rivista anarchica
anno 47 n. 419
ottobre 2017


dibattito donne e diritti

Femminismo e religione.
Relazione impossibile

intervista a Hamid Zanaz della redazione di “A”


La nostra rivoluzione: voci di donne arabe è il secondo libro, pubblicato da Elèuthera, di questo professore universitario algerino, costretto a trasferirsi in Francia 24 anni fa a causa delle sue posizioni critiche con la religione ufficiale. Sostiene tesi criticate e critiche con alcune posizioni della sinistra (non solo) francese. Ateo e libero pensatore, Zanaz è in contrasto acceso con le tre religioni monoteiste, quella islamica (la sua originaria) in primis. Il dibattito resta aperto.


È da poco uscito il tuo libro La nostra rivoluzione: voci di donne arabe (Elèuthera, Milano, 2017, pp. 136, € 13,00) che si compone di interviste sulla condizione femminile nel mondo arabo-musulmano. Su “A” ci piacerebbe riportare la tua opinione in merito ad alcune critiche che sono state fatte al tuo libro. Una di queste riguarda le testimonianze raccolte, che sono prevalentemente quelle di donne della classe media o alta, a contatto con la civiltà occidentale se non residenti in paesi occidentali. Pensi che questo possa in qualche modo influenzare negativamente le conclusioni del libro?
La domanda sull'identità delle donne intervistate è molto pertinente, anche se nessun commentatore del mio libro l'aveva mai posta. Mi offre quindi l'opportunità di spiegare perché ho scelto proprio loro.
Ho voluto presentare al lettore occidentale delle militanti appartenenti al mondo arabo e islamico, delle progressiste, attiviste, universitarie, artiste che lottano, ognuna a suo modo, contro l'integralismo islamico, nemico giurato della donna araba e della sua emancipazione. Tra di loro ci sono delle studiose che si interrogano sulla realtà religiosa islamica con un ineguagliabile rigore scientifico, come ad esempio le tunisine Amal Grami, Rajaa Benslama e Oulfa Youssef, che hanno sempre lavorato e vissuto in Tunisia.
Invece Zinab al-Rahouzi è stata giornalista prima in Marocco e poi in Francia, dove ha collaborato con Charlie Hebdo, e conosce benissimo l'islam. In Marocco si è battuta per la libertà di non digiunare durante il ramadan ed è contraria al velo e al niqab, che considera un «simbolo di appartenenza a un'identità islamica immaginaria», un'identità islamica illusoria insomma. Come Joumana Haddad vuole emancipare il corpo femminile, sostiene che «i giovani musulmani occidentali sacralizzano la verginità proprio quando i giovani in Marocco hanno ormai superato la questione». Haddad contraddice tutti gli pseudo-specialisti francesi dell'islam quando sostengono che questo non ha niente a che vedere con la difficoltà d'integrazione dei musulmani in Francia: «Credo che per i suoi adepti, che desiderano applicarne alla lettera i princìpi, l'islam sia l'ostacolo principale alla loro integrazione nella società francese».
Faouzia Charfi, professoressa di fisica a Tunisi, critica, a ragione, i libri che cercano di attribuire al Corano dei «miracoli scientifici» e che pretendono che tutta la scienza, anche quella moderna, «si trovi» nel testo coranico.
La marocchina Sanaa El-Aji vive e lavora in Marocco. Questo non le impedisce di criticare la società musulmana marocchina, in cui tutto ciò che riguarda il diritto privato, come «matrimonio, divorzio e relazioni sessuali deriva direttamente dalla legge coranica». Secondo quest'ultima «l'uomo che non tiene a bada i suoi istinti è un animale». La giornalista denuncia inoltre le molestie sessuali, risultato della separazione tra uomini e donne nello spazio pubblico e della mancanza di gruppi misti.
Ecco dunque alcuni esempi delle voci femminili intervistate nel mio libro: sono moderne, vivono come tutte le altre donne del loro tempo, e anche se alcune di loro risiedono in occidente, il loro impegno contro l'arcaismo e la lotta per migliorare la condizione della donna nei propri paesi, non ne risentono.
Nonostante l'ottima accoglienza del libro nel mondo arabo, ci sono sempre degli occidentali più realisti del re! Che continuino pure a difendere il velo e l'islamismo in casa propria! Queste donne libere non hanno bisogno dei loro consigli e sono coscienti del pericolo islamista perché lo conoscono dall'interno.

Hamid Zanaz

Integralismo islamico e colonialismo

Siccome alcuni paesi islamici sono ex-colonie di potenze occidentali, alcuni ritengono che un approccio positivo verso l'islam e le credenze locali sia doveroso in quanto “riparatorio” della condizione coloniale nella quale vertevano quei paesi. Che rapporto vedi tra questo stato ex-coloniale e la critica islamica all'occidente? Inoltre, la condizione coloniale ha favorito determinati aspetti della cultura dei paesi islamici?
Parlare di legame tra fanatismo e colonialismo serve per confondere le idee. Il fanatismo religioso è esistito prima, durante e dopo il colonialismo. Prendiamo l'esempio dell'Arabia Saudita: non è mai stato colonizzato, eppure è il paese più integralista, quello che ha contagiato tutti gli altri paesi arabi e che ha fatto fallire, in gran parte, la secolarizzazione e la modernizzazione di tutto il mondo arabo.
I musulmani non hanno aspettato l'arrivo del colonialismo per naufragare nel caos, già nel XV secolo ci sguazzavano dentro. La loro civilizzazione, infatti, si è fermata nel XII secolo. Per questo l'atteggiamento dei maggiori studiosi e politici musulmani del XX secolo è più isterico che storico, quando sostengono che l'arretramento culturale economico e politico è causato dal colonialismo e dal complotto giudaico-cristiano. I commentatori dimenticano che, a rigor di logica, la decadenza precede il colonialismo. All'inizio del XIX secolo le società islamiche si sono indebolite a tal punto da non riuscire proteggersi e far fronte alle nascenti ambizioni dei propri vicini in pieno boom economico, culturale e scientifico. Il mondo musulmano è stato colonizzato perché era decadente. Non è decadente perché è stato colonizzato. Anche se la colonizzazione ha contribuito a mantenerlo, in un modo o in un altro, nel suo stato miserevole, la decadenza è la conseguenza del dominio della religione sulla società. In mancanza di azioni serie di demistificazione, la rigidezza religiosa ha preparato le società musulmane alla «colonizzabilità».
Questa visione oscurantista che inverte gli effetti e le cause, coltivata su larga scala, non educa all'obiettività storica. Nelle sue Illusioni perdute, Balzac faceva già notare che ci sono «due storie: la storia ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata, e la storia segreta dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, una storia vergognosa.»
Gli intellettuali arabi evocano sempre le specificità culturali della regione. Ma nessuno fino ad oggi si è preso la briga di dire che l'autoritarismo politico, l'oscurantismo religioso, l'oppressione della donna, il culto dell'ignoranza e il disprezzo della vita fanno parte anch'essi di quelle specificità che coltivano dai tempi delle indipendenze nazionali!
Quindi riassumendo, l'integralismo islamico e l'odio dell'Occidente esisterebbero comunque, indipendentemente dalla colonizzazione.

La misoginia è nella natura di ogni religione

Fra le testimonianze riportate nel libro c'è quella di Joumana Haddad, giornalista e insegnante libanese, che afferma: “Penso che il femminismo non possa essere teorizzato all'interno delle tre religioni monoteiste. Anzi, parlare di femminismo cristiano, ebraico o islamico è un ossimoro”. Tu cosa ne pensi?
Joumana Haddad, giornalista e poetessa libanese, non chiede il permesso di emanciparsi, ma lo esige e lo prende. Per lei, l'emancipazione comincia con l'educazione, l'indipendenza economica e l'uguaglianza dei diritti tra i due sessi. Ricusa il velo, che non esprime una «diversità culturale» ma è «uno strumento di differenziazione e discriminazione religiosa». Una donna con il burka non può essere femminista. La giornalista auspica l'emancipazione fisica e mentale della donna, e per questo ha creato una rivista culturale erotica «Jasad» (corpi). La donna, insomma, deve vivere i suoi desideri e rivendicarli.
La misoginia è inscritta nella natura di ogni religione. Joumana Haddad ha perfettamente ragione, condivido a pieno il suo punto di vista, che è d'altronde quello di tutti i conoscitori della storia del monoteismo. Come si può parlare di un femminismo ebraico, cristiano o islamico quando si conosce la misoginia intrinseca di queste tre religioni? È una contraddizione in termini, un controsenso.
La nostra amica Joumana risponde in questo caso a una nuova moda del mondo arabo, che vuole islamizzare ogni cosa e con ogni mezzo, per arrivare alla conclusione che tutto è stato inventato dall'islam, persino il femminismo. Si tratta di una manipolazione islamista: il femminismo cosiddetto islamico è una trovata per ostacolare l'emancipazione della donna araba e rinchiuderla nella gabbia della sharia islamica.
Per la studiosa Amal Grami, già citata sopra, lo scopo ultimo del discorso religioso è «consolidare i privilegi maschili». Critica le donne islamiste che si sottomettono, per «disciplina, al servizio dell'interesse generale» e che ritengono «tale sottomissione sia una condizione necessaria del lavoro politico». Considera tuttavia positiva «la concorrenza tra le donne islamiste e i muftì (una delle massime autorità religiose)» nel lavoro di proselitismo. La sua aspra critica è rivolta ai Fratelli Musulmani che accettano la donna unicamente in quanto «moglie, madre, sorella o figlia» e non «fanno spazio alla vedova, alla nubile...». Infatti per realizzare l'umma, è necessario «addomesticare la donna» in modo da giungere al fine ultimo, l'instaurazione della sharia. Il grido di rivolta di Amal Grami cerca di smantellare la cortina di fumo creata dai dirigenti musulmani in Francia, che ritengono la sharia compatibile con la Repubblica.
Parlare di femminismo può forse risultare insolito per certi occidentali, ma è davvero risibile per coloro che conoscono la questione islamica da vicino e, soprattutto, per quelle donne che, nei paesi arabo-islamici, soffrono a causa delle arcaiche leggi religiose.

Il libro di Hamid Zanaz,
La nostra rivoluzione: voci di
donne arabe
(Elèuthera, Milano,
2017, pp. 136, € 13,00)

Critica alla religione o islamofobia?

Un'altra questione delicata che potrebbe essere sollevata riguarda l'opportunità di avanzare critiche all'islam in un momento, come quello attuale, in cui le persone di religione musulmana sono fortemente discriminate. È vero che un libro come il tuo può incrementare l'islamofobia?
Non vedo alcun legame tra il mio libro e una possibile crescita dell'«islamofobia». Tra l'altro anche la parola stessa è problematica perché è stata coniata dagli islamisti per dirottare il dibattito e utilizzare l'antirazzismo a favore della lotta contro la blasfemia. È importante non utilizzarla più per combattere il razzismo invece della critica laica all'islam.
In realtà questo termine ha una storia alle spalle e viene purtroppo utilizzato alla leggera. Nel 1979 i mullah iraniani lo utilizzarono per designare le donne che non volevano portare il velo come «cattive musulmane», accusandole di essere «islamofobiche». È tornato poi fuori all'indomani del caso Rushdie, impiegato da alcune associazioni islamiste basate in Gran Bretagna, come Al Muhajiroun o la Islamic Human Rights. Quest'ultima è una commissione, i cui statuti prevedono «la raccolta di informazioni sugli abusi dei diritti di Dio». Di fatto, lottare contro l'islamofobia è in linea con questa visione, perché l'islamofobia comprende tutti gli affronti alla morale integralista (l'omosessualità, l'adulterio, la blasfemia e via dicendo). Le prime vittime dell'islamofobia, agli occhi di tali gruppi, sono i Talebani, mentre gli «islamofobi» più frequentemente citati sono Salman Rushdie o Taslima Nasreen! In realtà, lungi dal definire un qualsiasi razzismo, il termine islamofobia è chiaramente pensato per screditare chi oppone resistenza agli integralisti, a cominciare dalle femministe e dai musulmani liberali.
Tutti sanno che in realtà si tratta di combattere le critiche mossa alla religione, eppure tutti sono caduti nella trappola dell'«islamofobia». Dopo aver conquistato le associazioni antirazziste inglesi, il termine è arrivato in Francia, dove Tariq Ramadan, al contempo musulmano riformista fondamentalista e militante terzomondista, ne ha permesso la rapida diffusione nell'estrema sinistra. Da allora inquina i dibattiti francesi, finendo sempre per mettere sul banco degli imputati quelli che osano resistere alle interpretazioni politiche e radicali dell'islam.