Botta.../ Ma cosa ci fa un uomo al centro della copertina?
Carissima redazione
quando mi arriva la rivista non la leggo con devozione, ma sempre con interesse e tanta curiosità. Dopo essermi chiesto cosa c'è di nuovo, la sfoglio tutta e poi la leggo con calma di tanto in tanto, non tutta, ma abbastanza per sapere quello che c'è. Le copertine le guardo, ma non sempre mi lasciano un segno, o semplicemente mi parlano. A volte mi sembrano belle, o banali, o «tradizionali» nel voler trasmettere un messaggio anarchico.
Devo dire che l'ultima, quella del numero
420, mi ha fatto quasi arrabbiare. Ora io dico arrabbiare,
ma a una certa età bisogna stare attenti ai salti mortali
che potrebbe fare il cuore. Quindi ripetiamo, appena vista la
copertina, in un primo tempo mi sono detto, ma guarda un po',
questi anarchici (ricordiamoci che la stragrande maggioranza
di loro sono maschietti) perdono il pelo ma non il vizio. Ma
poi, conoscendo la redazione di «A» e lo spirito
di «apertura mentale» che l'accompagna da quasi
mezzo secolo, mi sono detto, in un secondo momento di riflessione
amichevole, che forse la redazione non si era resa conto del
messaggio che la foto poteva trasmettere. Che cosa mi ha trasmesso?
Il titolo recita: le donne sono tornate, quindi si pensa subito che sono tornate per lottare, cosa farebbero altrimenti in copertina di una rivista anarchica? Più sotto si vede quella che sembra una manifestazione dove si distinguono benissimo tre donne giovani che, felici e sorridenti, alzano le mani al cielo unite in quel simbolo femminista che conosciamo da tanto tempo. Eccole, sono giovani e riprendono la fiaccola del femminismo... benissimo. Ma al centro dell'immagine c'è un uomo, un giovane uomo, un maschio con la sua barbetta di una settimana, che non alza le mani, come quelle che forse sono le «sue amiche» femministe, ma neanche un pugno indice di rivolta. Eccolo là, con gli occhiali, che sembra guardare calmo, tranquillo e fiero verso il futuro delle lotte di... queste donne che sono tornate. Voilà, in quest'immagine io ho visto soprattutto questo, la centralità del maschio che sembra di sapere di essere al centro dell'obiettivo.
Carissima redazione, lo so che non è facile scegliere un'immagine per la copertina. Lo so per esperienza. Per questa copertina direi che c'è un'ambiguità che purtroppo toglie molto a quel messaggio femminista che poi è raccontato dai tre testi presentati all'interno della rivista. Io li ho letti con attenzione. E mi permetto, tanto che ci sono, di rilevare anche per essi qualche contraddizione. Da una parte si parla dei diritti conquistati, delle leggi che dovrebbero essere fatti rispettare dal nemico Stato, e dall'altra la necessità autogestire il nostro quotidiano, coscienti di non avere sempre le energie necessarie. E poi naturalmente si parla della violenza del patriarcato che ci circonda, della violenza che esercita contro le donne, ma non sarebbe il caso di ricordare che essa è presente anche nel «movimento», il nostro, quello che abbraccia largamente gli antagonisti e poeti dell'utopia?
Insomma cara redazione, avete ragione ce n'est qu'un début continuons le débat... (“non è che un inizio, continuiamo il dibattito”)
Mimmo Pucciarelli
Lione (Francia)
e risposta/ Una testimonianza contro il separatismo
Quell'uomo in copertina è voluto. Non è il frutto di una nostra disattenzione, è proprio voluto e ha un significato preciso: rivendicare la possibile presenza degli uomini in una manifestazione e in un movimento di donne. In linea con quanto praticato dal movimento “Non una di meno”, a una cui manifestazione (quella dell'8 marzo 2017, a Milano) la foto è stata scattata dalla fotografa Alice Redaelli, di NUDM. E in linea con la nostra concezione dei movimenti, dei pensieri, delle lotte, dei cortei, dei dibattiti: a nostro avviso aperte e aperti a tutti gli individui, senza alcuna pregiudiziale (di genere, provenienza, colore della pelle, classe sociale, ecc.).
La redazione
Torino/
Selvatico (al parco Michelotti)
Parlare di selvatico in un mondo addomesticato equivale a fare
un passo avanti rispetto alle abitudini e agli schemi di pensiero
in cui siamo soliti accomodarci, assuefatti a vivere in un mondo
composto da contenitori quasi completamente non comunicanti.
Tra un contenitore stagno e l'altro: asfalto, parchi gestiti,
assenza di pensiero, movimenti automatici e mancanza di capacità
di vedere cosa accade.
Non
c'è selvatico, in una città, ma spesso non c'è
selvatico neppure nelle campagne, divenute ormai ambiti addomesticati
sui quali la specie umana, intervenendo continuamente su ciò
che la circonda, ha imposto schemi ripetuti di dominio e contraffazione.
Per trovare una parvenza di naturalità bisogna spostarsi
dall'ambiente antropocentrico in cui viviamo, andare lontano
dai luoghi abitati, anche dai più piccoli, spingersi
a latitudini diverse; oppure esiste un'altra alternativa, più
remota, ma importante: riuscire a spiare tra le fessure, negli
interstizi del mondo moderno, nei quali si insinua quella naturalità
che l'essere umano tende a escludere, dominare, trasformare
a suo piacimento; una naturalità prepotente, che approfitta
di ogni singolo momento di distrazione per riappropriarsi di
spazi abbandonati o dimenticati, anche soltanto per tempi brevi.
Proprio questo è successo al parco pubblico Michelotti,
un tempo zoo di Torino e oggi area verde recintata e abbandonata,
ma nuovamente a rischio di privatizzazione per il progetto di
un nuovo zoo.
Lasciato a se stesso per un po', il Parco ha ripreso a respirare
autonomamente. Gli animali autoctoni e migranti hanno ricominciato
a guadagnarsi spazi di vita: gli alberi – che l'amministrazione
comunale ha smesso di gestire – sono cresciuti spontaneamente,
ingrandendosi e sviluppando man mano la forma naturale che li
caratterizza, senza gli schemi imposti dalla gestione del verde
cittadino. Essenze erbacee e arbustive, conosciute e comuni,
hanno ricominciato a proliferare, crescendo e moltiplicandosi
con la forza dei semi nascosti nel sottosuolo, che possono restare
dormienti per anni, fino a quando diventa possibile riguadagnare
uno spazio di libertà.
Il Parco Michelotti è perciò simbolo di questo
processo di rinselvatichimento, proprio perché qui questa
libertà è esplosa e si è accresciuta, le
differenze si sono moltiplicate: l'area verde ha iniziato a
vivere, da sola, senza l'ausilio di nessuno e persino le gabbie
sono diventate spazi da rioccupare, che la natura, poco a poco,
sta includendo, per distruggerle o destinarle a usi molto diversi
da quello per cui erano state pensate: imprigionare esseri senzienti.
Il selvatico è una categoria autosufficiente e come tale
è vissuta da tutti gli esseri viventi, tranne che dall'essere
umano, che ha invece l'abitudine di misurare ogni cosa in termini
di categorie che lo comprendono o che passano attraverso i suoi
occhi.
Il riconoscimento del selvatico scardina questo punto di vista.
Per riacquisire una posizione paritaria rispetto a quella degli
altri esseri viventi, è necessario abbattere le nostre
gabbie mentali, esercitarci a rivoluzionare usanze e pensieri,
cambiare il punto di vista rispetto alle convenzioni alle quali
siamo stati abituati, quelle che pongono la specie umana al
centro di tutto, come il fulcro della vita e della realtà;
addomesticati noi stessi dalla società, dal sistema,
incapaci di vedere e di essere liberi e selvatici. Ogni giorno,
volutamente – anche se forse non consapevolmente –
rinunciamo alla nostra libertà di scoprire e incuriosirci,
appagati e rassicurati dall'idea di mondo che ci hanno insegnato
come reale e immutabile, confortevolmente sistemati tra le abitudini
interiorizzate: la casa, la famiglia e tutte le relazioni, il
lavoro, il nostro modo di determinarci e di definirci all'interno
di una realtà che crediamo di aver scelto e che pensiamo
di stare creando, ma fagocitati da essa, ingranaggi di un meccanismo
su cui non agiamo, incapaci anche solo di vederlo nel suo insieme
La riflessione sul selvatico, la sua osservazione e salvaguardia
crediamo siano una possibilità che, con spunti di originalità
e molteplicità di collegamenti alla vita quotidiana,
si aggiunge alle lotte di liberazione
Contro ogni gabbia
liberi tutti di entrare e di uscire
Michelotti libero
michelottilibero.noblogs.org
A proposito dell'intervista a Hamid Zanaz/ Occhio all'islamofobia
Sebbene trovi origini in epoca molto meno recente (si pensi per esempio a quanto avviene in Palestina), una delle caratteristiche della cosiddetta guerra al terrorismo è il rifiuto netto di riconoscere alle e ai musulmani un'umanità pari a quella di tutte le altre persone.
Non si tratta solo di casi come ad esempio Guantanamo, quanto della vita di tutti i giorni. Le e i musulmani che vivono in Europa (ammesso che riescano ad arrivarci) sono continuamente discriminati, sorvegliati, biasimati, colpevolizzati, nonché spogliati di alcuni dei diritti (come la libertà di vestirsi, la libertà di pregare) che permettono loro di godere pienamente del principio di cittadinanza (quando questa gli viene concessa).
Secondo la vulgata comune che associa tutti i/le credenti nell'Islam come degli avversari politici (da qui l'appello a “dissociarsi”) allo stesso livello degli islamisti violenti, la minoranza musulmana nel cosiddetto Occidente è soggetta a misure d'eccezione esattamente come in tutte le società razziste (si guardi Israele). Il tutto coadiuvato da una campagna ideologica martellante volta a legittimare la discriminazione. Fondamentalismo, fanatismo, tribalismo, misogenia sono di solito gli attribuiti con i quali è dipinta, anche a sinistra e nella cerchia libertaria, tutta la comunità islamica.
Per indicare questa avversione, da tempo viene usato il termine islamofobia. Certo, poiché troppo legato al concetto di “paura” e soprattutto per l'uso strumentale che realmente ne hanno fatto alcune organizzazioni islamiche, forse sarebbe più opportuno usare razzismo anti-musulmano(a). Anche perché spostando l'accento dalla religione alle persone è più appropriato a indicare i molteplici aspetti della discriminazione e dell'oppressione subita dalle e dai credenti (o presunti tali). Non si tratta, dunque, di sostenere una religione, né tanto meno di lasciar parola alla sua parte più conservatrice e contro-rivoluzionaria (dal 2011), quanto di sostenere che una persona non può essere violata o privata dei diritti solo perché musulmana.
Proprio per questo provoca grosso sgomento il fatto che in ambito
libertario circolino delle opinioni come quelle che Hamid Zanaz
ha espresso nell'intervista sul penultimo numero (“Femminismo
e religione. Relazione impossibile”, “A”
419, ottobre 2017). Non solo per l'impostazione data al tema
della sua nuova pubblicazione - di cui non mi occuperò
- quanto per gli argomenti usati nella seconda parte delle risposte
inerenti, appunto, l'islamofobia.
La cosa che mi ha più sconcertato è come Zanaz argomenti le sue risposte con nozioni del tutto imprecise, quando non completamente false. Così, per esempio, sulle origini e utilizzo del termine islamofobia (che è termine coloniale francese e di inizio XX secolo).
Lo stesso quando parla di Arabia Saudita che, contrariamente a quanto detto dall'autore, nel 1911 fu protettorato britannico e da quest'ultimo venne riconosciuto Regno. Altro esempio il celebre cliché: “la loro civilizzazione si è fermata nel XII secolo” in cui Zazaz sembra far sue le idee promulgate già a partire dall'Ottocento dai vari movimenti di rinnovamento e/o. Per il libero pensatore Zanaz i grandi imperi quali quello Ottomano (XIV - XX secolo), quello Safavide (XVI – XVIII secolo), quello Moghul (XVI - XIX secolo), il sultanato Mamelucco (XIII – XVI secolo) ed altri ancora fanno parte della “decadenza” del mondo islamico (sic!). Il che porterebbe comunque a chiedersi se davvero l'autore sia convinto che prima del XII secolo nella civilizzazione islamica (dall'Atlantico al Pacifico, dal Caucaso all'Indonesia) la religione non fosse elemento dominante.
Infine la confusione classica tra arabo e islamico che non tiene conto del fatto che tante e tanti intellettuali egiziani, libanesi, siriani sono per esempio cristiani, ebrei (in Libano ci sono circa 18 confessioni differenti per esempio) e/o atei.
Leggendo l'intervista, dunque, si ha l'impressione che l'obbiettivo di Zanaz sia quello di persuadere chi legge attraverso l'uso di pregiudizi, senza mai provare ad approfondire quanto detto. Che senso ha, per esempio, parlare di misogenia delle religioni, trattandole da fenomeni astorici (da ateo per altro) e senza mai nemmeno citare la parola patriarcato? Che senso ha generalizzare? Non è forse la base di ogni razzismo quello di negare le varie specificità e individualità?
Quanto al dato più politico, a chi sostiene – giustamente - che in quanto persone anarchiche si ha il diritto di criticare tutte le religioni, mi verrebbe da chiedere se sia veramente necessario, oggi, unirsi al coro del razzismo di Stato e delle destre che hanno fatto del razzismo anti-musulmano(a) e del razzismo anti-migrante (di cui una buona parte è musulmana) la loro ideologia dominante.
C'è da chiedersi, infine, se questo tipo di generalizzazioni servano davvero alle donne e uomini che lottano nei paesi a maggioranza musulmana. O se piuttosto legittimano chi mira a imporsi come voce unica dell'Islam (Arabia Saudita in primis).
Costantino Paonessa
costantino.paonessa@gmail.com
I
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Catania – Ct) 10,00; “ricordando P.I.,
la sua compagna”, 800,00; Luca Pelorosso (Sesto
San Giovanni) 10,00; Monica Cerutti Giorgi (Bellinzona
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