso
Applicata a una lettura delle rivolte scoppiate nel 2010-2011 nel mondo arabo, l'analisi di Zanaz lo porta ad affermare qualcosa che ci capita spesso di sentire ultimamente, e cioè che in fondo era prevedibile che le rivolte facessero questa fine, “gli islamisti dominavano già la piazza” dall'inizio. E continua con un'altra sconcertante verità: “Perché gli islamisti trionfano? Perché nuotano in tutte le società arabe come pesci nell'acqua. A dire il vero, se non fosse per la barba e il velo, sarebbe molto difficile individuare le differenze tra 'musulmani' e 'islamisti'”. Insomma, “la relazione tra islam ed estremismo” è per lui “intrinseca”. La fede nella religione determina meccanicamente l'adesione a una ideologia oscurantista legata al Corano e ai testi sacri dell'Islam, e quindi crea terreno fertile, sempre, per i militanti cosiddetti estremisti. Essere musulmani insomma (“di nascita o musulmani etnici, credenti o meno,” dice Zanaz) implica necessariamente credere a una soluzione 'islamica' e 'barbuta'.
Eppure i milioni di persone scesi in piazza a sfidare alcuni dei regimi più feroci del mondo nella maggior parte dei casi non avevano (e non hanno) l'Islam nelle loro parole d'ordine. Giustizia sociale, uguaglianza, dignità, pane, lotta alla corruzione e agli abusi degli apparati di polizia, allo strapotere dell'esercito: queste sono le parole che echeggiano ancora nelle piazze delle grandi metropoli così come nelle regioni remote e marginalizzate. E non solo negli slogan, ma nelle pratiche vissute di lotta questi movimenti hanno realmente abbattuto le gerarchie e le barriere costituite, comprese quelle di genere. E non si tratta di un risveglio improvviso, scaturito da una provvidenziale presa di coscienza (magari nata da Facebook). Solo chi negli ultimi decenni non ha saputo o voluto guardare a quello che succedeva sull'altra sponda del Mediterraneo può ritrovarsi sorpreso dalle esplosioni di piazza del 2010-2011, e quelle successive, che continuano fino a oggi.
In molti casi si tratta di credenti, musulmani, a volte cristiani, che non hanno mai pensato come incompatibili le loro aspirazioni di libertà e la loro identità e fede religiosa. Penso alle tremila operaie di Mahalla al-Kubra nel Delta del Nilo che a dicembre 2006 iniziano uno sciopero trascinando con sé tutto il settore del tessile ed inaugurando una stagione di lotte senza precedenti nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro in Egitto. Nessuno all'epoca ha pensato a dire a quelle operaie che loro erano musulmane e che dovevano obbedire ai mariti invece che scatenare uno sciopero? E penso alle lotte del Rif marocchino, che proprio in questi giorni (mentre scrivo) sono arrivate a travolgere anche la capitale Rabat. O le mobilitazioni nel sud della Tunisia che resta in perenne fermento. Penso ai tanti modi praticati e pensati di essere donne e musulmane, ai tanti 'femminismi' possibili (come li definisce Sara Borrillo, ricercatrice, in un suo recente libro). Sono donne e uomini, sono berberi e arabi, musulmani praticanti e non, insieme. E promettono nuove mobilitazioni per rivendicare la dignità di cittadini e chiedere la fine del sistema di ingiustizia che li affama e li esclude.

Musulmani contro musulmani, su opposte barricate
È vero, una componente di queste piazze è stata ed è fatta di movimenti islamisti, con un'ideologia conservatrice, che in alcuni casi hanno saputo abilmente sfruttare l'ondata di rifiuto dell'ordine costituito per trasformare la loro potenza organizzativa in voti e seggi in parlamento, oppure in lotte armate e sedicenti 'Stati islamici'.
Ma non sono diventati egemonici. Anzi, la loro esperienza al potere serve ogni giorno di più a smascherare la loro brama di potere, e la loro sostanziale compatibilità con il sistema capitalista e repressivo dei vecchi regimi. Milioni di persone sono scese nelle strade in Egitto nel 2013 contro il regime dei Fratelli Musulmani, non in nome della laicità, ma contro le scelte oppressive di quel governo in campo sociale, economico, culturale, politico. Musulmani da un lato, musulmani dall'altro, ma schierati su barricate opposte nel nome delle proprie visioni, di un'idea di cittadinanza, non di un astratto 'essere musulmani'.
Certo, esistono contraddizioni, non ho nessuna intenzione di mitizzare e ridurre il tutto a una grande epopea di lotta popolare. Nessuna narrazione semplice e lineare ci permetterà di cogliere i processi in corso nella loro complessità. Ha detto Asef Bayat, grande sociologo di origine iraniana: “I comandamenti religiosi sono oggetto di lotte, di 'letture' contrastanti. Sono in altre parole, una faccenda storica: gli esseri umani ne definiscono le verità. Gli individui o i gruppi che detengono un potere sociale possono affermare ed egemonizzare queste verità”. Insomma, gli uomini e le donne musulmane non sono pedine mosse da un motore atavico, ma soggetti, protagonisti attivi della loro storia, della costante lotta per definire il senso del nostro stare al mondo.
Eppure c'è chi ancora pensa che questi siano popoli schiavi soltanto della religione, e che solo in nome di quella possano mobilitarsi. Una visione che ne fa una massa passiva, psicologicamente debole, succube di richiami ancestrali. Una visione che purtroppo il 'nostro' Zanaz ha in comune con tanti intellettuali arabi (molti dei quali marxisti ed ex-marxisti), “passati dall'idealizzare il potenziale rivoluzionario delle masse...a individuare i problemi intrinseci che affliggono la regione nella cultura di quelle stesse masse” (sono parole di Fadi Bardawil, in un articolo in inglese che trovate su Jadaliyya.com intitolato Sunken Mythologies, 'mitologie affondate').
Molti di loro, disillusi dai fallimenti e le sconfitte del socialismo arabo hanno finito per dare la colpa ai sentimenti profondi, religiosi e tribali dei loro popoli, così fortemente radicati da determinare qualsiasi aspetto della vita sociale e politica. E continuo citando Bardawil: “Ciò che è rimasto costante in questa inversione interpretativa e politica è la distanza che separa il militante di allora, oggi intellettuale, dalle masse un tempo adulate e oggi disprezzate. E c'è un'altra cosa che è rimasta costante: il prevalere di spiegazioni semplicistiche, mono-causali delle storie e delle società di questa parte di mondo. Se per un periodo tutto si doveva analizzare accusando le macchinazioni politiche esterne del colonialismo e dell'imperialismo, il mea culpa disilluso del militante è andato poi nella direzione di ritrovare la radice di tutti i mali nel carattere interno, culturale di queste società”.

Una chiara genealogia coloniale
Il danno più grande che queste 'mitologie culturaliste' fanno è di escludere ogni possibilità di ribellione fuori dallo schema della religione, di non riuscire a concepire la capacità creativa, innovativa degli arabi o musulmani in quanto soggetti, ridotti a semplice espressione di una cultura antica, sempre uguale a se stessa. È esattamente questo il discorso che ha legittimato nei decenni l'esistenza dei regimi autoritari in Medio Oriente. “È gente che non sa essere libera”. “Non sanno governarsi senza mettersi a capo i fondamentalisti”. “Meglio un regime cattivo ma laico che dare mano libera ai terroristi”. Come dei bambini, che hanno bisogno di un padre severo, che li istruisca, li controlli, e li protegga da se stessi. In questa visione è evidente che c'è un “noi” incaricato di “aiutare le masse a uscire dalla servitù volontaria” e guidarle verso i valori universali della modernità occidentale, l'unica razionalità possibile per vivere liberi.
È sempre Fadi Bardawil a sottolineare come questa infantilizzazione abbia una chiara genealogia coloniale. E sono alcune élite intellettuali, arabe e non (di cui Zanaz è un rappresentante), a riprodurre attivamente oggi quella stezza infantilizzazione del popolo che ha sorretto e sorregge la dominazione coloniale, autoritaria e post-coloniale. Qualcosa di più lontano da una visione socialista, libertaria e anarchica?

Francesco De Lellis
Termoli (Cb)



Genova/ Ma la sinistra è davvero morta. Suicidata

Buonasera,
vorrei condividere con voi alcune riflessioni che le recenti elezioni comunali, ma soprattutto l'articolo “Ma la sinistra si è suicidata” di Andrea Papi (“A” 414, marzo 2017) mi hanno suscitato.
Lo scorso 25 giugno 2017 si sono tenuti i ballottaggi che hanno portato alla nomina di nuovi sindaci e nuove giunte in alcune città di Italia. Da più parti si è sentito dire che la destra ha ottenuto risultati storici, grazie a vittorie in città come Genova, La Spezia e Sesto San Giovanni, considerate roccaforte del centro sinistra almeno da quando il sindaco viene eletto direttamente. Al di là dei risultati e di chissà cosa cambierà ora - sostanzialmente poco: di destra o di sinistra il potere è sempre conservatore e repressivo - trovo che l'evento sia spunto per alcune riflessioni e per riallacciarsi idealmente con l'articolo “Ma la sinistra si è suicidata” di Andrea Papi del numero 414.
In questi giorni sono arrivati parecchi inviti calorosi ad andare a votare per scongiurare un pericolo incombente sulla città in cui vivo: Genova, medaglia d'oro alla resistenza, Genova che ha avuto il 30 giugno 1960, il G8 del 2001 e i suoi pestaggi, non poteva finire in mano ai fascisti e l'appello era tanto più accorato e accompagnato da descrizioni di imprese memorabili del candidato sindaco del centro sinistra quanto più proveniente da chi, solo poche settimane prima, attaccava lo stesso sui social network, ritenendolo inadeguato ad una sfida del genere; ironia della sorte? Ovviamente no.
Come prevedibile, la delusione provata al risveglio il mattino dopo ha trovato riscatto nelle accuse verso chi non è andato alle urne, soprattutto se abituale. Per chi crede nella democrazia non è concepibile che una persona non possa esercitare il suo dovere al voto, specie in un momento in cui i cosiddetti populismi stanno prendendo sempre più campo. Personalmente è da tempo ormai che non credo nel voto, almeno quello istituzionale, come mezzo per arrivare ad una società migliore, visto che è solo un modo per delegare le responsabilità e sentirsi a posto con la coscienza, né sono d'accordo con chi sostiene che, in attesa di altri tempi, le elezioni siano necessarie, tanto poi arriverà il momento della rivoluzione e allora cambierà tutto; sono convinto però che sia importante vivere dentro la società, nei modi e nei tempi che meglio crediamo, eppure...
In questi anni di militanza poco attiva ho avuto la possibilità di conoscere due diverse realtà, un'organizzazione “libertaria” e un'associazione culturale; le intenzioni erano in entrambi i casi più che buone: una voleva divulgare attraverso giornali, riviste ed incontri la propria visione di una società senza stato ed era sempre in prima linea nella difesa degli immigrati, mentre l'altra aveva lo scopo di creare un polo culturale non istituzionale, un luogo di scambio e di incontri con la cittadinanza. Purtroppo presto le cose si sono rivelate per quello che erano o si sono trasformate in altro; se l'organizzazione era si anti statale, non era certo anti potere, nonostante le parole: la sua struttura era infatti composta a piramide, con un capo e via via altre persone fino ad arrivare alla base alla quale veniva promesso costantemente che un buon sacrificio economico e una costante dedizione portavano a ruoli più importanti. E per quello che riguarda l'associazione culturale, nel corso degli anni ha dovuto e voluto avere a che fare sempre più con le istituzioni fino a diventarne quasi del tutto dipendente, vedendo così il numero degli associati ridursi drasticamente nel giro di pochi anni e poco a poco quel minimo di scambio culturale con altre realtà del territorio che si era riusciti a creare è venuto meno.
Due realtà diverse, due realtà che passano il tempo concentrate a trovare un modo per continuare ad esistere, senza rendersi conto che ormai l'intenzione iniziale è andata persa e con questa la stessa ragione di esistere, mentre la società si allontana, non sentendosi più rappresentata e reagisce sfogandosi verso i ceti ancora più deboli attraverso il voto, se non usando altri mezzi. Sì, la sinistra al giorno d'oggi si è suicidata, ma non è ancora morta: ansima, respira affannosamente, ma è lì, pronta a riprendersi da un momento all'altro e forse è altrettanto pericolosa della destra spauracchio di molti.

Grazie, un saluto ed un pensiero ribelle in cuor.

Alessandro Adesso
gruppo CAOS Genova



Sedici anni dopo il G8/ Per non dimenticare Carlo Giuliani

Il 20 luglio 2001, il corteo delle Tute Bianche, regolarmente autorizzato della questura di Genova, stava percorrendo Via Tolemaide quando venne caricato frontalmente da un “plotone” di carabinieri del 3º Battaglione Lombardia. A causa di questa prima carica iniziò il dilagare della violenza tra i manifestanti e le forze dell'ordine.
Dopo più o meno un'ora, circa settanta carabinieri della compagnia “Echo” delle CCIR (Compagnie di contenimento e intervento risolutivo) attaccarono nuovamente il corteo regolarmente autorizzato, questa volta lateralmente, in Via Caffa. La reazione di un gruppo di manifestanti fece in modo che i militari si ritirassero. Tutto questo è testimoniato dalle fotografie scattate e dai video girati durante lo svolgersi di questi e di tutti i fatti di quei giorni a Genova, divenuti in seguito atti probatori. [...]
Nessuno dovrebbe permettere a se stesso di dimenticare Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso in piazza Alimonda dalla pallottola sparata da un altro ragazzo, Mario Placanica, non manifestante come Carlo, ma carabiniere. Il corpo di Carlo disteso sull'asfalto, le grida per l'assassinio di un altro manifestante e quelle in risposta dalle forze dell'ordine: “bastardo... lo ha ucciso il tuo sasso!” Il tuo sasso!”
E ancora la camionetta che passa più volte su di lui, Carlo, ferito sull'asfalto. La stessa camionetta da cui, qualche istante prima, Mario Placanica aveva sentito il “bisogno” di sparare, ma non in aria per intimidire come dichiarò in una prima versione, no, ad altezza uomo, non per ferire ma per uccidere.
E poi ci sono le percosse subite da altri manifestanti nella caserma di Bolzaneto e nella scuola Diaz: picchiati, massacrati, manganellati, presi a calci, violati e umiliati. [...]
Il G8 di Genova del 2001 è simbolo di ingiustizia, violenza, devastazione e morte agli occhi del mondo intero, ma in Italia si finge che sia successo altro. In Italia, oggi, dopo sedici anni e nel periodo dell'anniversario della morte di Carlo Giuliani, nel tentativo di colmare l'esistente vuoto normativo sul reato di tortura, commesso e commettibile, è stato approvato per il codice penale un inadeguato provvedimento che sottolinea, ancora una volta, l'intenzione di garantire l'ingiustizia e la possibilità di impunibilità.

Cristina Lo Giudice
Catania




Dibattito pedagogia/ L'autorità nell'educazione

In un numero precedente di questa rivista, un pedagogista, Raffaele Mantegazza (“Educazione e anarchismo”, “A” 413, febbraio 2017), pone in luce alcune criticità della scuola libertaria, esponendo alcuni problemi della “filosofia” di fondo. Pur condividendone in linea di massima il pensiero, ritengo che vada tuttavia ulteriormente chiarito il rapporto tra educazione e autorità. Una relazione educativa, secondo Mantegazza, può essere asimmetrica a livello di competenze ed al tempo stesso non essere autoritaria come “un ragazzo che insegna agli amici a suonare”. Se ciò può essere vero, tuttavia la questione è se ciò avviene nella educazione normale. La risposta è negativa. Il sistema educativo “normale” quello che la maggior parte delle persone conosce, è intrinsecamente autoritario. Il docente, analizzato sotto qualunque punto di vista è una autorità. Il sistema educativo normale, o non libertario, considera l'educando una persona da formare e da plasmare. Obiettivo di questo sistema è quindi formare la persona, fornendo conoscenze pre-determinate.
La scuola dà a tutti i bambini una base comune, e gradualmente chiede agli studenti una rielaborazione delle conoscenze/concetti/strumenti forniti, questo processo può essere schematizzato in tre fasi: si incomincia dando un metodo risolutivo e si mostra l'insieme di problemi che vengono risolti da quel metodo. In un secondo momento si chiede ai ragazzi di risolvere un problema individuando, in autonomia, il metodo da applicare tra quelli conosciuti. Infine si chiede allo studente di immaginare nuove soluzioni combinando le conoscenze e le competenze acquisite in vari momenti rielaborandole in autonomia. Questo metodo educativo è applicato a quasi tutte le discipline.
Questo metodo ha due punti di forza: permette di estendere le conoscenze combinandole tra di loro, e insegna a soppesare e a mettere in relazione reciproca le conoscenze che si acquisiscono. Si insegna cioè un approccio critico e si consente di scegliere assumendo la responsabilità delle proprie scelte. Inoltre questo metodo non necessita ma può sostenere anche una critica all'autorità, anzi in qualche modo forse la stimola, perché fa “toccare con mano” i limiti delle autorità, e la necessità di ricercare una propria via. In sostanza ci consente la possibilità di essere liberi, evitando di essere plagiati e condizionati, dagli altri.
La scuola libertaria pone al centro lo studente con i suoi interessi, non vi sono quindi programmi uguali per tutti ma si fanno emergere gli interessi e le peculiarità di ciascuno. Per contro, se il bambino vuole giocare tutto il giorno, la scuola libertaria glielo permette. Così facendo vi è il rischio concreto di non far sviluppare le potenzialità degli studenti, lasciandoli sempre in una condizione “infantile”.
La scuola non libertaria sicuramente lavora in ottica pluriennale, parte da un bambino piccolo e lo accompagna nel suo processo educativo, passo dopo passo. Nel corso del processo, nel sistema idealizzato, l'autorità diminuisce per lasciare posto alla sola autorevolezza nei gradi più alti dell'istruzione. L'autorità rimane un punto fondamentale del processo educativo dà le basi senza le quali nulla è possibile. Le persone già formate, che hanno consapevolezza dei propri interessi e bisogni, non hanno più bisogno di un autorità che li costringa. Possono quindi giovarsi ad un esperienza come la scuola libertaria.
È forse paradossale ma per costruire la libertà siamo costretti in una prima fase a essere autoritari, costruire dei confini nel quale far crescere il bambino, cosicché possa svilupparsi al meglio come persona.

Luca Vanzetti
Vimercate (Mb)



80 anni dopo/ Una mostra sulla guerra di Spagna

Il Circolo “Filippo Buonarroti” di Milano (circolo culturale di orientamento marxista che fa riferimento all'area di Lotta Comunista) ci ha trasmesso un comunicato di cui pubblichiamo ampi stralci.

La mostra Catalogna Bombardata è stata realizzata dal Memorial Democratic di Barcellona e tradotta e curata, per l'edizione italiana, dal Centro Filippo Buonarroti di Milano, che è impegnato da due anni ad organizzare il tour in Italia e Svizzera italiana, un giro che ha già toccato 59 città per un totale di 86 esposizioni. I punti di contatto, che accomunano l'analisi degli eventi politici e storici della Rivoluzione Spagnola, tra il Centro Buonarroti ed il movimento anarchico e libertario, hanno favorito una fattiva collaborazione che si è concretizzata in numerose esposizioni organizzate in comune con gli anarchici: a Trieste, Imola, Milano, Verona, Bologna, Volterra; fattiva la collaborazione con artisti diversi tra cui Alessio Lega.
Abbiamo voluto dedicare questa mostra ai bombardamenti sulla Catalogna ma anche, soprattutto, all'80° della Guerra di Spagna, uno degli eventi più significativi e più importanti per il movimento operaio dell'intera storia del XX secolo.

Il catalogo della mostra
“Catalogna bombardata”

Altro scopo importante della mostra è smascherare l'errata percezione legata agli eventi delle guerre di aggressione condotte dall' imperialismo italiano. Le azioni di repressione contro i civili, le esecuzioni sommarie e gli internamenti compiuti dai soldati italiani (non solo in Spagna, ma anche in Grecia, Albania, Jugoslavia, Etiopia) sono stati dei veri e propri crimini di guerra rispetto ai quali ci si rifugia in un processo di autoassoluzione nascondendosi dietro il falso mito degli “italiani brava gente”.
Infine la mostra Catalogna Bombardata vuole denunciare gli 80 anni di barbarie che hanno visto i bombardamenti sulle popolazioni civili diventare la regola necessaria: Barcellona, Aleppo, Mosul...

Circolo “Filippo Buonarroti”
Milano



Dibattito vaccinazioni/ Nè pericolose né inutili, anzi

Queste poche righe vogliono essere risposta alla lettera di Stefano Boni e Angela Leone, pubblicata sul penultimo numero (“A”417, “Dibattito vaccinazioni/L'autoritarismo dei vaccini”). Boni cita a sproposito un mio articolo apparso su “Umanità Nova” a marzo 2014.
Il mio articolo dell'epoca, che rivendico in toto, altro non è che l'introduzione da me scritta per l'opuscolo “Antivaccinari – Un'introduzione storica e attuale di un'idea antiscientifica”, curato da GreenNotGreed e costituito dalla traduzione di una serie di analisi critiche di Patrick Caine, Amanda Marcotte, David Shihi e Andrew Potter sul movimento antivaccinista, nello specifico di quello attivo sul suolo statunitense.
Il fatto era opportunamente segnalato nell'edizione cartacea di “Umanità Nova” del 5 marzo 2014 e altrettanto nell'edizione web. Essendo le introduzioni per definizione dei prolegomeni e non dei testi sviluppati in profondità chi volesse scoprirne le argomentazioni non ha che da scaricarsi l'opuscolo e leggerselo, si trova online ed è stato aggiornato a poco più di un anno fa.
Le mie posizioni, così come quelle di molti altri compagni e compagne, vengono tout-court appiattite dagli autori della lettera a quelle delle multinazionali del farmaco, le quali notoriamente chiudono i loro comunicati-stampa affermando la necessità della rivoluzione sociale e dell'accesso universale e gratuito alle forme più avanzate di sanità, come invece scrissi io nel mio pezzo.
Le argomentazioni che Boni e Leone portano nella loro lettera per provare a dare un supporto logico alla loro tesi, quella della pericolosità e inutilità dei vaccini, sono fallaci e partono da assunti di base non dimostrati. Invito chi fosse interessato a darsi una minima base tecnico-scientifica sull'argomento a leggersi i due articoli Vis Medicatrix Naturae di Ennio Carbone, che è un immunologo oltre che un compagno, pubblicati su “Umanità Nova”, il primo insieme al mio articolo, e facilmente reperibili sul sito del giornale1.
Al Boni lascio volentieri l'onore di impostare l'analisi del mondo sulle basi della critica ai vaccini e della scienza eliminando completamente il dato di classe. Io, da anarchico e da proletario, preferisco concentrarmi nella costruzione di organizzazioni sociali autogestiste che permettano di fare scelte razionali coinvolgendo strutturalmente chi è detentore di un sapere tecnico e quindi di socializzare questo sapere, per strappare l'uso di questo sapere dalle mani del nemico di classe, il quale, al contrario di quanto sostengono coloro che si sono creati il moloc della tecnoscienza, lungi dall'esaltare il metodo scientifico degrada questo a pura ragione strumentale.
A ciascuno il suo, purché ci si assuma le proprie responsabilità fino in fondo.

Lorenzo Coniglione
Reggio Emilia

1. www.umanitanova.it Segnalo inoltre anche il mio pezzo “Tra l'incudine delle pseudoscienze e il martello del mercato - Mai la merce curerà l'uomo (e figuriamoci se lo farà lo stato)”, uscito sul numero 21, anno 97 dell'11 giugno 2017, che riprende ampiamente questi temi alla luce del decreto Lorenzin e l'intervento di Ennio Carbone ai microfoni di Radio Blackout (“Vaccini, complotti, salute, soldi”, 10 giugno 2017).





I nostri fondi neri

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